Il “vorrei ma non posso” della Corte Costituzionale in tema di obbligo vaccinale
di Vincenzo Baldini*
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LE MOLTEPLICI E (QUASI) TUTTE CRITICHE PRESE DI POSIZIONE DELLA CONSULTA
Alla fine, la Corte Costituzionale (sentt. nn. 14, 15 e 16 del 2023) ha emesso le tanto attese decisioni rigettando tutte le questioni sollevate dai giudici remittenti sulla legittimità, rispettivamente, dell’obbligo vaccinale, dell’obbligo di sottoscrizione del consenso informato anche per chi fosse costretto al trattamento vaccinale per obbligo di legge nonché della mancata previsione di un assegno di mantenimento al lavoratore sospeso in ragione dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale.
Non è questa la sede per un’analisi critica approfondita, sul piano scientifico, delle decisioni in parola; queste ultime, del resto, un po’ come tutta la vicenda relativa alla gestione dell’emergenza sanitaria, producono un effetto divisivo, simmetrico a quello che separa favorevoli e contrari all’obbligo vaccinale.
Nondimeno, non ci si può esimere da alcuni brevi considerazioni che tali dicta giurisprudenziali inevitabilmente sollecitano, a partire da una chiara digressione rispetto agli stessi precedenti di questo giudice.
Da tempo, infatti, (sent. 258/94) la Corte Costituzionale aveva definito tre essenziali presupposti per l’ammissibilità costituzionale della previsione di un obbligo vaccinale, vale a dire, che la vaccinazione preservi lo stato di salute di chi vi sia obbligato; che essa non incida negativamente sullo stato di salute dell’obbligato, se non per le sole conseguenze ritenute “normali e pertanto tollerabili”. In fine, per il caso di danni gravi sia prevista l’erogazione al danneggiato di un equo indennizzo. Quest’ultimo caso era dunque ritenuto dalla Corte come un accadimento eventuale, non rientrante tra gli effetti normali, né prevedibile.
Queste ultime decisioni, invece, sembrano revocare in dubbio un tale asserto: la Corte precisa che anche in merito a vaccini meno sicuri, in grado di causare effetti gravi sulla salute individuale al legislatore ordinario, in virtù del disposto di cui all’art. 32 c. 2., Cost., spetta la decisione sull’introduzione o meno di un obbligo di vaccinazione.
Tale parametro costituzionale, dunque, legittima anche l’assunzione di “scelte tragiche” del legislatore circa la responsabilità di un obbligo di trattamento sanitario condotto con farmaci non assolutamente sicuri per lo stato di salute dell’obbligato. Nel contempo, il giudice ha anche precisato che quella di sottrarsi all’obbligo vaccinale resta comunque una scelta legittima del singolo, pertanto, non ha qualificato come sanzione la misura della sospensione della prestazione lavorativa ritenendola, invece, una sorta di conseguenza logica di prevenzione, allo scopo di limitare la propagazione del contagio.
A parte ogni disquisizione dogmatica sul significato della sanzione nello schema ipotetico della norma giuridica, sorprende ancor più la ritenuta non irragionevolezza della previsione che esclude, per il lavoratore sospeso, la corresponsione di un assegno di mantenimento, vale a dire di un emolumento di natura tipicamente solidale. Tale corresponsione avrebbe infatti costituito per il lavoratore sospeso, nella circostanza sopra descritta, l’unica forma economica sussidiaria al fine di assicurare a se stesso e alla propria famiglia un’esistenza (ancora) libera e dignitosa (art. 36 Cost.).
La Corte però ha deciso di ignorare del tutto la condizione di fatto e di diritto conseguente alla privazione, al lavoratore sospeso ed al suo nucleo familiare, di ogni emolumento, di natura sia retributiva che solidale. Essa pertanto ha rinunciato, su questo punto, ad ogni autentica operazione di bilanciamento degli interessi concorrenti che, invece, ha riguardato da un lato il divieto legislativo, dall’altro l’alternativa del lavoratore di vaccinarsi o di perdere ogni forma di sostentamento economico.
In conclusione, le percezioni che la lettura di tali decisioni lascia suscitare sono molteplici e (quasi) tutte piuttosto critiche.
La Corte Costituzionale prima di tutto ha inteso evitare ogni possibile conseguenza negativa di un conflitto con altri organi anche di garanzia costituzionale, approvando integralmente la strategia intrapresa dal governo.
Le conseguenze politiche dei suoi pronunciamenti hanno finito inevitabilmente per fare parte dello strumentario paradigmatico extragiuridico, di cui il giudice si è servito.
Su un orizzonte costituzionale più ampio, poi, l’orientamento premiale espresso verso la tutela degli interessi generali -funzionalità del sistema sanitario, alleggerimento del carico sanitario, salute collettiva, etc.- ha finito per relegare in un problematico cono d’ombra la centralità della persona, la tutela della sua dignità, umana e sociale, ritenendoli condizioni cedevoli rispetto alla dimensione della Totalità (sociale, politico, statale). Sembra quasi naturale, così, che l’orientamento tuziorista della Corte Costituzionale, espresso in decisioni tutt’altro che scevre da punti deboli, di metodo e di merito, possa indurre i giudici di merito ad eludere la via processuale del sollevamento dell’eccezione d’incostituzionalità surrogandola, per quanto possibile, con il ricorso all’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme legislative, soprattutto quando si tratti di definire senso e portata di principi e diritti fondamentali.
Il rischio di una “fuga” dalla giurisprudenza costituzionale a fronte di un diritto costituzionale vivente promosso dai giudici di merito si mostra, così, né astratto né lontano. Una fuga, oggi, onestamente non proprio censurabile.
* Ordinario di diritto costituzionale dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale