Cara Susanna Tamaro, Giovanni Verga è uno scrittore contemporaneo: lo rilegga!
di Francesco Bellanti
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IN MARGINE ALLE DICHIARAZIONI DELLA SCRITTRICE SUSANNA TAMARO AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO SULL’INSEGNAMENTO DI GIOVANNI VERGA NELLE SCUOLE. NOI SIAMO DALLA PARTE DI VERGA, E VI SPIEGHIAMO PERCHÉ È UN AUTORE ANCORA CONTEMPORANEO
A che cosa serve l’insegnamento della letteratura nella scuola? La letteratura è – parafrasando Eugenio Montale nel suo discorso sulla poesia in occasione della consegna del Premio Nobel della Letteratura a Stoccolma il 12 dicembre 1975 – “un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo, e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile”. Detto questo, proviamo ad aggiungere qualche altra idea. L’insegnamento della letteratura nelle scuole serve a far maturare il senso estetico negli studenti, a fare conoscere mondi sconosciuti, pensieri, parole, sentimenti, in assoluta libertà, senza la pretesa di volere cambiare il mondo, perché la letteratura non ha mai cambiato il mondo, il mondo lo cambia la politica, che proviene soprattutto dalla storia, dall’esperienza dei fatti che avvengono nel mondo, dai conflitti e dai contrasti fra le classi sociali e fra i Paesi. Ecco, la letteratura può farci conoscere tutto questo, ma non possiamo pretendere che ci dia soluzioni.
La letteratura ci aiuta, sì, a sviluppare il senso critico, a capire meglio le cose, ad arricchire il nostro patrimonio linguistico, lessicale, ad affrontare meglio la realtà, a maturare dentro per tornare poi ad apprezzare, crescendo, e a vedere con occhi diversi – come in un circolo virtuoso – la stessa letteratura. La letteratura, insomma, stimola la nostra curiosità verso il conoscere, ci arricchisce spiritualmente, viene incontro nella vita alla nostra richiesta di senso. La grandezza di uno scrittore o di un poeta, dunque, si misura non per la vicinanza delle sue idee alle nostre, ma per la qualità della sua scrittura e per l’importanza che può avere nella nostra crescita personale. Ecco, Giovanni Verga (Vizzini, 2 settembre 1840 – Catania, 27 gennaio 1922) è un grande scrittore proprio per le cose che abbiamo detto: qualità della scrittura e profondo strumento di crescita personale.
Uno scrittore come Giovanni Verga, allora, va insegnato nelle scuole, e per un docente insegnare vuol dire guidare, accompagnare lo studente nel suo percorso di conoscenza dell’autore. È chiaro che uno studente delle medie, a dodici, tredici anni, in genere, da solo, non può avere gli strumenti per apprezzare un quadro di Picasso o una sinfonia di Beethoven, o anche una novella o un romanzo di Verga, forse apprezzerebbe una poesia di Leopardi, ma a modo suo, con i suoi riferimenti culturali. Insegnare, dicevamo, vuol dire fornire gli strumenti allo studente affinché egli possa costruirsi un proprio gusto estetico. Perciò, per esempio, un autore come Boccaccio, con la sua prosa così alta, classicheggiante, ciceroniana, non può essere proposto a un ragazzino di scuola media, ma va proposto nei licei, come Verga, Manzoni e tanti altri grandi scrittori. Ovviamente, insegnare non significa imporre ma proporre, poi l’alunno, dopo avere acquisito gli strumenti per capire l’autore proposto dal docente, può decidere liberamente d’immetterlo nel suo mondo o di rifiutarlo.
Per esperienza personale, posso affermare serenamente di avere fatto amare Verga ai miei alunni, ma con altrettanta serenità devo dire che Verga è uno di quegli autori che viene insegnato male a scuola e che pertanto esce raramente dalla scuola. Qualche novella, Rosso Malpelo, qualche pagina dei Malavoglia e di Mastro-don Gesualdo, qualche traccia agli esami di Stato (male, e questo accade spesso, come nel 2022, quando si chiese agli studenti di analizzare da un punto di vista veristico una novella, Nedda, che non ha niente a che fare col Verismo), e tutto finisce lì. Perché? Prima di dare qualche risposta, vediamo di descrivere a grandi linee il suo mondo e la sua poetica. Cominciando dal famoso Verismo. Perché Verga non fu solo il più grande rappresentante del Verismo.
