I 13 segreti della felicità che si nascondono nella vita monastica

I 13 segreti della felicità che si nascondono nella vita monastica

di Anna Raisa Favale

LE COSE CHE HO IMPARATO DALLA VITA MONASTICA

In un periodo molto difficile della mia vita, un paio di mesi fa sono venuta a trascorrere del tempo in un convento, con una fraternità di suore trovata prima negli Stati Uniti e poi in Messico.

Stando con loro, ho imparato tantissimo dalla vita monastica, tra le cui pieghe sono fermamente convinta si nasconda il segreto della felicità – e questo è un breve sommario su cui credo tutti dovremmo riflettere – al di là delle vite che facciamo – per poter in parte riprodurre alcuni dei suoi segreti nelle nostre quotidianità.

Quando sono arrivata in Convento la Superiora mi ha portato in cucina. Mi ha dato un vassoio, un piatto, una coppetta, un cucchiaio, una forchetta e un coltello. Uno per ognuno. Non più di uno, perché tanto è inutile. Nella mia camera c’è un letto, un tavolo con una piccola luce, un piccolo armadio e un tappetino sul quale inginocchiarmi, se voglio, di fronte a un quadro della Vergine Maria, con una candela accanto.

Le uniche cose per le quali si abbonda, in convento, sono infatti le candele, con le quali si illumina la Chiesa e il Santissimo esposto, e i fiori con cui si adorna la Chiesa o i quadri di Maria.

Quelli vengono sostituiti ogni giorno o ogni due, e sono sempre freschi ed esposti con cura e perfezione, ma è come l’olio di nardo con cui la donna peccatrice cosparge i piedi di Gesù. Costoso, e apparentemente “inutile”, visto come uno spreco da Giuda che gli siede accanto.

In convento, tuttavia, l’utile e l’inutile spesso si scambiano di posto, così come l’essenziale e il superfluo. E’ essenziale solo ciò che aiuta a tenere il proprio focus su quello che davvero è importante, e superfluo tutto ciò che da questo svia. E’ un principio anche molto asiatico e zen, oltre che cristiano. Serve a mantenere l’attenzione su Gesù? Sì, allora non è superfluo. Mi distrae, invece, da Gesù? Sì, allora è inutile e anzi dannoso, e sarebbe meglio farne a meno. È la vita densa, densissima, dove solo quello che è essenziale resta, e dove tutto il resto viene messo al lato.

Il silenzio è l’ospite d’onore di tutti i conventi. Anzi, ne è il padrone di casa. Esso è un prolungamento stesso di Dio, ne è il Suo annunciatore. È nel silenzio che Dio parla, ma per ascoltarlo bisogna fare un passo indietro: quello di abituarsi, al silenzio.

In un mondo circondato di rumore, un sottofondo di costante disturbo che non avviene solo fuori, nel trambusto delle città o nel chiacchiericcio dei piccoli paesi, ma anche nella nostra testa, attraverso uno schermo seduti sul divano di casa, anche nelle occasioni potenziali di silenzio, non riusciamo ad evitare il rumore.

Il silenzio fa paura, in fondo, e ci sforziamo di riempirlo con qualcosa. In Convento, questo avviene molto meno. In cima a una collina, in un bosco, o su di una montagna, lontani da tutto, nei Conventi c’è silenzio, e la regina vera dei conventi è l’adorazione silenziosa. In questo, in particolare, ci sono almeno 2-3 ore di Adorazione silenziosa ogni giorno. Alla sera, alla mattina, a volte anche in altri momenti della giornata. E silenziosa vuol dire “in completo silenzio”. Non ci sono canti, chitarre, riflessioni. Ore ed ore di silenzio di fronte al Santissimo, a volte accompagnati dall’unico
suono della pioggia incessante fuori sulle foglie di palma. Provare per credere, è il Paradiso sulla terra.

Penso alle nostre chiese dove a malapena si riesce a esporre il Santissimo per 1 ora, 1 volta a settimana, e in quell’ora bisogna invitare qualsiasi gruppo ad animare – scout, associazioni, cori – perché per più di 10 minuti in silenzio davanti a Gesù non sappiamo più stare. Ma come penseremo mai di avere una relazione privata e personale con Lui, se non ci prendiamo il tempo e il modo di ascoltarlo? Il dialogo nasce solo nel momento in cui iniziamo ad ascoltare – altrimenti è un monologo – e l’ascolto avviene solo nel silenzio. Ma è un allenamento, come andare in palestra, o imparare a suonare uno strumento. Si impara poco alla volta, con disciplina e costanza.

