Le attività degli 007 italiani nell’Albania comunista
di Pietro Licciardi
–
LE OPERAZIONI POCO NOTE DEL NOSTRO SERVIZIO SEGRETO OLTRECORTINA AL TEMPO DELLA GUERRA FREDDA (prima parte)
Quando si parla di spie e di operazioni di intelligence si pensa subito a James Bond o alla Cia, le cui imprese sono state magnificate da Hollywood mentre poco o nulla si sa delle operazioni clandestine condotte dagli italiani dietro la Cortina di Ferro nel periodo che va dai primi anni Cinquanta fino quasi alla caduta del Muro di Berlino.
Di questo ci parla Alessandro Giorgi, divulgatore di storia militare e di problemi di equilibrio strategico, politica estera e sicurezza; membro della Società italiana di storia militare che InFormazione Cattolica ha già intervistato a proposito dei preti combattenti e dei Vikinghi in Vietnam.
Allora, dottor Giorgi, è vero che i nostri 007 si sono dati parecchio da fare oltrecortina?
«Vero. Ed è da notare che pur avendo sempre dato scarso rilievo e aver mantenuto un basso profilo, dal momento che avevamo perso la guerra, noi italiani abbiamo “picchiato duro”, esattamente come gli angloamericani, pur nei limiti del nostro budget limitato»
Quali erano i nostri settori di interesse?
«Nell’immediato dopoguerra non sapevamo ancora esattamente come si sarebbero messe le cose con la Jugoslavia, la questione di Trieste era ancora aperta e dopo la cacciata degli italiani da Istria e Dalmazia dovevamo avere delle informazioni e quindi infiltrare nostri agenti in quel fronte. Inoltre c’era l’Albania, caduta sotto il giogo comunista, dove erano coinvolti inglesi e americani che sobillavano e sostenevano reali, presunti o millantati movimenti di resistenza anticomunisti. Da parte nostra c’era il tentativo di inserirci nel gioco della destabilizzazione per tentare di riportare l’Albania nella nostra orbita. Dopo la rottura avvenuta nel 1948 tra la Jugoslavia e l’Urss il “Paese delle aquile” era rimasto isolato e qualche analista inglese e poi americano si era convinto che lì la situazione fosse più traballante che altrove e sarebbe stato possibile togliere al Patto di Varsavia, allora ancora in via di costituzione, una pericolosa base sull’Adriatico. L’Italia in particolare “pescava” tra i rifugiati albanesi dei campi profughi della Puglia addestrandoli al lancio col paracadute e all’utilizzo delle radio».
Ricordiamo che l’Italia era stata legata all’Albania perché aveva fatto parte del Regno d’Italia.
«Certamente e infiltrazioni c’erano state fin dalla prima Guerra mondiale. Anche per questo buona parte della popolazione albanese comprendeva e parlava italiano. Quando il comunista Eenver Hoxa prese il potere tutti i vertici dei partiti attivi prima e durante la guerra trovarono rifugio all’estero. Gli italiani sceglievano gli agenti da infiltrare tra gli appartenenti al blocco indipendente, che avevano fatto parte del governo telecomandato dall’Italia negli anni del suo dominio in quel paese. Mentre gli americani infiltravano col paracadute i loro agenti da apparecchi pilotati da polacchi, che si erano rifugiati in Inghilterra dopo che la Polonia era diventata comunista, gli inglesi introducevano le loro spie via mare partendo da Malta. Noi italiani invece le paracadutavamo da C47 Dakota forniti dagli Stati Uniti che decollavano da Roma con nostri equipaggi, quindi assumendoci qualche rischio».
Chi conduceva le operazioni? Erano gli americani che ci usavano o potevamo organizzare autonomamente nostre missioni?
«Subito dopo la guerra la situazione era un po’ confusa, come del resto anche negli Usa, dove la Cia nacque diversi anni dopo. L’Italia ci mise un po’ prima di mettere in pista il Sifar, che fu l’erede del Sim, il servizio informazioni militari del periodo bellico. Comunque le nostre operazioni erano gestite in autonomia, anche se gli americani sapevano, per il semplice fatto che erano loro a darci gli aerei. Ci sono state operazioni congiunte ma per quanto riguarda l’Albania ciascuno operava in proprio. Tra l’altro l’Italia, al contrario della Cia e dei servizi segreti inglesi, ebbe la fortuna di non subire la disastrosa infiltrazione ad alto livello dei cosiddetti “Cinque di Cambridge”, il gruppo di spie sovietiche capeggiate da Kim Philby il quale per anni fu a Washington al coordinamento delle operazioni congiunte angloamericane».
Quindi siamo stati più bravi…
«Diciamo che siamo stati immuni dalla catastrofe e le reti che avevamo messo in pista già dagli anni Venti in Medio Oriente, in Turchia, nei Balcani, in Afghanitan e Corno d’Africa son rimaste intatte essendo scampati alla tempesta di questa infiltrazione ad alto livello che hanno avuto gli inglesi e di conseguenza gli americani»
Tornando all’Albania?
«In realtà, la situazione era ben diversa da quella che descrivevano i capi dei movimenti politici dissidenti anticomunisti. Il contadino albanese non era certo ammaliato dal regime di Hoxa ma se l’alternativa era tornare al precedente regime feudale era ovvio preferisse stare dove stava. Per giunta le operazioni che vedevano impegnati da un lato gli inglesi, dall’altro gli americani e poi anche gli italiani lasciavano un po’ sconcertati gli albanesi che non riuscivano a comprendere se tutti agivano con un unico fine o ciascuno aveva i propri scopi da perseguire. Inoltre la ferocia della repressione comunista aveva reso molto deboli o stroncato i movimenti di resistenza. Insomma il regime non era affatto traballante come qualcuno in Occidente credeva e anni di lotta clandestina antitedesca e antitaliana avevano istruito le forze di scurezza albanesi sulle tattiche migliori per snidare gli infiltrati, come quelli che mandava l’Occidente»
E fino a quando le operazioni sono andate avanti?
«Con tutto ciò si è andati avanti fino al 1953-54, quando anche il leader più carismatico della resistenza fu catturato e impiccato. Alla fine inglesi e americani presero atto che tutte le operazioni erano finite molto male e non aveva senso continuare».
Come erano reclutati gli agenti italiani del Sifar?
«C’è stata una certa continuità con i servizi segreti del periodo bellico. Il Sifar conservava uno spiccato carattere militare e normalmente chi veniva reclutato era un carabiniere o un ex carabiniere, qualche volta un poliziotto o un finanziere. Le fonti ovviamente potevano reclutate ovunque. Non si deve dimenticare che nella fase iniziale della guerra fredda – e lo si capisce andando a vedere i fascicoli desegretati della Cia vi era ancora forte l’eredità, che poi si disperse, del Sis, il servizio segreto navale italiano, il più efficiente dei nostri servizi di informazione militari durante la guerra. In esso infatti vi erano personaggi abituati a pianificare e portare a termine operazioni di intelligence e sabotaggio a largo raggio. Loro portarono una professionalità che consentì per tutti gli anni Cinquanta operazioni di livello elevato».
Come mai si preferivano i carabinieri? Forse per la loro attitudine all’investigazione?
«Per la loro attitudine all’indagine, al silenzio e per la loro duplice natura, militare e poliziesca, che li rendeva idonei a muoversi in ambito civile. L’attività del carabiniere non si limita infatti alla caserma ma lo pone sempre in contatto con la popolazione e con gli informatori civili. E poi essendo storicamente legati alla monarchia erano considerati politicamente sicuri anche nel dopoguerra».
Qui la prima parte dell’intervista