Verga è uno degli autori che ho insegnato con più passione, in tantissimi anni di docenza, non perché condividessi le sue idee politiche, ma perché mi affascinavano la sua estetica e la sua scrittura, una scrittura che raggiunge livelli altissimi sia nelle novelle che nei romanzi, anche in quelli cosiddetti tardoromantici o mondani (Eros, Tigre reale, Eva, Storia di una capinera), che, a mio avviso, non sono inferiori a quelli veristi. Verga, poi, si prestava a una “lettura” semplice, spiegare il Verismo agli studenti – da parte mia – era un’operazione quasi banale, studenti che comprendevano immediatamente concetti come regressione, impersonalità dell’autore, ciclo dei vinti, lotta per la vita, scrittura oggettiva, naturalismo francese, realismo, progresso, distacco dello scienziato, documento scientifico, il confronto tra Verga ateo e materialista, pessimista, con Zola scrittore democratico e socialista e il suo sguardo dall’alto, il punto di vista esterno.
Anche se il Verismo, tutto sommato, non ha avuto seguito ed è rimasto un fenomeno regionale, bisogna riconoscere che Verga utilizza una tecnica narrativa originalissima, la migliore per potere rappresentare nella maniera più precisa la vita reale dei contadini e dei pescatori. Ovviamente, per la mia formazione culturale e politica, non potevo condividere il suo pessimismo, la sua visione desolata e quasi reazionaria della società, le sue idee patriarcali sulla famiglia siciliana e sulla cosiddetta “roba”, ma certo lui conservatore e aristocratico non poteva rappresentare i pescatori o il mondo della campagna e del lavoro con sguardo pietoso e idillico, come poteva fare, invece, il socialista utopico e cristiano Pascoli.
Verga non poteva essere socialista, e forse anche per questo Antonio Gramsci lo stroncò, perché egli non fu capace di essere dalla parte degli oppressi, dei vinti, degli umili, dei lavoratori, delle organizzazioni partitiche e sindacali. Gramsci non capì, non poteva capire, che la grandezza di Verga consisteva propriamente in questo distacco che gli consentiva di descrivere in modo obiettivo la condizione umana, perché il “lavoro umano” e “la fatica”, per usare le parole gramsciane, solo così esistevano in Sicilia. Anche lui, vittima di una critica ideologica, non letteraria.
Il pessimismo di Verga, è stato detto, ha origini antiche. Certo, è il pessimismo di non crede in Dio ma nel destino tragico a cui nessuno può sfuggire, ricchi e poveri, umili e orgogliosi, superbi. Un destino inteso come Fato o leopardiana Natura che si accanisce contro l’umanità, che non consente di modificare la propria esistenza perché non lascia spazio alla libertà umana. Un pessimismo di tipo orientale, greco, turco, arabo, islamico. Un pessimismo siciliano, insomma, un pessimismo precristiano, che ha impregnato di sé tanta parte della letteratura e della cultura siciliana, da Federico De Roberto a Luigi Capuana, a Luigi Pirandello, a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e giunge fino a Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo. Ma è anche il pessimismo di chi ha capito in modo disincantato come si sta sviluppando il processo unitario, le terribili condizioni e le inquietudini della Sicilia postunitaria.
Una Sicilia destinata alla decadenza, sia nei ceti agiati che negli umili, con contadini e pescatori in cerca di fortuna, nella propria terra o in “continente”, tutti vittime di un falso progresso, perché anche i ricchi soccombono, vittime di un progresso che non capiscono. Si direbbe il pessimismo di chi ha visto solo la miseria. Eppure non è così, perché Verga è un ricco possidente che ha conosciuto il mondo e il progresso moderno, diciamo industriale, ha viaggiato, è stato a Firenze, a Milano, a Parigi, Londra e infine a Roma, come senatore per nomina regia. E la grandezza di Verga sta proprio qui, nel saper narrare – cioè vedere l’intera umanità e il suo inesorabile destino – in modo universale, come Pirandello, il microcosmo della provincia.
