Il genio infelice vissuto in un secolo che non era il suo
di Francesco Bellanti
–
TORQUATO TASSO, IL VIAGGIO DELL’ AMORE, DELL’ ANGOSCIA, DELLA FOLLIA
Nasceva a Sorrento l’11 marzo 1544 il grande poeta della Gerusalemme Liberata e dell’Aminta (sarebbe morto a Roma il 25 aprile 1595).
Qual rugiada o qual pianto,
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto de le stelle?
E perché seminò la bianca luna
di cristalline stille un puro nembo
a l’erba fresca in grembo?
Perché ne l’aria bruna
s’udian, quasi dolendo, intorno intorno
gir l’aure insino al giorno?
Fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
Chi era Torquato Tasso? Torniamo alla follia italica, al poeta amato da Leopardi, da te e da me: e non è poca cosa. Ho accolto, vedi, il tuo grido d’amore. Tasso era propriamente questo, era l’amore, egli era la follia d’amore. Egli era il genio infelice vissuto in un secolo che non era il suo. Egli era l’amore eslege, la natura, il mondo pastorale. Egli era felice della sua follia, gli piaceva vivere nella sua follia. Aveva capito che quello non era il suo tempo e si è finto pazzo. Quello era un tempo di follia, in cui la gente si faceva bruciare viva per la sua follia. Perché quella follia era la modernità venuta anzitempo. La follia gli consentiva di sognare e di vivere i sogni come se fossero reali. La società con le sue convenzioni era una trappola. Mortificava le sue energie vitali. Torquato Tasso ha viaggiato in tutta Italia ma in realtà ha viaggiato solo con la mente. Egli per vivere si è rifugiato nella sua follia. Tasso anticipa la modernità, cara Constance: vedi che così accade anche oggi, gli uomini si rifugiano nelle loro follie e così va avanti il mondo.
Dunque, egli non era un pazzo. Te l’ho detto il primo giorno in cui te ne ho parlato. Un pazzo non può comporre quei dialoghi e quelle lettere scritte nell’ospedale di S. Anna, né può avere potuto fare il rifacimento del poema Gerusalemme liberata in Gerusalemme conquistata, che, è vero, è opera ben mediocre rispetto alla prima in quanto alla poesia, ma richiede comunque una pianificazione strutturale molto logica e coerente. Non può essere l’opera di una mente malata. Egli non era un pazzo, ma ha dovuto vivere da pazzo. Dicono che era ipocondriaco, che aveva perciò crisi depressive e nevrotiche, che era schizofrenico e si sentiva sempre perseguitato. Tutto questo gli dava insoddisfazione e paura di sbagliare, insicurezza. Si sentiva abbandonato e trascurato, odiava il mondo che non riconosceva il suo genio. Il vero male del suo temperamento era la malinconia. Egli diceva di essere felice della sua follia, ma anche questo dire, questo crogiolarsi di essere malato, era una malattia. Questo ritenersi malato era un soffrire della sua convinzione di soffrire. E questo ostacolava le operazioni della sua mente.
Qual è stata la causa del suo male, mi chiedevate sempre. Il poeta puro fedele ai suoi sogni contro la realtà gretta e meschina? Vittima del dissidio tra Rinascimento pagano e Controriforma cattolica? L’animo rinascimentale violentato dalla rigidità cattolica e dalla precettistica aristotelica? L’errare di corte in corte? La mancanza di affetto, l’assenza dei genitori? Era la sua follia in qualche trauma psicologico dell’infanzia? Forse semplicemente il fatto che egli era nato in un secolo sbagliato. Tutto ha origine da questo errore. Forse in questo mio pensiero è il difetto che mi dicevi, forse dico questo perché anche io ho sempre creduto di essere nato in un secolo sbagliato.
Giacomo Leopardi, che lo amò tanto – a tal punto che andò a piangere sulla sua tomba – e per il quale egli fu un modello poetico ed esistenziale, scrisse su di lui forse il suo dialogo più bello. In questa operetta si parla del tempo in cui era giovane e pieno di speranze, di sogni e illusioni. Proprio come Giacomo. Si parla della donna sognata migliore di quella reale, e forse conviene che viviamo per sognare. Il viaggio della vita che si conclude nel sogno. In questa operetta, poi, si parla anche d’altro: della noia, del dolore, delle uniche esperienze consentite nella vita. La noia che come l’aria riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, meglio il dolore della noia, allora, perché quando esso scompare si può tornare alla felicità. Poi si parla della solitudine, che non è da disprezzare perché ha il merito di farci tornare l’amore per la vita e la voglia di rientrare “nella società degli uomini”.
