Dare un assetto federale avanzato all’Italia è oggi una battaglia politica fondamentale

Dare un assetto federale avanzato all’Italia è oggi una battaglia politica fondamentale

di Angelica La Rosa

REGIONALISMO DIFFERENZIATO: PROSPETTIVE E PROBLEMI

Si è svolto ieri pomeriggio, venerdì 31 marzo 2023, il seminario online dedicato al “Regionalismo Differenziato: Prospettive e Problemi”. Trasmesso in diretta dalla Web Tv “9MQ”, unitamente alle pagine Facebook de “La Fede Quotidiana”, di “Informazione Cattolica”, “Movimento Gospa” e altre pagine, l’iniziativa è stata organizzata da UniDolomiti in collaborazione con la rivista “Ambiente e Diritto” e il sito web “Informazione Cattolica”.

Dopo i saluti introduttivi della professoressa Adriana Bisirri e dell’ingegner Gregorio Perillo (dell’International Campus), della professoressa Daniela Di Paola (Vice-direttore della rivista scientifica di fascia A “AmbienteDiritto.it”) e di Francesco Pingitore (Presidente III Commissione consiliare- Consiglio comunale di Belluno), moderati dal dottor Lamberto Colla (direttore di “GazzettadellEmilia.it” e di “QuotidianoWeb.it”) sono intervenuti con delle loro relazioni la professoressa Carmela Capolupo, dell’Università degli Studi “Federico II” di Napoli, il dottor Pasquale Monea, Segretario generale della Città metropolitana di Firenze, il professor Daniele Trabucco (SSML/istituto ad Ordinamento universitario “san Domenico” di Roma/Campus “Unidolomiti” di Belluno), il professor Diego Fusaro, filosofo e docente presso Istituto Alti studi strategici e politici, il professor Carlo lannello dell’Università degli Studi “Luigi Vanvitelli” della Campania, il prof. Francesco Carlesi (SSML/istituto ad Ordinamento universitario o “san Domenico” di Roma/Campus “Unidolomiti” di Belluno), il professore e avvocato del Foro di Vicenza Paolo Menarin (SSML/istituto ad Ordinamento universitario o “san Domenico” di Roma/Campus “Unidolomiti” di Belluno), il professore e avvocato del Foro di Padova Michele Borgato (SSMLJ/istituto ad Ordinamento universitario “Unicollege” di Mantova), il professor Matteo Orlando (resposabile dei siti web “inFormazione cattolica” e “La Fede quotidiana”), Roberto Dal Pan della “Rete civica federalista”.

Pubblichiamo integralmente l’intervento, provocatorio ed utopistico, del professor Matteo Orlando, dedicato ad una riforma veramente federale dell’Italia.

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Abbiamo ascoltato autorevolissimi ospiti sul tema del “regionalismo differenziato” e non mi soffermerò anch’io su questo termine. Mi concentrerò, invece, su altri termini per poi passare ad illustrarvi una mia proposta.

Autonomia” indica “facoltà di amministrarsi”, senza possedere l’indipendenza politica.  Così intesa, però, esce dall’universo concettuale del federalismo per trasformarsi in pratica  amministrativa delegata dal potere unitario centralizzato statale moderno, che esclude rapporti  paritari e consensuali. Le deleghe di poteri autonomi possono pertanto essere ritirate in qualsiasi momento dal potere centralizzato e non costituiscono un argine ai pericoli della tirannide, come invece accade negli ordinamenti federali.

Il “Decentramento” poggia sull’idea che conviene lasciare alle collettività pubbliche territoriali una certa autonomia di gestione in materie marginali e ridotte che il centro statale non riesce a svolgere, senza concedere indipendenza finanziaria e intaccare l’unità sovrana, consentendo al contempo di alleggerire il sovraccarico amministrativo dello Stato unitario centralizzato. Il decentramento  diventa così uno strumento amministrativo di un sistema centralizzato che aspira a mantenere  una certa – falsa – efficacia. Il decentramento, insomma, non intacca la struttura concentrata, verticalizzata e sovrana del potere politico, ne l’unita-centralità del comando. Non essendo una  vera forma di distribuzione del potere non appartiene al campo del vero federalismo perché il decentramento da l’illusione dell’autogoverno, ma realizza solo limitate forme di auto-amministrazione locale e mantiene inalterato il rapporto gerarchico centro-periferia. In ogni caso il decentramento (territoriale o funzionale, tecnico-amministrativo) è sempre una delega dall’alto delle competenze e non realizza mai il principio federale. 

