L’avv. Amato: “la Commissione UE ha subordinato l’interesse dei minori alle richieste Lgbt”

L’avv. Amato: “la Commissione UE ha subordinato l’interesse dei minori alle richieste Lgbt”

di Gianfranco Amato*

LA COMMISSIONE EUROPEA SI RIFIUTA ANCHE DI VALUTARE L’INUMANITÀ DELL’UTERO IN AFFITTO

La Proposta di Regolamento formulata dalla Commissione Europea sulla “Filiazione e creazione di un certificato europeo di filiazione” [atto COM (2022) 695] sembra avere un obiettivo espresso chiaramente: eludere il principio, derivante dai Trattati dell’Unione, in base al quale il diritto sostanziale in materia di famiglia, compreso lo status giuridico delle persone, rientra nella competenza degli Stati membri e non dell’Unione, e «imporre il riconoscimento della filiazione accertata in un altro Stato membro, in particolare ai fini dei diritti derivanti dalla filiazione ai sensi del diritto nazionale». Si noti, però, la contraddizione evidente nelle due proposizioni. Se uno Stato dell’Unione adotta norme di diritto sostanziale in materia di famiglia, sulla base delle quali non può riconoscere la filiazione nei confronti di una determinata persona, in base al Regolamento sarebbe obbligato, al contrario, a riconoscerla: quindi a mutare le proprie norme di diritto sostanziale.

Al fine di giungere al summenzionato risultato – palesemente contrario ai trattati – si utilizza la norma dell’art. 81, comma 3 del Trattato di funzionamento dell’Unione in maniera pretestuosa, facendo coincidere «gli aspetti del diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali» con «l’accertamento della filiazione in situazioni transfrontaliere»: ma le problematiche transfrontaliere riguardano cittadini dell’Unione in condizione del tutto differente. In effetti, non si tratta di persone che vivono in uno Stato dell’Unione e lavorano in un altro Stato o che spesso si trovano, per motivi lavorativi, a viaggiare da uno Stato all’altro; la Proposta di Regolamento vuole tutelare, invece, persone o famiglie (se tali riconosciute da uno Stato dell’Unione) che intendono risiedere stabilmente in un altro Stato dell’Unione. La pretesa di tali soggetti è quella di vedere applicato il diritto di famiglia sostanziale vigente nello Stato di provenienza da parte dello Stato in cui le stesse hanno deciso di risiedere stabilmente: appunto, una palese violazione del principio secondo cui la competenza sulla normativa sostanziale in materia di status delle persone e di diritto di famiglia spetta agli Stati membri.

Anche il richiamo a principi di proporzionalità e di sussidiarietà nella Proposta di Regolamento è pretestuoso e contrario all’art. 5 TFUE: si afferma, infatti, che la stessa Proposta «non va al di là di quanto necessario per il conseguimento dei suoi obiettivi» e si argomenta, ancora, che «le norme in materia di competenza giurisdizionale e di legge applicabile si applicano solo all’accertamento della filiazione in situazioni transfrontaliere», imponendo agli Stati membri di «riconoscere la filiazione solo se accertata in uno Stato membro e non in uno Stato terzo», e lasciando «impregiudicata la competenza delle autorità degli Stati membri a trattare questioni relative alla filiazione».

In realtà, se uno Stato membro fosse obbligato a riconoscere, nei confronti di una famiglia proveniente da altro Stato membro, un rapporto di filiazione dichiarato o riconosciuto dall’altro Stato membro la cui normativa sostanziale in tale ambito è differente, verrebbe a prodursi, all’interno dello Stato membro, una palese differenza di trattamento tra i soggetti – pur ormai residenti o stabilmente dimoranti nello Stato – e i cittadini dello Stato stesso non provenienti da altro Stato.

In questo modo la competenza a trattare le questioni di filiazione verrebbe meno, poiché lo Stato sarebbe costretto a riconoscere anche nei confronti dei propri cittadini stabilmente residenti rapporti di filiazione analoghi a quelli dei soggetti provenienti dall’estero.

Sempre restando al tema della proporzionalità dell’intervento della Commissione, si deve rimarcare che l’art. 81 TFUE è finalizzato ad una cooperazione «che può includere l’adozione di misure intese a ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri»: quindi l’intervento dell’Unione della cooperazione giudiziaria è eventuale («può includere…») e diretta non a parificare le normative sostanziali degli Stati membri, ma a «ravvicinare le disposizioni».

