La regressione bruta alla bestialità: il corpo come oggetto a disposizione
di Giulia Bovassi
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SE DEPREZZIAMO IL CORPO LO PRIVIAMO DEL CARATTERE EPIFANICO
Leggevo la storia e il successo di Whitney Wolf Herd, fondatrice di Tinder costretta poi a cambiare business per molestie sessuali e, evidentemente, giochi di potere che l’hanno fortemente destabilizzata. Ma non è tanto chiarire i dettagli della vicenda che mi interessa né star qui a soffiare sul piatto prelibato del politicamente corretto rosa.
Leggere la sua storia mi ha fatto ripensare ad un episodio che ho vissuto personalmente: ero minorenne (16/17 anni) in un normale pomeriggio di shopping con le amiche nelle vie del centro di Padova, la mia città. Durante il tragitto che dalla stazione ferroviaria porta al centro incrociamo un gruppo di ragazzi che palpeggia sia me che le altre ragazze nel giro di pochi secondi, al nostro passaggio.
Niente di apocalittico, ma un fatto di gran basso spessore. In ogni caso una forma di intrusione. Ricordo lo scambio di sguardi tra me e le mie compagne: profondamente imbarazzati, irrigiditi e indecisi sulla reazione più “astuta” e “meno pericolosa” da tenere al di là dell’istinto al ceffone da reprimere per lasciare spazio al buon senso!
Il gruppo incrociato era di circa quattro ragazzi – se non sbaglio – comunque giovani, sconosciuti, spavaldi, di una certa stazza e di un’altra nazionalità; tutti elementi che ci hanno istintivamente fatto desistere convincendoci a proseguire per il nostro bene (anche perché quella zona della città non vanta il primato di area più sicura del territorio!).
Perché lo racconto e per quale ragione farne memoria? Perché penso che ci sia un gran vociare di patriarcato, maschilismo, sessismo, orgoglio femminile (anche se poi avanzano ideologie che minano il binarismo e con esso ogni potenziale orgoglio rosa/blu) ma si sacrifichi lo sforzo di guardare al cuore del problema che è bidirezionale, cioè tocca sia le donne sia gli uomini.
La violazione del corpo e la sintomatologia esistenziale che ne consegue è l’idolatria svalutativa del corpo quasi fosse un “soprammobile del piacere” qualunque sul e con il quale agire indisturbati, senza conseguenze; ed è il cortocircuito dovuto al venir meno della disposizione a riconoscerne il valore in quanto appartenente e inerente alla persona, che ha una sacralità ben precisa.
Se il corpo fosse puro organismo grezzo, amorfo, addirittura obsoleto, neutro e spoglio dell’anima che lo abita, come spesso si tende a credere, non vivremmo imbarazzo, vergogna, timidezza e, soprattutto, non ci sarebbe il tanto assente senso del pudore.
Il pudore suggerisce di prendermi cura di me persona – corporeità, anima e psiche – in quanto non esiste (basti guardare gli ultimi mesi trascorsi) alcun possesso assoluto sulla nostra vita (“nessuno si dà, in ogni istante, la vita che vive”).
Ma se deprezziamo il corpo, lo priviamo del carattere epifanico e del suo accesso linguistico-comunicativo all’identità intima e personale, ci priviamo degli strumenti filosofici, antropologici e morali per capire che un approccio consumistico su di esso non fa acquisire un grammo di libertà in più, anzi la devitalizza del suo significato più autentico: quello di esercizio responsabile e consapevole della volontà. Una visione del corpo quale oggetto a disposizione è la regressione bruta alla bestialità.
Non è una cultura sostenibile rivendicare globalmente il valore dell’uomo e della donna, mentre si accetta questo tradimento sul mistero che la persona incarna. Il corpo riguarda la persona e la persona obbliga a desistere da qualsivoglia tentativo/compimento di atti di profanazione su di sé e da sé, su di sé per mano d’altri.
Non tollerare di essere trattati come materiale di selezione, pretesa, commissione, compravendita, scarto, godimento o di frustrazione è una pretesa giusta che attende una consapevolezza antropologica, quindi etica, degna dell’unica creatura in grado di nominare, dare e pretendere la questione di senso.
L’epoca della licenza carnale ci rivela come proporre una società viziata culturalmente dalla nozione di corpo-organismo, oggetto ad uso e consumo, come oggetto d’uso e consumo vedrà trattare gli individui.
Merleau-Ponty diceva: “dire che ho un corpo è quindi un modo di dire che posso essere visto come un oggetto e che cerco di essere visto come soggetto, che l’altro può essere mio signore o mio servo, cosicché il pudore o l’impudore esprimono la dialettica a pluralità delle coscienze e hanno un significato metafisico”.
La vergogna, la privacy, il pudore in sé suggeriscono la dimensione inviolabile della persona che è ed ha il suo corpo ed esso non riguarda esclusivamente il consenso al modo in cui esprime la nostra interiorità, ma appartiene alla persona e in quanto tale alla sua dignità intrinseca.
Un abuso non è tale solo perché l’abusato/a non ha dato il consenso, ma lo è perché offende la bellezza della creatura nella sua dignità che deriva dalla sua appartenenza alla specie umana. La permanenza del danno è nel corpo, nell’anima e nella mente.
Anche una prassi sadica accettata da ambedue le parti è una violazione che lede il rispetto imposto dalla dignità della persona (“tutto mi è lecito! Sì, ma non tutto giova!”).
Le derive che fanno seguito a questo tabù innescate dal disordine morale (uno dei fattori di accelerazione, ad esempio, è la pornografia) alimentano la problematicità della significazione umana e il bisogno della reciprocità gentile, la cui mancanza alimenta a sua volta l’inabilità a riconoscersi come “non soltanto il proprio corpo” e nella condizione relazionale, anziché solitaria.
Nel mio testo (“Guida Bioetica..”) spiego che il pudore è una vergogna positiva (…) premurosa verso il tempio corporeo che ha a cuore la sacralità espressa e custodita. La differenza discende dall’educazione a quella che S. Giovanni Paolo II chiamava “ermeneutica del dono” contrapposta ad una cultura dell’insignificanza e della banalizzazione.
Non serve sottolinearlo, ma è bene farlo, che la riflessione prende spunto dalla lettura di una biografia e dal ricordo di un episodio personale diversi tra loro, con l’unico intento di evidenziare gli effetti sparpagliati ed eterogenei causati dalla svalutazione culturale e morale a seguito dell’abolizione della tenerezza assieme ad una finezza intellettuale ancorata alla verità sull’uomo, sul suo vero bene: la sola capace di arginare la schiavitù ideologica e nichilista.
Mi si dirà che epoche storiche diverse erano viziate da problematiche simili semplicemente più nascoste, ma a costoro direi che una volta riconosciuto il male lo si evita, non lo si ripropone con vesti nuove. I fatti, la contemporaneità, ci parlano di una responsabilità individuale e collettiva.
Siamo chiamati a convertire culturalmente la comprensione della nostra identità per riuscire ad accedere ai tratti umani dell’alterità maschile e femminile, valorizzandola invece di soffocarla distribuendo costantemente mantra nichilistici.
Fulton Sheen diceva: “una locomotiva può esprimersi in due modi: o mantenendo la pressione entro i limiti imposti dal costruttore e dal tecnico, oppure scoppiando e uscendo dalle rotaie. La prima autoespressione è la perfezione della locomotiva; la seconda è la sua distruzione. Analogamente, una persona esprime se stessa tanto obbedendo alle leggi della propria natura quanto ribellandosi ad esse: tale ribellione finisce nella schiavitù e nella frustrazione”.