Dal latino devolvere, che significa “trasmettere”, il concetto di “Devolution” è stato utilizzato in Gran Bretagna per indicare la restituzione di una parte dell’autonomia regionale al Galles e alla Scozia, conferendo loro competenze esercitate centralisticamente. A differenza del  decentramento, la devolution fa capo, più che a una delega, a un “trasferimento” permanente di poteri e competenze. Può essere costituzionalizzata e diventare pertanto quasi-irreversibile. Il  ritorno dei poteri al centro del sistema politico potrà così essere deciso soltanto da coloro che li detengono. Ma la Devolution, come il Decentramento e l’Autonomia, non è tuttavia in contrasto con l’organizzazione gerarchica, piramidale e centro-periferia del sistema politico, per quanto possa prevedere assemblee legislative locali e indipendenti dal Parlamento unico nazionale.

Secessione” indica il diritto di uscita di una parte costitutiva di un’aggregazione politica  dall’aggregazione stessa. Evidentemente, un sistema federale per essere tale dal punto di vista  logico deve sempre contemplare, implicitamente o esplicitamente, il “diritto di uscita” altrimenti nega se stesso, dato che il federalismo per sua natura implica il fatto che l’adesione a una federazione necessiti di un atto contrattuale liberamente scelto e come tale sempre revocabile in  caso di cessazione del libero e volontario consenso di una delle parti contraenti. Ma collocando questo diritto di secessione in uno stato attualmente centralistico come l’Italia, si pone questo diritto al di fuori del suo ambito di applicabilità e si rivela impossibile, in quanto non può  esistere razionalmente una posizione che assuma come valore astratto la secessione in ogni  tempo e in ogni luogo, senza che, peraltro, già esista in Italia uno stato federale.

Dopo questo breve excursus terminologico arrivo alla mia proposta di modello federale “sovranista”, comunale e consortile. Sappiamo che le insofferenze nei confronti dello Stato e delle Regioni sono in continuo aumento. Dare un assetto federale avanzato all’Italia è oggi una battaglia politica fondamentale e da molti sottovalutata. E lo dico da uomo del profondo Sud, della Sicilia in particolare. 

Un vero federalismo che esprima il “primato della persona e della famiglia“, il “ruolo strumentale dello stato” e che rilanci il “principio di sussidiarietà” (quel principio che stabilisce che non occorre conferire ad un’entità più  grande, o di grado superiore, un compito che può essere svolto, altrettanto bene, da un’entità più piccola come il Comune, secondo il cosiddetto “criterio di  efficacia”) affonda le sue radici ideali nella struttura della Civitas Christiana ed è per questo che propongo un riassetto istituzionale rispondente al modello di federalismo “sovranista, comunale e consortile” con uno spostamento della competenza, su quasi ogni materia, alla periferia (i Comuni, che diventerebbero il “centro decisionale”), lasciando all’attuale “Centro” compiti di assoluto rilievo nazionale e internazionale (facendo diventare l’amministrazione statale “la periferia”). 

La mia proposta di federalismo prevede una aggregazione politica nella quale si riuniscano comunità politiche indipendenti e autogovernantesi su base consensuale, volontaria e contrattuale (i Comuni e i Consorzi), al fine di conservare l’integrità politica di ciascun membro della federazione, nella quale si conciliano il governo condiviso, l’autogoverno ed il governo limitato. Le precondizioni del federalismo, come lo intendo io, sono la suddivisione del potere su base territoriale fra tre istanze giustapposte e indipendenti (Stato, Consorzi e Comuni) e la non-centralizzazione del potere, che garantisce l’indipendenza delle entità federate per scopi comuni e la sottomissione  dell’esercizio del potere al consenso delle parti che si federano. 