In altre parole, l’Unione non può obbligare gli Stati membri a uniformare le normative sostanziali.

Questo principio deve essere rapportato al paragrafo della Relazione in cui si fa riferimento alla «valutazione d’impatto»: nonostante il principio su richiamato, la Commissione ha scartato lo strumento della raccomandazione rivolta agli Stati membri e ha scelto la via del regolamento obbligatorio e vincolante.

La scelta è pienamente coerente con le premesse già ricordate: gli Stati membri che vietano il ricorso alla pratica disumana dell’utero in affitto devono essere obbligati a riconoscerne la liceità e l’efficacia ai fini dell’instaurazione del rapporto di filiazione del genitore di intenzione (e, ovviamente, della mancanza di ogni rapporto di filiazione tra la donna che ha condotto la gravidanza e ha partorito e il figlio): ciò perché l’iniziativa «è stata individuata come azione chiave (…) nella strategia dell’UE per l’uguaglianza LGBTIQ», come testualmente recita il punto (12).

Scendendo, comunque, all’analisi concreta della problematica sottesa alla Proposta di Regolamento, occorre approfondire la posizione dei soggetti che, dopo avere ottenuto il riconoscimento del rapporto di filiazione mediante il ricorso alla maternità surrogata, si trasferiscono in un Paese che non riconosce il rapporto di filiazione del genitore di intenzione in questi casi, pretendendone il riconoscimento.

Si tratta di soggetti assolutamente consapevoli che il ricorso alla maternità surrogata è vietato nel nostro Paese e costituisce reato, e proprio per questo motivo si sono trasferiti all’estero per ricorrere a tale pratica. Il rientro – o il trasferimento – nel Paese che vieta la maternità surrogata, quindi, non deriva da una situazione “transfrontaliera”, nella sua interpretazione corretta, ma dalla pretesa di eludere il divieto di maternità surrogata e la normativa sostanziale che non permette, in questi casi, il riconoscimento del rapporto di filiazione nei confronti del genitore di intenzione e di ottenere tale riconoscimento, contro il diritto sostanziale vigente.

Ciò vale, innanzitutto, per i cittadini italiani che si recano all’estero per ricorrere ad una pratica che il proprio Paese considera come reato. Si noti che, presso il Parlamento italiano, pende una proposta di legge che punisce la maternità surrogata anche se commessa all’estero e, in numerosi Organismi internazionali, è stata proposta la considerazione dell’utero in affitto come reato universale.

Anche le coppie straniere, comunque, ben conoscono la normativa sostanziale del Paese di destinazione e, con la richiesta di riconoscere la filiazione derivante dal ricorso alla maternità surrogata, pretendono di obbligare il Paese di destinazione a sconfessare una norma riguardante l’ordine pubblico.

Incidentalmente, appare del tutto deprecabile il fatto che la Proposta della Commissione ‒ pur avendo ben presente la tematica della maternità surrogata e il divieto di ricorso a tale pratica previsto da alcuni Stati membri e il conseguente rifiuto a riconoscere il rapporto di filiazione derivante dalla stessa con riferimento al “genitore di intenzione” – si disinteressi della stessa, formulando una proposta che – di fatto e di diritto – vanifica la normativa sostanziale dei Paesi membri.

Il motivo è chiarissimo: come abbiamo già visto, l’iniziativa «è stata individuata come azione chiave (…) nella strategia dell’UE per l’uguaglianza LGBTIQ.

Le associazioni LGBTIQ si rifiutano di affrontare il tema della disumanità della pratica dell’utero in affitto, il tema dello sfruttamento della donna che ospita il concepito nel corso della gravidanza, il tema della negazione della sua dignità personale e il tema della sua riduzione a mera “incubatrice di carne”, macchina che deve servire ad un determinato scopo; la Commissione si adegua, non toccando affatto il problema.

Eppure, la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea garantisce come inviolabile la dignità umana, che deve essere rispettata e tutelata (art. 1); riconosce che ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica, vietando di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro (art. 3) e proibisce la sottoposizione di una persona a trattamenti inumani e degradanti (art. 4). Norme che ben si attagliano alla condizione della donna utilizzata per l’utero in affitto.

La Proposta viene, però, presentata anche come «azione chiave nella strategia dell’UE sui diritti dei minori».