Risponde Torquato che queste sono belle parole. La solitudine, poi, ha a che fare con il mondo della natura. Il suo compiuto mondo è, infatti, la favola pastorale dell’Aminta, il mondo della natura, dell’amore libero. È la tenera e spontanea Erminia, che odia come le inique corti. È Armida, immagine sinuosa ma vera della sensualità e dell’erotismo, che fa dimenticare a Rinaldo il suo dovere e gli fa perdere la dignità di cavaliere, e nello stesso tempo è fragile e debole quando egli l’abbandona. È Clorinda che muore in duello. È l’incomunicabilità dell’amore. L’impossibilità dell’amore. Donne solo nell’ora fatale. Amore e morte che si congiungono. Era questa la sua follia. Un poeta moderno.
Perché la sua follia gli consentiva di dominare l’allucinazione e l’angoscia. Nella follia egli era padrone di sé stesso e del mondo, era padrone dei suoi sogni. Solo con la follia egli poteva superare il suo smarrimento psicologico, la sua sensibilità dolente e turbata da un secolo che non gli apparteneva. La sua mente e la sua fantasia navigavano oltre. Erano perfette, un’opera d’arte al di fuori del tempo e della storia. L’Aminta, la Gerusalemme liberata, tutte le sue poesie in modi diversi sono dei capolavori perché la sua vita è un’opera d’arte. Egli finse la sua follia così bene che a un certo momento la follia divenne reale. Era il tempo che era aggrovigliato e sconvolto, non la sua mente. Il mondo dei pastori e delle ninfe dell’Aminta, il giardino di Armida, che si nutriva di vento e del canto dei vezzosi augelli, quello era il suo mondo. Ma anche, nella Gerusalemme liberata, col rispetto delle leggi del poema eroico e delle convenzioni sociali, egli voleva dire – e ha detto – altro.
Certo, per lungo tempo, anche io – come tanti – ho pensato che egli fosse diventato folle per amore. Né più né meno come Orlando per Angelica, ma che egli ne avesse nascosto il vero motivo. Insomma, la melancolia del mal d’amore, pensavo alle sue eroine tutte infelici. Ah, il tormento, l’insania d’amore! Un eroe romantico! E forse egli era Tancredi dilaniato dalla morte di Clorinda. Perché Tasso era sempre dibattuto dal dramma delle passioni fuorvianti e dal dovere del compimento della missione. Era la modernità che s’annunciava, il mito del poeta malinconico dell’Europa romantica e decadente nasce qui. La pulsione dispersiva e l’ordine: era umano, troppo umano. Come tutti i folli.
Torquato Tasso voleva dare ordine al mondo. Il mondo di Ariosto, il suo primo punto di riferimento, era un caos. Tutti alla ricerca di qualcosa che sfugge sempre. Orlando, il più grande dei paladini, che impazzisce per una donna, abbandona i suoi doveri di cavaliere e di paladino della cristianità per una donna che si concede a un umile fante saraceno. Tutto è caos e follia in Ariosto: la disperazione di Rinaldo, la gelosia di Bradamante, l’ira smisurata di Rodomonte. Tutti sono pazzi e il senno degli uomini si raccoglie sulla Luna, un luogo più bello della Terra. Lì si reca Astolfo sull’Ippogrifo a recuperare il senno del paladino più grande, il senno di Orlando. L’Orlando Furioso è il poema non dell’armonia ma della dissonanza e della follia.
Forse Ariosto aveva compreso che era la follia la chiave per comprendere il mondo. Nell’edonismo e nel naturalismo dell’Umanesimo e del Rinascimento si ha la percezione che il mondo sia una selva oscura, un labirinto, un groviglio inesplicabile. La follia allora diviene lo strumento che scompiglia lo sguardo tradizionale sul mondo. È una forza conoscitiva straordinaria, più o meno come la malattia degli scrittori del Decadentismo, che poi trova dimora più facilmente nei cosiddetti savi. La mancanza di senno, insomma, si trova in quelli che pensano di essere dotati di incrollabili certezze, che non presso i veri pazzi, che sono in grado di assecondare in modo più autentico la propria coscienza e le proprie pulsioni.
Chissà, forse è tempo – cara Constance – di distinguere la pura follia, dalla pazzia, dalla stultitia, dalla insania, dalla dementia. Per Erasmo da Rotterdam, la demenza è quella che nel mondo rincorre i falsi valori, mentre la follia è in realtà la suprema saggezza, come quella che spinge il cristiano a fare un esercizio di vita della sua fede. Ci ritorneremo.
Sì, forse solo la follia comprende il mondo. Desiderare nel mondo è vano, è fallimentare, ogni ricerca, ogni inseguimento, ogni errare è senza senso. Torniamo sempre al punto di partenza, con movimento circolare inconcludente. È lo spazio della bassura, dell’abisso da cui non si ritorna. È il viaggio senza meta, soggetto sempre all’errore. È il viaggio senza Dio, soggetto al caso, al capriccio della fortuna. È il percorso frustrante, senza fine, in una selva senza via d’uscita, la selva intricata popolata solo di fantasmi e di immagini reali, in cui non è possibile distinguere la realtà che si mescola e si aggroviglia. L’uomo preda dell’arbitrio del caos, del destino. Solo con la mente – questo il messaggio di Torquato – si può rifiutare questo tempo e questo spazio di confusione. La frustrazione, il continuo differimento. Lo scacco nella realtà, il capriccio, il rovesciamento delle attese, il mutevole, l’inganno, l’illusione, le vuote apparenze. L’ingannevole gioco delle apparenze. Solo la mente può distruggere tutto questo. Il rifugio nella follia.
La tragedia di Torquato era che, se egli detestava la corte, nello stesso tempo ne era attratto. Egli era un poeta cortigiano. La corte poteva dargli, e gli ha dato, tutto: onori, denaro, fama, gloria, il pubblico colto che poteva apprezzare la sua poesia. La corte era la magnificenza, la bellezza, il lusso, il privilegio. La dignità, l’elezione intellettuale. Ma egli non aveva pace, e vagabondava da una corte all’altra senza requie perché detestava le convenzioni dellecorti: quel penoso chiedere, sempre chiedere, il bisogno, le umilianti suppliche ai signori, ai prelati. Di qui lo sconforto, la malinconia. Quanti amori! Quante corti! Ferrara, Mantova, Urbino, Padova. Poi il poema, gli scrupoli religiosi, i dubbi maniacali, le escandescenze, il coltello scagliato contro il servo, la visita a sua sorella alla quale ha annunciato travestito la sua morte, pe potere capire – a suo modo – se lo amava, la segregazione nell’ospedale di Sant’Anna per sette anni, dal 1479 al 1486. Ma il duca Alfonso forse temeva il papa, che voleva appropriarsi di Ferrara, e il duca non voleva essere sospettato di eresia. Vincenzo Gonzaga lo portò a Mantova, ma lui, irrequieto, scappò subito per Roma e Napoli.
Ah, i misteri delle corti! Torquato odiava le ipocrisie e i rituali delle corti, i rancori, i conflitti, le gelosie, le invidie. Torquato vagheggiava il puro sentimento, il mondo della natura, la vita da favola dei pastori fuori del tempo e della storia. La realtà dell’Aminta. La totale libertà dei sensi, l’amore puro e innocente, libero dal senso di colpa e del peccato, l’amore libero, sensuale, l’incontaminata voluttà. Il trionfo dell’eros, del piacere senza costrizioni. Egli detestava l’onore che aveva fatto perdere agli uomini la primitiva innocenza e a vergognarsi del proprio corpo. Viveva in un mondo sbagliato, il suo tempo – l’edonismo, il puro piacere libero e innocente – era remoto, lontano, irrimediabilmente perduto.
È questa la follia, adorata Constance, vivere in una realtà che non ci appartiene. La follia di Tasso è antica e moderna, come la sua lingua. Le parole peregrine e lontane, strane, inconsuete, suoni nuovi e discorsi arditi, la musicalità, la suggestività indefinita, il patetico, le parole indeterminate, la sovrabbondanza di aggettivi, il voluttuoso. Torquato Tasso annuncia Leopardi, annuncia la modernità. Petrarca è alle spalle. Il suo stile è franto, tormentato, ricco di voluttuosa musicalità, un stile teso, pieno di tensioni, emotivo, ricco di colore, anche se talvolta esagerato, artificioso. Ma anche questo era già modernità. Il suo stile è moderno come moderna è la sua follia.
* Da “Lettere d’amore a Constance”,
New York, Lulu, 2020, pagg. 137-142