L’analista geopolitica Boltuc: “in Armenia violati i diritti umani ma l’UE chiude gli occhi”
di Matteo Orlando
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SILVIA BOLTUC, DIRETTRICE DI SPECIALEURASIA: “LE ATTUALI POSIZIONI DI RUSSIA E UCRAINA, ESACERBATE DA UN OCCIDENTE ALTRETTANTO DRASTICO NELLE SUE DECISIONI, HANNO COME UNICO RISULTATO POSSIBILE UNA ESCALATION MILITARE”
Silvia Boltuc, Direttrice di SpecialEurasia e responsabile dell’Area Energia e Nuove Tecnologie del CeSEM – Centro Studi Eurasia Mediterraneo, è una specialista in affari internazionali e analista geopolitico che supporta istituzioni pubbliche e private nel processo decisionale fornendo report, risk assesments e consulenze. Le sue aree di interesse sono lo spazio post-Sovietico, il Medio Oriente ed il Nord Africa. Proprio su queste tre realtà geopolitiche l’abbiamo intervistata per conto di Informazione Cattolica.
Dottoressa Boltuc ha scritto che la cosiddetta “Europa dei valori” ha sacrificato gli armeni in nome degli approvvigionamenti energetici. Può spiegare al pubblico italiano, distratto sui fatti internazionali, cosa sta accadendo in quel martoriato Paese?
Ho usato l’espressione “Europa dei valori” perché oggi più che mai nel contesto del conflitto in Ucraina Bruxelles si è fatta baluardo della lotta per la democrazia, i diritti umani, la sovranità territoriale e soprattutto, del diritto di un popolo a difendersi. In virtù di questa lotta, l’Europa si è schierata con Kiev e ha drasticamente ridotto gli approvvigionamenti di gas russo, accusando il paese di essere dittatoriale e aver perpetrato una aggressione ai danni dell’Ucraina. Ebbene, se queste sono le posizioni europee, granitiche per quel che concerne la crisi Ucraina, non si può accettare una posizione diversa rispetto all’Armenia ed al territorio conteso del Nagorno-Karabakh/Artsakh. A questo punto bisogna fare una distinzione: se nel caso dell’Artsakh c’è una contesa con l’Azerbaigian su chi debba effettivamente governare quelle terre abitate principalmente da popolazione armena, l’aggressione azerbaigiana di settembre 2022 era diretta non ad un territorio conteso, bensì al territorio sovrano internazionalmente riconosciuto della Repubblica di Armenia. Nonostante si siano levate condanne da parte di singoli esponenti del panorama politico europeo, che in Francia si sono tradotte in una risoluzione che condanna l’aggressione azerbaigiana e chiede il ritiro delle truppe azerbaigiane dal territorio armeno nonché di applicare sanzioni su Baku, non è seguita una condanna ufficiale coesa da parte di Bruxelles.
E l’Italia?
A tal proposito è di rilievo notare come le prime pagine dei giornali italiani abbiano lodato il presidente azero Ilham Aliyev durante la sua visita a Roma a settembre, arrivando a definirlo “magnate” per le sovvenzioni offerte per il sito storico dei mercati di Traiano. Tutto questo avviene mentre le ONG, gli osservatori internazionali e l’UNESCO denunciano la sistematica distruzione da parte dell’Azerbaigian dei siti storici armeni, particolarmente di chiese armene millenarie che per l’Europa a tradizione cristiana dovrebbero avere un particolare valore simbolico. Ricordo che l’Armenia è il primo paese ad aver adottato il cristianesimo come religione di stato e rappresenta il cuore cristiano del Caucaso e della regione in senso più ampio. In ultima analisi, l’Europa sta chiudendo gli occhi di fronte alle violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione armena dell’Artsakh (i report internazionali riguardo l’ultima guerra, nota in Europa come guerra del Nagorno-Karabakh, riportano efferatezze inflitte agli armeni paragonate a quelle viste solo con lo Stato Islamico o con i Talebani in Afghanistan), alla violazione del territorio sovrano armeno, nonché in merito ai bassi standard di democrazia e libertà in Azerbaigian, per non dover rinunciare agli approvvigionamenti di gas dai giacimenti azerbaigiani nel Caspio che attraverso la Turchia arrivano in Puglia e dovrebbero sostituire il gas russo.
Lei è un’attenta osservatrice dei fatti che accadono in Iran. Al momento qual è la situazione della Repubblica islamica? Crede possano esserci sconvolgimenti politico a breve?