In effetti, la stessa Commissione è costretta ad ammettere che «il diritto dell’Unione impone già agli Stati membri di riconoscere la filiazione di un minore accertata in un altro Stato membro ai fini dei diritti conferitegli dal diritto dell’UE, in particolare quelli ai sensi della normativa dell’UE in materia di libera circolazione, compresa la direttiva 2004/38/CE8 relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, il che implica il diritto alla parità di trattamento e il divieto di imporre ostacoli in materie quali il riconoscimento del cognome»; quindi è costretta, per giustificare la Proposta, a rinvenire altre finalità: «Il mancato riconoscimento può avere notevoli conseguenze negative per i minori. Impedisce loro di esercitare i diritti fondamentali in situazioni transfrontaliere e può comportare la negazione dei diritti derivanti dalla filiazione ai sensi del diritto nazionale. I minori possono quindi perdere i loro diritti di successione o agli alimenti in un altro Stato membro oppure il loro diritto a far sì che uno dei genitori agisca in qualità di rappresentante legale in un altro Stato membro per questioni quali le cure mediche o la scuola».

Come si vede, si tratta palesemente di questioni secondarie, risolvibili con atti privati che possono avere anche un riconoscimento pubblico (testamenti, deleghe, procure ecc.).

Ma, secondo la Commissione, queste problematiche “costringerebbero” le famiglie ad avviare azioni legali per il riconoscimento della filiazione in altro Stato membro. In realtà – come le vicende degli ultimi decenni dimostrano ampiamente – il vero motivo per cui vengono avviate azioni legali per il riconoscimento della filiazione derivante dal ricorso alla pratica dell’utero in affitto da parte delle coppie che vi hanno ricorso è costituito dalla pretesa che lo Stato riconosca la filiazione: cioè smentisca la propria normativa sostanziale.

Quindi non vi è affatto “costrizione” ad avviare azioni legali per il riconoscimento della filiazione, ma tali azioni legali sono lo strumento per un obiettivo ben preciso che non ha nulla a che vedere con l’interesse del minore.

In definitiva – come sempre è avvenuto nelle cause promosse dai soggetti legati ai movimenti LGBTIQ – l’interesse del minore è uno schermo mostrato per nascondere l’interesse degli adulti ad acquisire un figlio mediante il ricorso ad una pratica inumana; si tace del tutto – ovviamente – dell’interesse del minore ad avere un legame con la madre che lo ha partorito e a crescere con un padre e una madre e si fa valere una situazione di fatto – vale a dire la situazione del minore cresciuto anche con il genitore di intenzione, privo di qualunque legame con lui – per giungere a modificare la situazione di diritto.

Quanto fin qui esposto emerge con evidenza dai punti 3 e 4 del Preambolo della Proposta, che recitano: «(3) Gli articoli 21, 45, 49 e 56 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) conferiscono ai cittadini dell’Unione il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, nel quale rientrano il diritto di non incontrare ostacoli e il diritto a un trattamento pari a quello dei cittadini nazionali nell’esercizio della libera circolazione, anche per quanto riguarda taluni vantaggi sociali, definiti come qualsiasi vantaggio atto a facilitare la mobilità. Tale diritto si applica anche ai familiari dei cittadini dell’Unione, quali definiti dalla direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, in termini di borse di studio, accesso all’istruzione, riduzione delle tariffe dei trasporti pubblici per le famiglie numerose e per gli studenti e riduzione dei biglietti di ingresso ai musei. La protezione accordata dalle disposizioni del trattato sulla libera circolazione comprende anche il diritto di ottenere il riconoscimento in altri Stati membri di un cognome legalmente attribuito in uno Stato membro». «(4) La Corte di giustizia dell’Unione europea (“Corte di giustizia”) ha stabilito che uno Stato membro è tenuto a riconoscere un rapporto di filiazione al fine di consentire a un minore di esercitare senza impedimenti, insieme a ciascun genitore, il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, garantito dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, e di esercitare tutti i diritti che al minore derivano dal diritto dell’Unione. La giurisprudenza della Corte di giustizia non impone tuttavia agli Stati membri di riconoscere, a fini diversi dall’esercizio dei diritti che al minore derivano dal diritto dell’Unione, il rapporto di filiazione tra il minore e le persone indicate come genitori nell’atto di nascita emesso dalle autorità di un altro Stato membro».

