Due libri legati da un sottile filo conduttore

Due libri legati da un sottile filo conduttore

a cura di Angelica La Rosa

“IL GATTO DAGLI OCCHI D’ORO” E “IO MI CHIAMO JOSEPH”

Il gatto dagli occhi d’oro” e “Io mi chiamo Joseph“, di Silvana De Mari, sono due libri legati da un sottile filo conduttore, ma che possono essere letti separatamente.

Il gatto dagli occhi d’oro inizia con un prologo dove seguiamo la fuga di due ragazzi che scappano dai nazisti (gli orchi) e grazie alla provvidenziale comparsa di un gatto nero dagli occhi antichi riescono a mettersi in salvo. Il monumento dietro al quale si rifugiano lo ritroviamo nella città che fa da sfondo a questa storia.

Leila ha undici anni e si chiama proprio come la coraggiosa principessa di Guerre Stellari, perché quando è nata a sua mamma amava quel film.

Leila e sua mamma sono povere e vivono in una casa vicino alle paludi e fra i canneti dove la ragazza passa tutti i suoi pomeriggi.

Dopo aver frequentato le elementari in una scuola disagiata Leila si ritrova alle medie, in una scuola borghese, con dei compagni completamente diversi da lei che le fanno pesare il suo abbigliamento, la sua forma fisica e le sue lacune scolastiche.

Non è facile cambiare scuola e iniziare le medie, è un passaggio importante nella vita di una persona, anche quando viene da una “scuola giusta”. Alle medie il mondo si spacca e si ricompone, perché si gettano le basi per l’età adulta.

In questo crogiuolo ricco di scelte importanti si muove Leila, all’inizio in punta di piedi, poi più prepotentemente, riuscendo a farsi accettare dai compagni e dalle insegnanti che lentamente apprezzano la persona che sta diventando.

Poi c’è la povertà, quella in cui la ragazza vive, ma è una povertà solo apparente, perché lei è proprio vicino alle paludi, non possiede un guardaroba di serie A e un televisore funzionante. Però le ricchezze di Leila sono altre: ha il nome di una principessa e la capacità di non deprimersi mai.

La ragazza ha una gran voglia di imparare e sa che la nuova scuola può darle tanto, così stringe i denti e va avanti. In fondo alla sua amica Mayam è stata negata la frequentazione della scuola (perché femmina) e nella sua famiglia di immigrati è ancora in uso la “tradizione” dell’infibulazione, alla quale la sottopongono le donne della sua famiglia.

Sarebbe bello (pensa Leila) se ad un certo punto apparisse la Fata Madrina come in Cenerentola e risolvesse tutti i problemi con un colpo di bacchetta, ma se la fata arrivasse sotto forma di quadrupede? Da quando Leila comincia a vedere un macilento gatto nero con antichi occhi d’oro (il famiglio di una strega?), la sua vita piano piano comincia a cambiare…

La scuola va un po’ meglio, la più brava della classe (Fiamma, che ritroveremo anche in Io mi chiamo Joseph) le presta dei libri perché si alleni con i congiuntivi, Leila condivide il suo sapere con i ragazzi delle paludi e trova un bellissimo basset hound con gli occhi dolci che sarà la sua fortuna.

Il gatto appare e scompare e diventa una specie di “protettore” per Leila che, insieme ai suoi compagni, vince una gara interscolastica. Però piano piano scopriamo che solo Leila può vedere l’animale e lo scintillio dei suoi occhi d’oro.

Alla fine proprio come in una fiaba tutti i pezzi andranno a posto: Mayam verrà curata, a scuola le cose miglioreranno, una buona dose de Il Signore degli Anelli infonderà il coraggio dove è impossibile trovarlo e il padrone del basset hound (che si chiama Favola) è un veterinario deluso dalla vita che si innamora della mamma di Leila e decide di sposarla regalando così a madre e figlia una vita più dignitosa.

Questa è una fiaba moderna di donne guerriere, proprio come Leila di Guerre Stellari e Eowyn de Il signore degli Anelli, donne che combattono per un ideale più grande di loro e nonostante tutto non si tirano mai indietro.

Perché crescere (soprattutto alle medie) è una battaglia, e quando si è donne bisogna combattere un po’ di più.

Joseph è un ragazzo di quattordici anni, metà senegalese e metà nigeriano, è un sopravvissuto delle stragi di cristiani in Nigeria, l’unico superstite del massacro che ha spazzato via la sua famiglia.

Dopo un viaggio lunghissimo verso l’Italia in mano a sfruttatori di bambini mendicanti senza scrupoli, Joseph riesce a fuggire e nascondersi nelle paludi, da solo. Le stesse paludi che abbiamo incontrato nel libro precedente, infatti i due libri sono legati da fili sottili che compongono un arazzo sempre più grande.

Nelle paludi Joseph si mimetizza e vive come può fra materassi abbandonati, bottiglie vuote e sporcizia, cercando di raccogliere qualche soldo con piccoli furti, finché un giorno non decide di rubare un cucciolo (anzi, una cucciola) di basset hound dalla cucciolata del veterinario Rossi (che abbiamo conosciuto bene ne Il gatto dagli occhi d’oro) per incassare la ricompensa.

Il veterinario però capisce cosa è successo, ma decide comunque di aiutare Joseph per insegnargli tutti quei valori che non ha mai potuto imparare.

Il dottor Rossi non è un cavaliere dalla scintillante armatura, è solo un uomo rimasto in contatto con la sua umanità.

Joseph non ha mai avuto qualcuno che si prendesse cura di lui, lui viene dall’inferno e nessuno aiuta chi viene dall’inferno, così all’inizio è titubante, rifiuta anche le cose “gratis” che gli offre il veterinario, perché lui ha sempre vissuto seguendo le sue regole.

Il dottor Rossi però gli insegna che gli uomini sono fatti per vivere insieme seguendo dei codici, non sono animali selvatici che devono farcela da soli.

Così piano piano Joseph si lascia condurre verso una vita normale e – lentamente – permette a chi gli sta vicino di vedere oltre la sua scorza indurita da una vita breve ma che ha già visto troppo.

Joseph grazie al veterinario, scopre anche cosa vuol dire avere un nome e dei documenti che lo identificano, ritrovando così la sua identità.

Importantissimi per la sua educazione saranno i film di e con Clint Eastwood che gli propone il dottor Rossi.

Le pellicole di Clint Eastwood sono piene di codici e regole d’onore che riescono a penetrare la mente del ragazzo ricostruendo i valori etici e presto in lui affiora il desiderio di “cambiare il mondo”, ripristinare in qualche modo l’ordine delle cose.

Ma non bastano i codici, le pistole e le frasi ad effetto per migliorare il mondo di Joseph, perché il ragazzo impara anche come la redenzione passa dal perdono di se stessi (per essere sopravvissuti) e dal perdono dei propri nemici.

Infatti una banda di sfruttatori di minori gli sta dando la caccia ma lui trova il coraggio di denunciarli e farli arrestare, mettendo in conto anche un ultimo sacrificio, se necessario, per ripristinare quell’ordine che si era infranto, perché nessuno essere umano ne può trarre profitto dallo sfruttamento dei bambini.

Joseph è coraggioso, capisce che la sua vita ha un senso perché è vivo ed ha un nome, capisce che deve vivere se vuole diventare un guerriero che combatterà per la giustizia. Ora tutto ha un senso.

Come ne “Il gatto dagli occhi d’oro” anche qui troviamo una componente soprannaturale: un bambino dalla maglietta a righe blu cobalto e verde menta che compare spesso nella vita di Joseph e solo alla fine scopriamo perché.

Anche i colori sono importanti in questo libro, sono i colori dei Caran d’Ache, le matite colorate svizzere più belle del mondo, ogni matita ha un numero che corrisponde ad un colore ben preciso, colori che Joseph memorizza e usa per definire cromaticamente il mondo intorno a lui.

Questa è la storia di Joseph e di nessun altro. Non è un volto scuro in mezzo a mille altri, lui ha un nome, un’identità, una fierezza ed un orgoglio a cui si aggrappa quando è in difficoltà. Il titolo ci anticipa che questa non è una storia qualunque è la storia di un ragazzo che ha un nome, dei valori, delle qualità che altri non hanno, un ragazzo coraggioso che ha visto “oltre l’abisso” ed è tornato indietro.

Joseph è fortunato, ha un nome, e qualcuno che ha deciso di prendersi cura di lui, non è una macchia scura nella folla, uno di quei tanti bambini rimasti senza nome ai quali il libro è dedicato.

“Per quanto enorme sia la notte che mi circonda, io resto l’unico capitano della mia anima (William Ernest Henley).

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