La cosiddetta “rivoluzione iraniana” attuale, balzata agli onori della cronaca per la questione del velo islamico e dell’uccisione di una ragazza apparentemente arrestata per non averlo indossato opportunamente, ha in realtà un background molto più ampio. In Iran si manifesta da molto tempo per motivi di diversa natura. Quello che sta cambiando ora, oltre alle dimensioni della protesta, è il fatto che improvvisamente queste proteste hanno avuto copertura mediatica, grazie anche alle piattaforme media dei paesi ostili alla Repubblica Islamica sciita. L’Iran è un paese fiaccato da 40 anni di sanzioni che tenta di risollevare la sua economia con il suo ‘pivot to East’, ovvero rivolgendo le sue strategie alla parte asiatica del continente in seguito ai ripetuti fallimenti per raggiungere un nuovo accordo sul nucleare nei colloqui di Vienna. I giovani iraniani protestano per la mancanza di prospettive di impiego futuro in un paese che ha un alto tasso di disoccupazione giovanile. La classe media iraniana è scomparsa o ha perso il suo ruolo storico con l’avanzata dei conservatori. I bazarì iraniani finanziarono nel ‘79 una rivoluzione che doveva essere di stampo socialista o marxista ed essere a servizio degli ‘ultimi’, degli ‘oppressi’. In realtà le enormi ricchezze della corte Pahlavi sono andate alla nuova classe politica ed alla sua rete di alleanze. Se all’epoca della rivoluzione l’Iran poteva contare sulle entrate petrolifere che garantivano un discreto benessere, l’ultima decade di sanzioni ha condannato l’economia iraniana ad una forte inflazione e forte svalutazione della propria valuta sul dollaro. In questo scenario i giovani che non hanno vissuto gli ideali della rivoluzione islamica, vedono il gap sociale tra i poveri e la classe al potere aumentare di giorno in giorno sentendosi esclusi sia dal benessere economico che dal discorso politico.
Alle condizioni dell’economia iraniana cos’altro si può aggiungere?
A questo si aggiunge, non meno importante, la questione delle minoranze etniche, che costituiscono una buona parte della popolazione iraniana (curdi, arabi, azeri [spesso ci si riferisce alle popolazioni turche-turcofone che abitano l’Iran settentrionale come ‘Azeri Iraniani’], iraniani, beluchi, armeni, ecc.). Queste minoranze, in particolar modo quella curda, si sono rese protagoniste delle proteste portando alla luce la dimensione anche geopolitica delle manifestazioni. Non c’è solo il malcontento interno ad alimentare le proteste, infatti, ma anche le spinte separatiste di queste minoranze che vedono attori terzi, come gruppi nel Kurdistan iracheno che sostengono i gruppi curdi iraniani o Baku che supporta il passaggio dell’Iran del nord sotto il governo azerbaigiano, avere un ruolo attivo nella propagazione delle stesse. È difficile stimare se il governo Raisi riuscirà a tenere insieme il paese e a sedare le proteste. Indubbiamente, bisogna tener conto che secondo alcuni studiosi uno dei più grandi errori che portarono alla caduta dell’ultimo Shah Pahlavi fu il tentativo di reprime le rivolte con la forza e se la Repubblica Islamica dell’Iran non trovasse una terza via, la storia potrebbe ripetersi.
A suo giudizio come si evolverà il conflitto russo-ucraino nei prossimi mesi e, ammesso che si arrivi ad un cessate il fuoco permanente, quali potrebbero essere le principali problematiche geopolitiche di quello spazio Post-Sovietico?
Per quanto sia difficile raggiungere un compromesso, credo che per arrivare ad un cessate il fuoco la parte ucraina debba accettare di sedersi al tavolo delle trattative. Mentre fino ad ora la Russia non ha messo in campo il massimo della sua capacità bellica, a seguito degli attacchi orchestrati da Kiev ad infrastrutture russe e alla ferma opposizione del presidente Zelensky a colloqui con la controparte russa, abbiamo assistito ad un forte inasprimento degli attacchi militari di Mosca. Così come l’Ucraina non vuole cedere, la Russia non può permettersi una sconfitta, né tantomeno perdere addirittura la Crimea che è parte della Federazione dal 2014. Queste due posizioni, esacerbate da un Occidente altrettanto drastico nelle sue decisioni, hanno come unico risultato possibile una escalation. Ricordo che il Cremlino, in netto svantaggio in quanto a uomini sul campo rispetto all’esercito di Kiev, ha a sua disposizione 100.000 uomini pronti ad essere inviati in Ucraina se non si arriverà a dei colloqui di pace entro qualche mese, se non meno.