In definitiva, ben si comprende che i diritti dei minori sono già ampiamente tutelati dal diritto dell’Unione e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. La finalità del Regolamento è, quindi, il riconoscimento del rapporto di filiazione, quello che, appunto, alcuni Stati membri – in nome della dignità umana – si rifiutano di adottare.

Sotto questo profilo, è importante sottolineare che la questione posta dalla Proposta di Regolamento non riguarda, in realtà, soltanto il ricorso alla pratica dell’utero in affitto, ma può toccare anche altre situazioni.

In alcune cause promosse davanti all’Autorità Giudiziaria italiana, ad esempio, è emerso che il rapporto di filiazione tra una coppia omosessuale e un bambino era stata riconosciuto dallo Stato di provenienza a seguito di una adozione alla quale avevano prestato il consenso entrambi i genitori biologici. Si intravedeva, quindi, la possibilità (non la certezza) che i genitori biologici avessero ricevuto un compenso per dare il consenso all’adozione e “cedere” il bambino.

L’esperienza ci insegna che la “vendita” di bambini a coppie sterili è pratica purtroppo conosciuta nel nostro Paese e sanzionata duramente a livello penale.

Ecco che l’obbligo per lo Stato membro di riconoscere il rapporto di filiazione dichiarato o riconosciuto da altro Stato membro potrebbe costringerlo – come nel caso del ricorso alla pratica dell’utero in affitto – a riconoscere la filiazione derivante da una condotta costituente reato.

Come bene messo in evidenza dalle relazioni del Ministero della Giustizia e del Ministero dell’Interno acquisite dalla Commissione, l’Italia ha compiuto una scelta precisa con riferimento ai rapporti di filiazione derivanti dal ricorso all’utero in affitto.

Le Relazioni dei due Ministeri ricordano le pronunce, anche recentissime, dei Supremi Collegi della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite della Corte di cassazione: la pratica dell’utero in affitto, vietata e sanzionata penalmente, è assolutamente contraria alla dignità della persona umana e non può determinare un rapporto di filiazione tra il bambino e il soggetto adulto che, con lui, non ha alcun rapporto genetico (genitore di intenzione).

Si tratta di norma di ordine pubblico che prevale sull’interesse del minore – e, tanto più, nei confronti dell’interesse dell’adulto – a vedere riconosciuto un rapporto genitoriale in conseguenza dell’essere lo stesso cresciuto nell’ambito di una coppia omosessuale di adulti comprendente un soggetto privo di legami col medesimo minore.

Molto importante è la precisazione – nell’ambito di un consolidamento che si è formato nella giurisprudenza – che non è possibile, e non è nemmeno opportuno, distinguere tra maternità surrogata a pagamento e maternità surrogata gratuita: sia perché gli accertamenti sulla effettiva natura del rapporto economico che ha legato la coppia di aspiranti genitori e la madre surrogata sono difficili, atteso che spesso la corresponsione di compensi è tenuta nascosta e comunque la pratica è stata operata in Paesi stranieri, sia perché la contrarietà alla dignità umana della pratica è talmente evidente da costituire il motivo fondamentale per negarne gli effetti legali.

L’interesse del minore – come è stato ribadito anche recentemente – è ampiamente garantito dalla possibilità per il genitore di intenzione di ricorrere all’adozione in casi particolari: domanda che dovrà dar luogo ad una verifica della effettività della condizione rappresentata e della sussistenza di legami con il minore.

Si tratta, in definitiva, di regolamentazione che tiene in considerazione tutti gli interessi in gioco, senza tralasciarne alcuno.

Lo stesso Preambolo della Proposta ricorda che «la Corte europea dei diritti dell’uomo ha interpretato l’articolo 8 CEDU nel senso che impone a tutti gli Stati nell’ambito della sua giurisdizione di riconoscere il rapporto giuridico di filiazione accertato all’estero tra un figlio nato mediante ricorso alla maternità surrogata e il genitore biologico intenzionale, e di prevedere un meccanismo di riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione tra il figlio e il genitore intenzionale non biologico (ad es. tramite adozione)».