In convento la “vita pubblica” e la “vita privata” sono estremamente connesse. La vita pubblica si limita alla vita di comunità con le altre sorelle, ma è pur sempre vita con gli altri: cucinare, organizzare, pulire, e anche pregare insieme. E poi c’è il privato, la cappella da soli e il segreto della propria stanza, che però è a 10 metri da Gesù che lì, fisicamente, ti guarda in ogni momento della giornata.

In convento mi sono risuonate dentro molto più profondamente le parole del salmo: “Tu sai quando mi siedo e quando mi alzo, tu tutto sai..”. A volte nel mondo penso che ci sia molto distacco tra la vita pubblica e la vita privata, nella nostra fede, quando invece dovrebbero essere una la continuazione dell’altra. Mi sembra che si intenda come “a parte” e distaccato quello che succede in Chiesa, di fronte al Santissimo, da quello che succede nel luogo di lavoro, o a porte chiuse, nelle nostre case. Il convento ti ricorda, invece, che la vita è una e il Padre è sempre lì e ci guarda.In convento al centro c’è la preghiera, e tutto il resto ruota attorno. Ci si alza, si va a pregare. Le lodi, l’Adorazione. Poi a metà giornata c’è “l’ora sesta”, poi i Vespri a fine giorno. La Messa da qualche parte nel mezzo, e la preghiera silenziosa alla fine, per chiudere la giornata e andare a letto. Tutto il resto – il lavoro, sia personale che comunitario, il cucinare, il tempo libero – ruota tutto intorno a questi pilastri di preghiera. E ho sperimentato quanto questa struttura aiuti proprio nel lavoro e nelle relazioni.

San Benedetto ha insegnato a tutto il mondo quando ha coniato l’espressione “Ora et labora”. Vuol dire che se metti al centro Gesù, tutto il resto viene meglio – spiegato semplice – e che Gesù diviene sempre di più parte di ogni cosa che fai, anche quando Lui non ne è apparentemente l’oggetto. Tutto dipende nella vita da cosa scegliamo di mettere al centro attorno a cui far ruotare tutto, è come il pilastro centrale attorno a cui gira la giostra. E questo non dipende dal lavoro che facciamo, o le cose che facciamo nel giorno.

C’è differenza, per esempio, nel pensare: “Ok, allora oggi lavoro dalle 8.30 alle 1.30, e poi dalle 14.30 alle 17.30. A pranzo vedo un’amica, e dopo lavoro vado a prendere mia figlia all’asilo e sto con lei”, oppure: “Ok, allora, stamattina prima di iniziare qualsiasi altra cosa dico un Rosario (per esempio), poi nella pausa pranzo vado a messa e pranzo al volo con un’amica, e poi dopo lavoro vado a prendere mia figlia dall’asilo e stiamo insieme, e stasera ci vediamo un film e poi preghiamo insieme”.

Le ore di lavoro della giornata restano le stesse, ma è il focus che cambia. Il punto non sono le cose che facciamo, ma cosa riteniamo essere il pilastro attorno a cui gira tutto. In convento le ore dedicate alla preghiera sono tante per ovvi motivi, ma fuori dai conventi non devono necessariamente essere le stesse, il tempo può essere anche un terzo, ma se è considerato il pilastro della giornata e della vita tutto cambia.

C’è per ovvi motivi una grande routine in convento, e aiuta tantissimo ad allenare la disciplina e la costanza. Serve a costruire dei modi di fare che durino nel tempo, e ci permettano di crescere. La routine – sempre quando al centro si mette Gesù, ovviamente, non una routine vuota e formale – ci fa crescere nella produttività, ci inserisce in un circolo virtuoso che ci permette di dare il massimo.

Orari e puntualità ci aiutano a dividere la giornata, il tempo, i pensieri, le emozioni a cui dare spazio. Non si disperdono le energie, ma invece si catalizzano per raggiungere il massimo del loro potenziale. Non è un caso se siano stati i conventi ad ospitare le biblioteche e le università, se è grazie ai monaci certosini che la cultura si è diffusa in Europa o se siano stati prodotti pezzi d’arte magnifici, o fatte scoperte scientifiche, o scritto libri del calibro di trattati, nei conventi. Perché qui si lavora tantissimo, e con grandi risultati.