E nei paesi circostanti cosa potrebbe succedere?
Questo conflitto sta già avendo ripercussioni sullo spazio post-sovietico. Sul piano formale, alcuni paesi considerati sotto la sfera di influenza russa si sono accodati alle condanne dell’Occidente. Nella pratica, però, gli accordi ed il volume di affari degli stessi con la Russia sono aumentati. Il gas russo a basso costo e la necessità di Mosca di sostituire l’Europa con attori euroasiatici sta spingendo questi ultimi a stringere legami più stretti con il Cremlino. A questo si aggiunge il massiccio trasferimento di russi in Armenia, in Georgia, in Kazakistan ed altri paesi dello spazio post-Sovietico, che non solo va ad aumentare la dimensione ed il peso della minoranza etnica russa nel paese, ma ha avuto un impatto benefico sulle loro economie. L’aspetto forse negativo, d’altra parte, è l’influenza che la crisi Ucraina può avere sui conflitti congelati nello spazio Post-Sovietico. In particolare, sulle richieste di Pridnestrovie o Transinistria, che già dal 2014, anno del referendum in Crimea, ha palesato la volontà di poter essere annessa alla Federazione Russa, e sul conflitto tra Armenia ed Azerbaigian: la Russia ha trovato in Baku un importante partner per il corridoio logistico Nord-Sud e per la distribuzione del gas russo, di contro, però, Mosca ha rapporti storici con l’Armenia e i peacekeeper russi sono dispiegati in Artsakh per vegliare sull’incolumità della popolazione locale contro eventuali attacchi azeri, ponendo la Russia in una condizione molto difficile da gestire.
Spostiamoci in Medioriente: Dopo la “tregua” per il Covid, sembra risalita la tensione tra israeliani e palestinesi. A suo giudizio cosa potrebbero fare le autorità delle due realtà per addivenire al superamento del lunghissimo conflitto?
L’unica soluzione sarebbe stata quella da sempre ipotizzata di due stati indipendenti, ma alla luce dell’occupazione dei coloni israeliani ormai troppo profonda e con il territorio palestinese ridotto ai minimi termini, è difficile immaginare che questa possa realizzarsi. Israele dovrebbe abbandonare i suoi piani espansionistici e le rivendicazioni sui siti sacri islamici; la controparte palestinese dovrebbe accontentarsi di un territorio estremamente limitato, privo di indipendenza economica ed energetica. Tor Wennesland, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Medio Oriente, ha affermato davanti al Consiglio di Sicurezza che dopo decenni di violenza persistente e di negoziati dormienti a cui si devono aggiungere l’espansione degli insediamenti ebraici illegali e l’occupazione sempre più profonda, il conflitto sta nuovamente raggiungendo un punto di ebollizione. A queste criticità si uniscono le crescenti sfide economiche: la crisi economica globale ha spinto l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che fornisce servizi di base a milioni di rifugiati palestinesi (sono circa 5,7 milioni quelli registrati in Medio Oriente), a dichiarare che potrebbe non essere più in grado di adempiere al suo ruolo portando la popolazione a livelli di povertà senza precedenti. L’erosione della legittimità dell’Autorità Palestinese, dovuta fra le altre cose alla sua riluttanza a tenere elezioni presidenziali dal 2005, le condizioni di vita drammatiche della popolazione locale sotto occupazione, i continui sfratti e abbattimenti delle abitazioni palestinesi e la virata a destra della società israeliana confermata dalle elezioni del novembre 2022, hanno portato ad una nuova escalation.
E adesso cosa potrà accadere?