La natura vincolante delle norme del Regolamento viene giustificata sulla «fiducia reciproca». Recita, infatti, il punto (62) della Proposta: «Il riconoscimento in uno Stato membro di decisioni giudiziarie di filiazione rese in un altro Stato membro dovrebbe fondarsi sul principio della fiducia reciproca. Pertanto i motivi di non riconoscimento dovrebbero essere limitati al minimo, alla luce dell’obiettivo alla base del presente regolamento, ossia facilitare il riconoscimento della filiazione e proteggere efficacemente i diritti del figlio e l’interesse superiore del minore in situazioni transfrontaliere».

Il predetto richiamo appare assolutamente pretestuoso.

Non si tratta, infatti, di mettere in dubbio la validità delle decisioni assunte dalle Autorità Giudiziarie o dalle Autorità amministrative di altri Paesi, ma di prendere atto che tali Autorità adottano decisioni in punto di riconoscimento della filiazione basate su una normativa sostanziale differente e incompatibile con quella del nostro Paese.

La Proposta elude questo punto essenziale, salvo prevedere, al punto (75) del Preambolo, quanto segue: «In presenza di circostanze eccezionali, per ragioni di interesse pubblico, dovrebbe essere consentito alle autorità giurisdizionali o altre autorità competenti degli Stati membri di rifiutare di riconoscere o, a seconda dei casi, di accettare, una decisione giudiziaria o un atto pubblico di filiazione accertato in un altro Stato membro qualora, in una precisa fattispecie, tale riconoscimento o accettazione fosse manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico dello Stato membro interessato. Tuttavia, alle autorità giurisdizionali o altre autorità competenti non dovrebbe essere consentito di rifiutare di riconoscere o, a seconda dei casi, accettare una decisione giudiziaria o un atto pubblico rilasciato in un altro Stato qualora ciò avvenisse in violazione della Carta, in particolare dell’articolo 21 che vieta la discriminazione».

Come si vede, la previsione tiene conto proprio della valutazione di norma relativa all’ordine pubblico del divieto di ricorso alla maternità surrogata previsto dalla legge 40 del 2004, valutazione espressa dalla Corte Costituzionale e dalle Sezioni Unite della Cassazione.

Dimostrando la palese volontà di rendere inefficace questa valutazione, la Proposta della Commissione contrappone alla stessa il principio di non discriminazione dell’art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, ben consapevole che la norma vieta ogni forma di discriminazione fondata, tra l’altro sulle “tendenze sessuali”: ancora una volta, l’impostazione voluta dai movimenti LGBTIQ e recepita dalla Commissione fa prevalere l’interesse delle coppie omosessuali a vedersi riconosciuto ogni diritto rispetto alla tutela della dignità delle persone e all’interesse dei bambini a crescere con un padre e con una madre.

La Commissione, con la Proposta in oggetto, dimostra totale insensibilità rispetto ai diritti fondamentali dell’uomo e disinteresse rispetto alle condizioni delle donne che si prestano alla pratica dell’utero in affitto, del tutto “cancellate” dallo scenario – operazione perfettamente coerente con la loro considerazione di semplici strumenti a vantaggio di altre persone; dimostra analogo disinteresse rispetto alla possibilità che bambini vengano concepiti con tale pratica e vengano sottratti alla madre il giorno della nascita, vietando loro ogni legame.

Rispetto alla normativa italiana e alle amplissime e approfondite valutazioni espresse dalla Corte Costituzionale e dalle Sezioni Unite della Cassazione, la Proposta mostra più che disinteresse: sostanziale disprezzo e volontà di renderle inefficaci e irrilevanti.

È evidente che il riconoscimento vincolante del rapporto di filiazione derivante dal ricorso all’utero in affitto in Paesi diversi farebbe crollare il sistema configurato dal legislatore e dai Supremi giudici, in piena conformità alle indicazioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: sarebbe, infatti, impossibile riconoscere la filiazione nei confronti delle coppie provenienti dall’estero e negarla per le coppie stabilmente residenti nel Paese.

Risulta assolutamente necessario che il Parlamento dia corso alle proposte che puniscono la maternità surrogata anche se commessa all’estero e solleciti l’adozione di Convenzioni internazionali che definiscano tale pratica come reato universale.

Lo chiedono migliaia di donne sparse nel mondo, costrette a vendere il proprio corpo a rischio della propria salute fisica e mentale; lo chiedono i bambini strappati alle loro madri; lo chiede il principio di civiltà che il nostro Paese può e deve diffondere.

*Presidente dell’Associazione “Giuristi per la vita”

 

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