A mio giudizio la non-centralizzazione blocca l’affermazione di regimi di accentramento,  impedisce la revoca di poteri dei quali sono titolari le entità federate, cioè i Consorzi e i Comuni, e costituisce un blocco al pericolo di tirannide rappresentato dalla concentrazione del potere nella mani della sola struttura statale. 

Il vero federalismo che propongo è necessario per arrivare ad una società organica e dinamica, formata non da un insieme di individui ma da un insieme di  famiglie (nel senso proprio del termine, cioè l’unione di un solo uomo e di una  sola donna aperti alla vita e per tutta la vita) e di corpi intermedi, posti tra un singolo individuo e quella “famiglia di famiglie” che è un vero Stato eticamente sensibile. 

Tutta l’Italia è, da secoli, una federazione di città. L’alternativa allo stato nazionale centralista e burocratizzato, non è una Italia con un “regionalismo differenziato”, o con uno pseudo “federalismo su  scala regionale” ma un’Italia Federale Municipale e Consortile. Occorre una vera controrivoluzione federale municipale: non è più possibile, né economicamente vantaggiosa, la trasformazione delle strutture  statali esistenti in organi di un governo pseudo-federale. 

Il Comune è il tassello fondamentale di ogni nazione veramente democratica,  perché solo nei comuni può essere esercitato il controllo diretto dei cittadini sui  poteri pubblici. In Italia, in particolare, derivando dalle antiche civitates, il comune è una entità  economica e politica diffusa in modo puntiforme sul territorio. Oggi i sindaci hanno una grande forza  rappresentativa, tratta dalla diretta legittimazione popolare. Occorre però che tale autorevolezza si traduca in effettiva capacità di governo.  Questo esige di liberare i comuni dalle infinite pastoie burocratiche centralistiche e di fare corrispondere responsabilità politica e capacità di azione, autonomia amministrativa e responsabilità fiscale. È evidente, tuttavia, che tale concreta capacità di azione del governo locale non può essere esercitata nello stesso modo nei circa 8 mila comuni italiani. In ogni paese federale sono presenti comuni piccoli e grandi. Anche se sarebbe auspicabile l’omogeneizzazione della dimensione media dei comuni intorno ai 10 mila abitanti, attraverso fusioni e unioni dei comuni più piccoli. È un dato di fatto che più piccolo è il territorio, meglio è amministrabile e  gestibile, minori sono le dimensioni e minori saranno i problemi per gestire una determinata materia, minori saranno i costi e maggiore sarà la rapidità della  soluzione e la soddisfazione del cittadino. Tuttavia ritengo che sia opportuno differenziare le funzioni e le “Costituzioni federali” di alcune grandi città (propongo, per varie ragioni, queste dieci realtà: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania) dagli altri comuni federali, mentre per i comuni federali con pochi abitanti sarebbe opportuno favorire un processo di integrazione funzionale e di aggregazione  strutturale. Le città più popolose che ho indicato dovrebbero ottenere maggiori competenze che permettano loro di creare delle vere e proprie città federali metropolitane. Infatti un grosso centro può organizzarsi meglio di uno più  piccolo in quanto ha più risorse umane e materiali da mettere a disposizione della  collettività e può godere di una maggiore economia di scala nel fornire servizi. Naturalmente, comuni in località montane, o con scarso numero di abitanti, debbono erogare ugualmente certi servizi, indipendentemente dalla collocazione geografica o dal  numero degli abitanti. Nella mia proposta certe aree geografiche contigue dovrebbero offrire dei servizi in maniera consortile, creando così degli enti pienamente funzionanti e vivibili. Anche la fusione o l’unione dei comuni più piccoli potrebbe aiutare le piccole realtà a superare il problema della frammentazione e a sviluppare un  proficuo federalismo comunale e consortile. 