In convento non si sceglie. Si mangia quello che arriva – qui si vive di provvidenza – e non si sceglie a che ora alzarsi, o quando pregare, o quando lavorare. Qualcun altro sceglie sempre per te. Questo permette un allenamento dell’anima, della mente e del corpo che altrimenti non sarebbe possibile, e un’obbedienza che è fondamentale per la crescita.

Avere l’illusione di scelta infinita, a volte è il contrario della scelta, si finisce per non scegliere niente. Ma non avere possibilità di scelta, o comunque limitare quello che sembra un potenziale senza fine, soprattutto in alcuni momenti della vita, aiuta a capire dove andare. Questo è il ruolo di un Padre Spirituale, per esempio, o della stessa famiglia, finché si è molto giovani e si vive ancora con i propri genitori.

Credo fermamente che chi ricopre ruoli educativi dovrebbe riscoprire il valore del “limitare” l’educando, ha un grandissimo valore formativo.

Questo potrebbe sembrare più scontato, ma non credo che lo sia. I conventi sono di norma posizionati in zone più lontane dai centri, spesso in luoghi di natura, se si può. In un momento storico dove la natura sembra sempre di più un lusso, i conventi ci ricordano che come esseri umani siamo natura, e riscopriamo noi stessi quando trascorriamo nella natura tanto tempo.

C’è un’armonia, nella natura, una semplicità, una ciclicità, una grandezza subordinata a Dio. Immergersi nella natura ci ricorda che siamo natura noi stessi, e a riscoprire quella parte di noi, una parte di noi ancestrale e connessa alla divinità in modo diretto, semplice, unico, ci aiuta a riscoprire la nostra anima più profonda.

Questa per me è una delle scoperte più care: sono venuta in convento in una fase della mia vita in cui sentivo che il tempo mi stesse rincorrendo, ma una volta qui, ho sentito al contrario il tempo fermarsi, scorrere più lento e dilatarsi. Chiunque senta che il tempo corre, venga a stare in convento per un po’, cambierete completamente la vostra percezione.

Nel Convento non esiste “domani”, c’è solo “l’oggi”. Perché tanto non è che domani qualcosa cambia, o si va chissà dove. Una volta volevo cucinare per le suore e mi hanno detto: “Puoi insegnarci a fare la pasta fatta in casa?” “Certo”, ho risposto io. “Ora?”, mi hanno chiesto. Erano le 3 del pomeriggio, io ero semplicemente di passaggio dalla cucina per prendere un bicchiere d’acqua, e avevo il mio bel programma di cose da fare, e non mi aspettavo l’iniziativa fulminea. “Perché no?“, però ho pensato. E ho capito che questo è il mondo in cui le suore vivono, interiormente: ora è un buon momento, ora siamo vivi, perché no? Domani, chi lo sa? In fondo il loro moto interiore è solo quello di aspettare la venuta dello sposo.

Qui non esiste il “farsi pronti”, qui esiste solo “l’essere pronti”; in ogni momento, per qualsiasi cosa, anche ora, se seve. E’ un atteggiamento interiore che non è detto si possa applicare sempre e a tutte le cose della nostra vita, ma è importante ricordarlo: se viviamo nel presente, non saremo più schiavi del tempo, ma sentiremo il tempo dilatarsi, perché lo staremo possedendo, non sarà lui a possederci.

Inoltre, in pochi giorni di convento succedono così tante cose, a livello spirituale, che è come se si trascorresse molto più tempo di quello che in effetti si trascorre, perché la vera vita è quella dello spirito, e una volta che le cose succedono a quel livello, in realtà succedono a tutti I livelli.

Non ci sono specchi in convento, neanche uno, neanche piccolo: non credo che questo sia solo perché ci si concentra ovviamente più sul dentro che sul fuori, sull’interiorità più che sull’esteriorità, ma anche perché il senso principale diventa l’ascolto, e non più la vista.

