Le proteste contro la politica “Zero Covid” unisce la Cina, da Pechino a Shanghai, da Urumqi e Chengdu a Wuhan

Le proteste contro la politica “Zero Covid” unisce la Cina, da Pechino a Shanghai, da Urumqi e Chengdu a Wuhan

di Chiara Masotto*

TRALASCIANDO LE PREVISIONI DI LUNGO TERMINE, RIMANE IL FATTO CHE QUESTE SONO LE PRIME PROTESTE SU LARGA SCALA CHE COINVOLGONO LA REPUBBLICA POPOLARE CINESE, AL DI FUORI DI HONG KONG, DALLE TRAGICHE MANIFESTAZIONI DI PIAZZA TIAN AN MEN

“Rise up, those who refuse to be slaves!” (“Ribellatevi, voi che rifiutate di essere schiavi”). È una delle strofe dell’inno nazionale della repubblica Popolare Cinese e uno degli slogan più usati nelle piazze cinesi, dove le proteste contro la politica “Zero Covid” unisce il Paese coinvolgendo Pechino, Shanghai, Urumqi, Chengdu e Wuhan. L’eco delle proteste è arrivato anche ad Hong Kong, dove le restrizioni sono già state parzialmente eliminate per cercare di tamponare le perdite economiche e far vincere all’attuale amministrazione qualche punto apprezzamento. Gli studenti si sono ritrovati nel campus della Chinese University of Hong Kong per commemorare i morti di Urumqi, e decine di manifestanti si sono ritrovati nel Business District, già teatro delle proteste nel 2019. Gli studenti di Hong Kong non sono gli unici che stanno manifestando: veglie e sit-in si susseguono in tutti i campus della repubblica Popolare, anche nella Tsing-Hua University, uno degli atenei più prestigiosi della Cina e alma mater di Xi Jinping.

La scintilla che ha detonato questa bomba è stato l’incendio di un appartamento nella capitale dello Xinjiang, Urumqi, dove sono morte dieci persone e nove sono rimaste ferite. La città, già oggetto di strette misure di controllo implementate dal governo per controllare la popolazione Uigura e sopprimere sul nascere ogni possibile manifestazione di dissenso, è in lockdown da più di 100 giorni. L’ opinione comune è che le morti si sarebbero potute evitare se non fosse stato impossibile abbandonare l’edificio a causa del lockdown in corso.

Non che il governo non abbia provato a fermare le proteste o la diffusione delle immagini, sia chiaro, ma la protesta si è spostata al di fuori dei classici canali come Weibo e Wechat, coinvolgendo dating apps e canali Telegram, da cui video e foto sono state scaricate e ripostate su Twitter e Instagram, coinvolgendo anche le comunità cinesi all’estero. Studenti e cittadini di origine cinese residenti all’estero hanno organizzato veglie e sit-in in numerose città, tra cui Parigi, Londra, Tokyo e Sidney.

Ai WeiWei, artista cinese di fama mondiale residente all’estero e noto dissidente, ha commentato che le proteste non avranno un futuro. I dissidenti non hanno leadership, organizzazione o richieste definite, non hanno un leader e, sostiene, non ne troveranno uno, perché “il partito ha sradicato qualsiasi ambiente politico [al di fori di esso]”.

Tralasciando le previsioni di lungo termine, rimane il fatto che queste sono le prime proteste su larga scala che coinvolgono la Repubblica Popolare al di fuori di Hong Kong dalle tragiche manifestazioni di Piazza Tian An Men.

I funzionari di basso e medio livello si trovano nella sfortunata posizione di dover gestire la crisi in prima linea e incolpano il troppo zelo nell’implementare le linee guida centrali, parlando di un rifiuto da parte della popolazione per l’approccio “a taglia unica” avuto finora, non per la prevenzione e il contenimento in sé. Non promettono di protestare contro le misure ma di chiedere di poter adattare le linee guida alle necessità specifiche di ogni città, in un estremo tentativo di evitare di trovarsi incastrati tra una rivolta e la disobbedienza alle istruzioni del governo centrale.

Ma cosa significano le proteste per Xi Jinping?

Quando il mondo fu travolto dalla pandemia, Xi Jinping rese la battaglia al virus una questione personale, prendendosi la responsabilità del risultato della gestione della pandemia. La politica Zero Covid e l’approccio “put people’s lives above everything” sembravano aver dato i loro frutti quando, ad un anno dallo scoppio della pandemia, la Repubblica Popolare vantava un numero di infetti e di decessi nettamente inferiori ai Paesi Occidentali, e Xi Jinping decise di inacassare il capitale politico di questa vittoria dichiarando la vittoria nella guerra al Covid, successo che venne persino inserito nel capitale politico e ideologico ufficiale del Partito. Due anni dopo paga lo scotto di questo atto di tracotanza: mentre il resto del mondo sta tornando alla vita com’era prima, in Cina il tempo è fermo al 2020, una verità ormai inconfutabile.

Il problema per Xi Jinping è cosa fare ora: il Paese ha una percentuale di vaccinati relativamente bassa, l’efficacia del vaccino Made in China rimane dubbiosa e persiste il fondato timore che il sistema sanitario nazionale non possa reggere l’ondata di contagi che seguirebbe sicuramente a ulteriori aperture. Se le aperture sono escluse, rimane la domanda di come gestire le proteste: il Partito ha promesso stabilità, e per ogni giorno in cui le proteste imperversano nel Paese questa promessa sembra sempre meno affidabile.

Come mantenere la credibilità e la fiducia nella capacità di Xi Jinping di guidare il Paese? Le scelte a sua disposizione sono o rinnegare la politica portata avanti finora, o sopprimere le proteste. In ogni caso xi perderebbe qualcosa: un dietrofront minerebbe la sua credibilità all’interno del Partito, ma sopprimere le proteste gli farebbe perdere quel capitale politico che cerca di ricostruire da quando è in carica, la fiducia dei cittadini cinesi.

 

* Laureata in mediazione linguistica cinese – inglese
e in Studi Europei e Internazionali con focus sul l’Asia Nordorientale

Subscribe
Notificami
0 Commenti
Oldest
Newest
Inline Feedbacks
View all comments