Nel modello che propongo, che si basa sul movimento che va in direzione delle cose e non delle persone, è sul territorio dei singoli comuni che meglio si può operare la tassazione sulle cose. Inoltre, la tassazione più è locale e più si collega al criterio del ‘pago per  avere qualcosa in cambio di visibile e di riscontrabile’. Consapevole che offrire un multilivello dei poteri decisionali richiede anche una maggiore responsabilizzazione politica e gestionale degli amministratori comunali  – e che l’attuale offerta centralizzata dei beni pubblici ostacola l’adeguamento dei servizi alle esigenze locali e attenua l’associazione tra imposte pagate e prestazioni dei servizi, rendendo il controllo politico dei cittadini contribuenti meno diretto  ed efficace – secondo la mia proposta: 

– ogni Comune dovrebbe avere una propria “Costituzione federale”; 

– ogni Comune dovrebbe poter predisporre una vera e propria “legge finanziaria  locale” che incida direttamente sulla distribuzione del carico fiscale nei confronti di singole categorie di cittadini e valorizzi al meglio il patrimonio comunale, cogliendo appieno ogni opportunità di investimento; 

– ogni Comune federale dovrebbe poter contare su un unico tributo, che si potrebbe chiamare “Tributo Unico Federale“, perché è solo la certezza di una fonte di finanziamento determinata e  costante nel tempo che garantisce il corretto svolgimento del ruolo di Comune  federale. 

Il “Tributo Unico Federale” dovrebbe racchiudere tutte le attuali fonti di  finanziamento dei Comuni (tributi, sovrimposte, tariffe, altre entrate) che rappresentano, approssimativamente, i 2/5 delle entrate correnti complessive (gli  altri 2/5 sono rappresentati dai trasferimenti da parte dello Stato e altri Enti e 1/5 da entrate extratributarie, soprattutto indebitamento);

– le risorse finanziarie raccolte nei Comuni dovrebbero rimanere almeno al 55% dove sono state reperite, mentre il restante 45% dovrebbe essere destinato per un  terzo ad un fondo unico federale per le aree svantaggiate, per un altro terzo al  fondo unico federale per i Consorzi e per l’ultimo terzo ad un Fondo unico per le  spese federali. Questo perché, al fine di mitigare le diversità economiche che esistono tra aree geografiche diverse, un sistema veramente federale dovrebbe contemplare un meccanismo che possa soccorrere le comunità in difficoltà finanziarie, comunità  che non potrebbero far fronte agli impegni con i propri cittadini perché  finanziariamente più deboli. E i meccanismi ipotizzabili sono di due tipi: una compensazione orizzontale tra i comuni più ricchi e quelli più poveri della  nazione; una compensazione verticale dallo Stato verso i suoi Consorzi e Comuni più poveri;

– sarebbe necessario riqualificare la contribuzione Comunale in riferimento sia al beneficio ritraibile (per cui ciascuno potrebbe essere chiamato a pagare in  proporzione all’utilità che trae dai servizi pubblici collettivi), sia al principio della capacità contributiva per oggettive ragioni di solidarietà;

– Comuni e Consorzi dovrebbe avere un Governatore (che dovrebbe guidare da 4 a 12  Delegati federali, eletti assieme a lui) e un’Assemblea Federale. Governatore, Delegati e Assemblea dovrebbero essere eletti dai cittadini con un sistema a doppio turno, proporzionale, con soglia di sbarramento al 5%, come avviene  attualmente per l’elezione del Sindaco e dei Consiglieri Comunali. La stessa legge elettorale, a doppio turno, proporzionale, con soglia di  sbarramento al 5%, dovrebbe essere estesa all’elezione diretta del “Sindaco  d’Italia”, cioè il Premier federale (e della squadra dei ministri federali che  governerebbero con lui), della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica (che dovrebbe diventare un ramo del Parlamento proteso a rappresentare esclusivamente gli  interessi dei Comuni e dei Consorzi federali);

– ogni Comune dovrebbe avere competenze esclusive, per esempio, in ambito  sociale e culturale, nell’approvvigionamento energetico e nella costruzione delle strade locali, nella pianificazione locale e sul Tributo Unico Federale (in tutte le  sue fasi: dall’imposizione alla liquidazione, passando dall’accertamento fino alla riscossione dal contribuente), nelle politiche del lavoro e sugli eventi sportivi; nella gestione della sicurezza locale e nella tutela delle produzioni (agricole, artigianali e  industriali) locali. 