Ma la grandezza di Verga è soprattutto nella letteratura, nell’estetica, nella scrittura, che è poi quella che conta per giudicare un autore. Perché Verga ha rinnovato profondamente la scrittura narrativa, creando un miracolo linguistico fatto d’italiano letterario, dialetti italianizzati, fiorentino o toscano parlato. La lingua di Verga è un italiano interregionale letterario, che poi è l’italiano che tutti gli italiani oggi parlano, con interferenze regionali nella pronuncia, nella sintassi e nel lessico, è una prosa che ha ispirato tutti gli scrittori italiani del Novecento, superiore in questo allo stesso Manzoni, che pure è il creatore dell’italiano parlato letterario che è alla base dell’italiano moderno. Verga, inoltre, è grande scrittore non solo per la questione della lingua ma anche per i molteplici temi affrontati – il lavoro, lo sfruttamento dei minori, l’amore e l’interesse economico a esso connesso, il concetto dell’inesistenza della verità, della finzione e della maschera nei rapporti sociali, l’abbandono dell’epica e il teatro che entra nella vita e si fa vita, temi che addirittura anticipano Pirandello, il disagio giovanile, l’emigrazione, lo stupro e il femminicidio, la guerra, l’epidemia.
Detto questo, certamente Giovanni Verga siciliano, scrittore in lingua italiana che scrisse i suoi capolavori a Milano, drammaturgo e senatore del Regno curiosamente nel gruppo della Sinistra storica, è pure l’intellettuale che approva la repressione dei Fasci siciliani, che giustifica anche la sanguinosa repressione dei moti di Milano a opera del generale Bava Beccaris, che non ama la democrazia parlamentare e appoggia il colonialismo e la politica autoritaria del suo conterraneo Francesco Crispi, che passa infine alla Destra storica, che nega il riscatto degli umili che si distaccano dalla tradizione; il Verga conservatore, interventista, colonialista e nazionalista, che aderì all’associazione nazionalista italiana e non nascose simpatie per il nascente movimento fascista e per Mussolini. Ma Verga è anche lo scrittore che, da Novelle rusticane a Cavalleria rusticana, dai Malavoglia a Mastro don Gesualdo, che probabilmente è il suo capolavoro, con pagine immortali, per stile e linguaggio, per complessità di temi e sentimenti, raggiunge vette altissime ed è scrittore di statura mondiale, il più grande scrittore italiano.
Perché allora studiare Verga a scuola? Per la qualità altissima della sua scrittura, e per i temi affrontati che sono ancora attuali, il lavoro minorile sfruttato, le superstizioni, l’avarizia di Mazzarò, l’incanto di Ciàula che scopre la luna, le passioni violente di Sicilia, la condizione umana narrata in modo crudo, veritiero, la famiglia patriarcale di Padron ‘Ntoni, la disperata solitudine e il fallimento esistenziale di Mastro-don Gesualdo, il naufragio dei sogni e delle speranze in un mondo dominato dal falso progresso e dal fallimento di tutti i sentimenti e rapporti umani, delle ambizioni, degli umili, dei poveri e degli emarginati ma anche dei borghesi e degli aristocratici, degli avari. Verga parla della povertà e dell’emarginazione, dell’emigrazione, della diversità, delle sconfitte. Ci parla della povertà e della solitudine dei contadini e dei pescatori, dei minatori, dei pastori, degli emarginati. Dei vinti, di tutti i vinti, di quelli che hanno combattuto e hanno perduto, che potrebbe insegnarci a dare il giusto valore alle cose in questa nostra società così competitiva e performante.
Verga ci aiuta a capire le contraddizioni del nostro tempo, il naufragio di ogni speranza, ma anche la ricerca della verità, la capacità di indignarsi di fronte a ogni sopruso e a ogni violenza. Ecco perché Verga viene insegnato poco e male, perché non viene letto dagli stessi docenti. Che magari si presentano la mattina a scuola non con un capolavoro assoluto come Mastro-don Gesualdo, ma con un libro di Susanna Tamaro.