Nonostante la politica di insediamento israeliana ha mirato a frammentare i territori palestinesi rendendoli tanti piccoli satelliti isolati con il fine ultimo di fiaccare la resistenza e ledere la sua possibilità di coordinamento, i recenti attacchi contro coloni e soldati israeliani confermano i timori paventati dalle testate nazionali sul rischio che Tel Aviv non possa essere in grado di arginare il risentimento e le rivendicazioni della popolazione palestinese. Va sottolineato che la Grande Marcia del Ritorno nel 2018-2019 e l’Intifada dell’Unità Palestinese nel maggio 2021, che si è estesa alla Cisgiordania, alla Striscia di Gaza e alle comunità palestinesi all’interno di Israele, hanno visto la partecipazione di giovani appartenenti trasversalmente a tutte le fasce della società e non necessariamente afferenti a gruppi della resistenza armata. Di particolare rilievo in questa sede è ricordare che le comunità palestinesi cristiane condividono la stessa condizione di occupazione della comunità musulmana. In una delle mie ultimi missioni in Palestina Padre Raed Abusalhia, già parroco di Taybeh in Cisgiordania (unico e ultimo villaggio interamente cristiano della Palestina) e direttore generale della Caritas di Gerusalemme, mi raccontava di come la comunità cristiana fosse ridotta al minimo storico, essendo stata interessata da una migrazione forzata in fuga dall’occupazione. Padre Raed lamentava il disinteresse della comunità cristiana internazionale che accusava di andare in Palestina per partecipare ai tour religiosi turistici e non per contribuire alla sopravvivenza e alle difficoltà della comunità cristiana locale. In questo difficile contesto c’è una nota positiva data dalla cooperazione sincera fra la comunità cristiana e quella musulmana: infatti, molti bambini palestinesi musulmani frequentano le scuole gestite dalle suore cristiane e la comunità cristiana spesso ha aiutato le famiglie musulmane ad affrontare i momenti di crisi economica e sociale.
Periodicamente ritorna sotto i riflettori la situazione libica, anche se solo limitatamente ai migranti. Dal punto di vista politico cosa sta accadendo?
Nel 2019 i conflitti che hanno interessato la Libia a partire dal rovesciamento di Muammar Gheddafi nel 2011, si sono riaccesi. Come riportato da uno degli ultimi report del Congresso degli Stati Uniti, l’evento scatenante è stato il tentativo di prendere Tripoli da parte di una coalizione di gruppi armati (l’Esercito Nazionale Libico – LNA) guidata da Khalifa Haftar e sostenuta dalla Camera dei Rappresentanti della Libia, dalla Russia, dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti. In contrapposizione, la Turchia ha appoggiato il Governo di Accordo Nazionale (GNA). Da allora le milizie, i leader locali, le coalizioni subnazionali sostenute da attori stranieri in competizione così come le diverse cellule terroristiche mantengono la Libia in uno stato di forte instabilità ed il Paese è diviso da una linea di controllo a ovest di Sirte.
E oggi?
Ad oggi stiamo assistendo ad un continuo rinvio delle elezioni che erano previste nel 2021. Le stesse elezioni hanno riacceso la competizione fra Haftar, l’LNA e le milizie libiche occidentali, la cui violenza nelle mobilitazioni di luglio ha portato i funzionari delle Nazioni Unite e degli Stati Uniti a ribadire gli appelli alla calma. Oltre agli interessi contrastanti di questi attori, fattori destabilizzanti sono anche la continua mancanza di consenso dei libici sugli accordi e la fragilità dei cessate il fuoco sostenuti dalle Nazioni Unite (ONU). La Camera dei Rappresentanti libica ha accolto la nomina a primo ministro designato di Fathi Bashaga, ex ministro dell’interno del GNA, e successivamente nel marzo 2022 ha approvato anche il gabinetto da lui proposto. Da maggio i tentativi di Bashaga sia di affermare la propria autorità a Tripoli e sia di controllare la Libyan National Oil Corporation (NOC) hanno portato a diversi scontri armati. Il petrolio è, infatti, un altro punto saliente della disputa fra le fazioni in campo. A luglio Abdul Hamid Dabaiba, il primo ministro del Governo di Unità Nazionale, si è mosso per sostituire il presidente di lunga data del NOC Mustafa Sanalla con Farhat Bengdara. Gli alleati di Haftar e dell’LNA hanno successivamente sospeso il blocco di protesta delle strutture petrolifere nazionali che da aprile aveva gravemente ridotto le esportazioni nazionali di petrolio. La dipendenza fiscale ed economica della Libia dal settore petrolifero e del gas rende il NOC, la Banca centrale e i processi di bilancio oggetto di un’intensa concorrenza, poiché i rivali cercano l’accesso ai proventi delle esportazioni di petrolio per pagare stipendi e fornire sussidi. Le dinamiche in atto sono molte più ampie di quelle descritte, ma in estrema sintesi si può sostenere che per stabilizzare la situazione interna libica è necessario che si raggiunga un dialogo costruttivo tra i libici e vi siano elezioni che risolvano le controversie sulla legittimità del potere.