– Circa i Consorzi, nella mia proposta i compiti che, per la loro complessità, non potrebbero  essere assunti direttamente dai Comuni federali dovrebbero essere gestiti in maniera cooperativa, attraverso l’istituto dei Consorzi, più o meno permanenti tra Comuni, realizzando così la cosiddetta “cooperazione federale orizzontale”. Tali aggregazioni dovrebbero sostituire le attuali regioni e province. Occorre conservare enti intermedi tra Stato e realtà federali comunali. Ma non le attuali regioni e province realtà fallimentari e burocratiche, ma nuovi apparati amministrativi interamente originali (i Consorzi tra Comuni  federali), lontani dai modelli burocratici tradizionali, e che quindi si potrebbero  preventivamente vaccinare contro la corruttela clientelare. Chi, infatti, può negare che le attuali strutture regionali siano precarie, mal gestite, dominate dal clientelismo. Il merito, i concorsi, le promozioni sulla base delle valutazioni comparative ed aperte, la misurazione dell’efficienza, l’attenzione per i bisogni dell’utenza, sono sconosciuti per la maggior parte delle Regioni. In Italia esistono strutture inutili e fuori dal controllo dei cittadini (enti sia provinciali che regionali, ma anche statali), che  rappresentano il 99% dei ‘soggetti decisori’, più di centomila, che il CENSIS anni fa aveva segnalato come freno gigantesco allo sviluppo economico moderno del paese.

– lo Stato federale dovrebbe avere competenze esclusive, per esempio, nella politica estera e di sicurezza federale; nella difesa dei confini nazionali e nella  politica monetaria; nella legislazione valida a livello nazionale e nella difesa  “sovranista” degli interessi locali e federali all’interno degli organismi sovranazionali; nel sistema di difesa militare, nell’amministrazione della giustizia penale e nella Sanità Pubblica, quest’ultima dovrebbe essere una competenza federale nazionale perché “regionalizzare” la Sanità ha fatto nascere 20 Sanità diverse, non garantendo gli stessi standard qualitativi per tutti gli italiani, cosa inaccettabile in uno stato che ha a cuore  tutti i suoi cittadini. 

– Stato e Comuni federali dovrebbero avere “competenze competitive” in alcune  materie: Istruzione, Giustizia Civile, Telecomunicazioni e Innovazione Tecnologica ecc.  Ricordo che il “federalismo competitivo”, tanto vituperato in Italia, prevede fonti di potere (federazione ed entità federate) nettamente separate e giustapposte (dualismo) per garantire l’autogoverno ed il potere diviso, permette la competizione per l’acquisizione di risorse (anche fiscali) ed induce la concorrenza istituzionale, che va a vantaggio del cittadino. Il “federalismo competitivo” obbliga i governi locali a migliorare i servizi (rendendoli più efficienti), a ridurre i costi e ad effettuare migliori stime delle preferenze del cittadino per i beni  pubblici.

Ritengo importantissimo un fatto: in fase di ridefinizione delle competenze e dei poteri in senso federale si dovrebbe stare attenti a non mettere al centro del federalismo il problema delle entrate  fiscali perché ciò comporta due rischi: che i cittadini identifichino il federalismo con nuove imposte; che si confermi la strana mentalità che prima entrano i soldi e poi si vede cosa farne. Al contrario uno Stato dovrebbe mettere al centro prima i servizi che intende offrire e gli investimenti che vuole effettuare per la collettività e poi, in base ad un rigoroso criterio di pareggio del bilancio, dovrebbe pensare alla copertura  mediante le entrate tributarie, raccolte con una politica fiscale giusta ed equa. 

Nella mia proposta di federalismo i Comuni non sarebbero unicamente organi amministrativi ma corpi sociali che potrebbero fare scelte politiche. I cittadini, così, troverebbero soddisfazione e risposte nella soluzione dei loro problemi rivolgendosi al Comune e non ad enti burocratici distanti, come possono essere  le attuali regioni e gli apparati dello Stato. 

Un territorio ristretto sarà portato a governarsi  con regole più semplici di quelle di un territorio più vasto. In un ambito Comunale-Consortile è più facile immaginare che gli interventi sarebbero mirati a risolvere piccoli e medi problemi attraverso azioni più efficaci e con un effetto a  breve o medio termine. 