In un mondo iper visivo, dove non siamo più abituati a comprendere e vedere quello che non si vede con gli occhi, il Convento ti ricorda che il senso più profondo è un altro, e che per svilupparlo, bisogna un po’ “dimenticarsi” di quello che si vede. Abbandonare una parte di sé, metterla per un po’ all’angolo. Svilupparne altre, come quando si impara a scrivere con la mano sinistra se fossimo costretti ad avere quella destra ingessata. In convento “si ingessa” la vista per allenare l’ascolto. E questo credo sarebbe così importante da fare anche fuori.

In convento, ogni giorno è diverso, e viene celebrato in maniera diversa. Seguendo la liturgia, il Giovedì Santo è il giorno dell’Ultima cena e si conclude sempre con “l’ora Santa”, ore di Adorazione di fronte al Santissimo alla fine della giornata, il venerdì ricorda il venerdì Santo e non solo si fa digiuno, ma la giornata di preghiera è strutturata un po’ diversamente, con la preghiera del rosario. Il sabato è il giorno di Maria e il giorno del silenzio: l’adorazione è continua tutto il giorno e la preghiera non è comunitaria ma privata, e poi la domenica è il giorno della festa, il convento si apre a visite e persone da fuori, si addobba la cappella, si cucina qualcosa di più prezioso. In più, si seguono le solennità e i santi particolari, a volte c’è adorazione notturna e a volte qualche celebrazione particolare.

Ogni giorno, quindi, ha una valenza specifica. Il tempo non passa come se fosse niente, ma viene vissuto, al contrario, con grande valore. In un mondo esterno che non ricorda neanche più il valore della domenica e il venerdì è il giorno dello sballo, il convento ricorda che il tempo non è solo prezioso di per sé, ma anche per quello che ogni singolo giorno rappresenta, giorno attraverso cui Dio ci sta dicendo qualcosa di diverso e di unico, e ci sta ammaestrando con una parola diversa.

La vita in convento prova che la Comunità è indispensabile per crescere nella preghiera e nella vita interiore. Pregare insieme dà forza, lavorare insieme dà forza. Quando da soli ci si sente stanchi, la comunità arriva come sostegno.

I conventi sono delle Comunità di persone che insieme hanno scelto di seguire Cristo, ma questo spesso manca nelle nostre Chiese e nelle nostre Parrocchie e l’individuo si sente spesso abbandonato.

I conventi sono il luogo ideale dove vedremo il lavoro manuale e il lavoro spirituale alternati perfettamente. A prova del fatto che siamo una complessità connessa – corpo, mente e spirito – l’uno ha bisogno del supporto dell’altro per funzionare nel modo migliore.

Non so come dirla meglio di così, questa cosa, ma stare alla presenza di Gesù davvero è l’unica medicina per il nostro cuore. La presenza, di chi amiamo, di una madre, del partner, della migliore amica, sappiamo quanto sia importante. Perché questo non dovrebbe valere e moltiplicarsi esponenzialmente per Gesù?

Se abbiamo bisogno di riscoprire chi siamo, di sentirci amati, consolati, ascoltati, se abbiamo bisogno di guarire, non c’è medicina migliore della presenza di Gesù. Non organizziamo serate a casa delle amiche, viaggi col partner o vacanze, quando vogliamo ricaricarci o ritrovarci? Perché non dovremmo allo stesso modo organizzare “dei viaggi con Gesù”? Solo Lui e voi, in intimità, in silenzio, lontano dal mondo – dove spesso si va con chi si ama quando ci si vuole ritrovare – e trascorrere con Lui le ore, i giorni, le notti. A parlarsi, guardarsi negli occhi, ascoltarsi. Non è così che facciamo con chi amiamo? E perché non dovremmo farlo con Gesù? Io sono benedetta perché posso lavorare con il mio computer e posso viaggiare nel frattempo, ma se non ci si può prendere un mese, si può provare con una settimana, o anche un weekend, o anche due giorni.

Dio sa il tempo che possiamo dargli e non ho dubbi che in quel tempo, fosse solo anche un’ora, farà il miracolo che vi serve al vostro cuore. Perché a Dio basta un secondo, in verità. Aspetta solo che noi decidiamo di dedicargli quello che possiamo, aspetta solo un atto della nostra volontà, ma poi a Lui basta un secondo, non gli serve neanche che siamo lì di fronte a Lui. Quello serve a noi.

 

Foto: Pixabay

 

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