La partecipazione all’Unione Europea e alla moneta unica europea (o per meglio dire un regime di cambi fissi) da parte dell’Italia comporta doveri di rigore finanziario che hanno reso, e renderanno, sempre più difficile l’azione di riforma in senso federale dello Stato italiano. La mia idea di sovranismo, collegata al federalismo e all’articolo 1 della  Costituzione Repubblicana (“La sovranità appartiene al popolo…”) non è quella  relativa al concetto “dogmatico” di sovranità come sinonimo di “potere  indivisibile” e non va confusa con la pericolosa ideologia del “nazionalismo”. Nella mia proposta federalista intendo la “sovranità” in relazione alla giusta reazione di uno stato federale al centralismo europeo, rappresentato dai poteri forti e dalle varie lobbies che condizionano ogni attività del Parlamento Europeo e, soprattutto, della Commissione Europea. 

Secondo la mia proposta di riforma dello Stato in senso veramente federale su base comunale e consortile, si ridurrebbero di molto i costi perché: si assottiglierebbe la burocrazia, si ridurrebbero gli sperperi, si raggiungerebbe una migliore funzionalità dell’amministrazione. Questo perché pochi, chiari e funzionanti livelli di governo assicurerebbero una maggiore garanzia di  democrazia e di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Ancora, la cooperazione tra territori dotati di ampia autonomia politica, amministrativa e finanziaria, potrebbe essere realmente la base del rilancio  economico del Mezzogiorno (con gli opportuni accorgimenti antimafia necessari) e la fine dei forti divari economici nazionali. 

Con il mio modello federale comunale e consortile si potrebbe veramente attuare la sussidiarietà, quel principio che affida, come detto, le competenze alle sovranità politiche partendo sempre da quelle più vicine ai cittadini. Il governo locale del territorio, fondandosi su dei comuni federali, diventerebbe la  base del potere democratico dove i cittadini, e non i partiti, sarebbero il centro del  potere politico della nazione ed ad essi sarebbe affidato, in ultima analisi, il potere  di modificare le regole costituzionali, compresa la distribuzione delle competenze.  

Nella mia proposta federalista, a differenza di quanto pensano i centralisti  europei, ogni amministrazione locale deciderebbe in termini di costi e benefici (secondo il cosiddetto principio di efficienza) agendo in maniera molto ponderata. In secondo luogo, i Comuni federali agirebbero rispettando il principio di  responsabilità, quello che vuole che i cittadini amministrati siano posti in grado di controllare, indirizzare e giudicare l’operato dei loro amministratori per quanto riguarda le decisioni di spesa e di entrata. In terzo luogo, il criterio del beneficio si combinerebbe con quello di capacità contributiva e agevolerebbe l’attuazione del principio di responsabilità rendendo, con riferimento ai servizi locali, più direttamente percepibile il collegamento tra i prelievi subiti e i vantaggi derivanti dalle spese. Infine, il principio  di solidarietà imporrebbe l’intervento perequativo a favore delle realtà federali più  povere per il finanziamento dei diritti fondamentali di cittadinanza sociale. All’Unione Europea, che sta procedendo secondo una prospettiva simil centralistica, viziata da un pauroso deficit di rappresentatività democratica, dobbiamo rispondere “sovranamente” ex art. 1 della Costituzione, difendendo gli  interessi degli italiani attraverso un’Italia pienamente federale.  

Un vero federalismo comunale-consortile potrebbe migliorare l’efficacia complessiva dello Stato federale nella prestazione di servizi ai cittadini, con tutto vantaggio nella lotta alla criminalità organizzata (intesa come anti-stato). Naturalmente occorrerebbe bloccare le penetrazioni mafiose. Enti locali con molti poteri (e di conseguenza molti soldi) diventerebbero molto appetibili per le Mafie e potrebbero essere più facilmente conquistabili rispetto al potere politico nazionale. Questo si potrebbe riflettere anche sul possibile inquinamento della classe  amministrativa: se questa è aperta alla corruzione, la Mafia ha i soldi e i mezzi per  corromperla (o comunque “normalizzarla”). Però, mentre in un sistema di tipo  centrale un funzionario “infedele” o manovrabile può essere trasferito da una  regione all’altra dell’Italia, viceversa, questo non può avvenire in un sistema di tipo federale (nessun Comune diverso da quello di appartenenza sarebbe disposto a prenderlo). Sarebbe essenziale l’istituto del licenziamento “in tronco” per ogni dipendente pubblico condannato, con sentenza passata in giudicato, per reati contro “la cosa pubblica”. 

Caratteristico di un sistema fortemente decentrato è anche il rischio di un  elevato tasso di corruzione. Una rete amministrativa e burocratica estesa capillarmente sul territorio moltiplica le occasioni di corruzione (e non può essere diversamente, dato che ogni struttura decentrata deve comunque, per giustificare  la propria esistenza, esercitare un potere). Per arginare questi fenomeni, utilizzando le moderne tecnologie, è possibile costituire delle banche dati incentrate sulle consistenze patrimoniali di dipendenti e amministratori pubblici, evidenziandone le modificazioni, in positivo o in  negativo, sospette. Un forte incremento dei poteri locali porta come conseguenza anche la necessità di una selezione di personale a livello comunale e consortile. Oggi i concorsi svolti su base locale non sono molto selettivi (anzi sono spesso esposti a forti pressioni politiche) mentre un più elevato numero di candidati  rende i concorsi nazionali un po’ più selettivi. In un’Italia pienamente federale bisognerebbe, quindi, vigilare sulle fasi concorsuali locali reclutando la commissione esaminatrice anche tra rappresentanti delle forze di Polizia e della Magistratura. 

Nelle zone ad alta densità mafiosa, l’infiltrazione della criminalità organizzata nella vita pubblica dovrebbe essere contrastata dal potere giudiziario e dalle forze dell’ordine, entrambi strutturati a livello statale, ma con forte radicamento  territoriale. Tutte le difficoltà sin qui esposte, comunque, non portano, come conseguenza forzata, quella di limitare il sogno di un’Italia federalista per diminuire la portata dei danni che l’infiltrazione mafiosa potrebbe arrecare agli enti federali e  consortili.

In conclusione, il nuovo sillogismo federale dovrebbe essere: collettività socio-economica  “delegante” e amministratori federali “delegati” a garantire il proficuo funzionamento delle città. Lo schema a cui tendere dovrebbe essere il seguente: Stato Nazionale come “Spazio di integrazione e macroeconomie”; Consorzi di  Comuni federali come “Spazio economico di sostegno e di sviluppo alle comunità  locali”; Città metropolitane/Comuni federali come “Spazio del quotidiano”. Con un tale federalismo a geometria variabile, un compito dei Consorzi potrebbe essere quello di definire il “livello dei servizi” che dovrebbero essere forniti ai  cittadini e, in alcuni casi (come quello tributario), dovrebbe definire delle leggi  quadro per rappresentare i limiti o l’orientamento entro cui i Comuni dovrebbero operare.  Come ho già detto, opportune leggi statali potrebbero definire il livello di  compensazione economica (orizzontale e verticale) per promuovere la solidarietà  tra aree economicamente diverse sia all’interno del territorio comunale che su  tutto il territorio nazionale. La transizione dal centralismo al federalismo prevederebbe una prima fase con  non solo una nuova costituzione e leggi ma anche una notevole mole di attività di  tipo organizzativo, atta a rendere operante la riforma stessa. I passi da seguire sarebbero: 1) Entrata in vigore della nuova costituzione, o delle modifiche necessarie alla  attuale per farla diventare la Carta Costituzionale dell’Italia Federale Municipale,  in un contesto consortile; 2) Entrata in vigore delle nuove leggi locali; 3) Elezioni concomitanti presso tutti i nuovi comuni e città federali.  4) Costituzione dei Consorzi tra i Comuni Federali.

È evidente che in una auspicabile Italia federale le nostre 200-300 mila leggi e leggine non avrebbero senso. La transizione da uno stato centralista ad un’Italia Federale Municipale, passa, necessariamente, dalla riformulazione e drastica riduzione della  nostra legislazione. Utopia? La semplificazione legislativa passa attraverso la ricerca delle  soluzioni più semplici a livello locale e che necessitano di meno personale, di leggi meno complesse ed immediatamente attuabili e comprensibili. In un futuro sistema federale con un livello di notevole semplificazione dell’impianto legislativo rispetto alle attuali leggi, si richiederebbe comunque un personale politico ed amministrativo meno “sofisticato” di quanto oggi serva per navigare nel complesso mondo del diritto. È evidente che più ristretto è l’ambito  di governo, maggiore sarà la necessità di semplificare. Poche e semplici leggi renderebbero snella la Pubblica Amministrazione e terrebbero basso il carico fiscale. 

Con il federalismo comunale e la delegificazione necessaria anche la vita degli impiegati sarebbe semplificata e resa libera dalle sabbie mobili di una legislazione complessa, contorta e contraddittoria, come quella odierna.

“Federalismo Municipale, in un contesto consortile” vuol dire che le opere e i servizi locali si finanziano con le risorse locali (e con titoli di debito emessi a livello locale), tutto sotto la responsabilità degli amministratori locali. 

I comuni non dovrebbero vivere, quindi, di trasferimenti statali ma di tributi locali, che a loro volta si pagherebbero per finanziare le spese locali. Senza validi tributi propri, non si potrà parlare di federalismo ma solo di centralismo connotato solo dalla compartecipazione a tributi erariali. L’imposta principale da affidare al livello statale dovrebbe essere l’IVA. Gli introiti dell’IVA si prestano bene ad un impiego in favore della solidarietà, poiché tra i  compiti assunti dal livello statale ci dovrebbe essere la compensazione economica tra aree  finanziariamente diverse. L’IVA verrebbe così versata principalmente (come volume) da quei  comuni in cui più forti sono i consumi e parte di questi introiti tributari potrebbero essere  utilizzati come contributi alle zone economicamente più deboli. Un altro buon criterio mi sembrerebbe quello di affidare le imposte dirette ai Comuni e  la maggior parte delle imposte indirette allo Stato. Alcune imposte indirette (come, ad esempio, quelle sugli alcolici, sulle sigarette, sulla benzina  e simili) dovrebbero rimanere di competenza statale ancorando il loro gettito alla spesa che lo Stato sostiene per quegli stessi settori. Così, per esempio, le imposte su sigarette ed alcolici potrebbero contribuire alle entrate del sistema sanitario che si occupa di curare coloro che  sviluppano patologie legate a questi vizi. 

Per quanto riguarda i Comuni federali, come detto, ognuno di essi dovrebbe avere una propria legge tributaria in cui stabilire la normativa per i cittadini residenti nel suo territorio e le modalità per emettere buoni ordinari comunali e partecipare alla “finanza di progetto”. Il federalismo comunale dovrebbe prevedere poi degli uffici locali intenti a controllare tutte le dichiarazioni, non alcune a campione come accade adesso. Tutto ciò potrebbe diventare possibile solo arrivando ad ottenere un rapporto di un controllore fiscale per ogni 1000 contribuenti, in quanto questo rapporto consentirebbe di verificare in modo approfondito mediamente 5 dichiarazioni al giorno. Il costo di una simile organizzazione tributaria, non troppo dissimile dall’attuale, sarebbe ricompensato dalle entrate tributarie che, conoscendo l’attuale livello di evasione ed elusione, non potrebbero che aumentare, consentendo, grazie all’allargamento della base imponibile, una più equa distribuzione del carico  fiscale.  

Non è possibile dettagliare ulteriormente le attività e l’organizzazione per arrivare alla ristrutturazione in senso federale dello stato italiano. Molto dipenderà, infatti, dalla prima fase e dai contenuti del modello federale scelto. A mio parere non è realizzabile un federalismo graduale nel tempo per argomenti (prima alcune competenze e dopo alcuni anni altre) in quanto questo si risolverebbe in un processo troppo lungo nel tempo ed in una fase riorganizzativa continua, logorante e costosa sia per lo Stato che per le realtà locali. Essendoci compiti che nei paesi federali sono tipicamente comunali, tanto vale affidarli subito a questo livello. Una sola fase di riorganizzazione, infatti, articolata sul trinomio Stato – Consorzi – Comuni federali, costerebbe molto meno ai contribuenti del conservare le altre articolazioni intermedie oggi esistenti.

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