Cina, Xi Jinping proseguirà il processo di sinicizzazione delle religioni. Le riflessioni della sinologa Chiara Masotto

Cina, Xi Jinping proseguirà il processo di sinicizzazione delle religioni. Le riflessioni della sinologa Chiara Masotto

di Matteo Orlando

XI JINPING, DURANTE IL SUO DISCORSO AL 20° CONGRESSO DEL PARTITO COMUNISTA CINESE, HA PARLATO DI “COMPLETARE LA RIUNIFICAZIONE DELLA CINA”. CON UN CHIARO RIFERIMENTO A TAIWAN HA DETTO: “NON RINUNCEREMO ALL’USO DELLA FORZA E ADOTTEREMO TUTTE LE MISURE NECESSARIE PER FERMARE TUTTI I MOVIMENTI SEPARATISTI”

Xi Jinping è il primo leader, dopo Mao Tse-Tung, a rimanere alla guida del Partito Comunista Cinese (PCC) e, quindi, alla guida di tutta la Cina, per più di due mandati.

Il capo di Stato comunista, infatti, si è assicurato un terzo lungo periodo di comando a capo del colosso asiatico durante il 20° Congresso del PCC, tenutosi nella Grande Sala del Popolo a Pechino dal 16 ottobre e destinato a concludersi dopodomani.

In un discorso di un’ora e tre quarti, il leader comunista ha riaffermato la sua intenzione di annettere Taiwan e ha confermato che intende continuare ad esercitare il controllo sulle religioni.

Parlando di “completare la riunificazione della Cina“, con un chiaro riferimento a Taiwan, l’isola autonoma che le autorità cinesi considerano una provincia separatista dalla quale prima o poi desiderano riprendere il controllo, ha detto: “non rinunceremo all’uso della forza e adotteremo tutte le misure necessarie per fermare tutti i movimenti separatisti“.

Taiwan, che è stata riconosciuta come stato indipendente solo da un ristretto numero di nazioni in tutto il mondo adesso teme un’invasione. “La risoluzione della questione di Taiwan è una questione di competenza del popolo cinese stesso, che deve essere decisa dal popolo cinese“, ha aggiunto Xi Jinping.

Il leader cinese ha assicurato che proseguirà anche il processo di sinicizzazione delle religioni in Cina per guidare “in modo proattivo l’adattamento della religione e della società alle idee socialiste“.

A giudizio di alcuni osservatori ciò significherà un controllo assoluto sulle credenze religiose, comprese quelle dei cattolici cinesi fedeli al Papa (non di quelli dell’Associazione patriottica cattolica cinese, al servizio della dittatura comunista).

Adesso in molti sostengono che anche la Santa Sede, che ha firmato un accordo con la dittatura cinese per la nomina dei vescovi, dovrebbe rivedere questa posizione.

Sulle dichiarazioni di Xi Jinping, e sul 20° Congresso del Partito Comunista Cinese, Informazione Cattolica ha sentito la sinologa Chiara Masotto. La dottoressa Masotto è laureata in “Mediazione linguistica cinese – inglese” e in “Studi Europei e Internazionali” con focus sull’Asia Nordorientale.

Dottoressa Masotto, Xi Jinping, durante il 20° Congresso del Partito Comunista Cinese, ha assicurato che proseguirà il processo di sinicizzazione delle religioni in Cina. In concreto, a suo giudizio cosa significa? Si intensificheranno le persecuzioni contro cattolici fedeli alla Santa Sede e gli islamici? Perché, a suo giudizio, la Cina persevera in questa azione ideologica?

Per comprendere l’atteggiamento del Partito Comunista Cinese nei confronti delle religioni dobbiamo ricordare che, per loro, la religione non è una questione di scelta personale ma un potenziale competitor per il monopolio sul discorso politico, che si riflette sulla legittimità del potere. La religione abbraccia l’intero campo dell’esistenza, con i suoi insegnamenti contribuisce a determinare l’orizzonte interpretativo del mondo e le scelte che vengono fatte in base ad esso. Potenzialmente è pericolosa quanto il pensiero liberale o qualsiasi altra linea di pensiero che offra un discorso alternativo a quello del Partito Comunista. I contenuti sono un problema secondario, è soprattutto una questione di controllo: il Partito Comunista può accettare l’evoluzione del pensiero filosofico e politico al suo interno, può accettare nuove istituzioni, ma tempi, modalità della loro introduzione devono essere guidati dallo stesso Partito Comunista, non da soggetti terzi”.

Ci fa qualche esempio?

“Un paragone utile è quello con la  democrazia: all’interno delle Università e dei Think Tank legati al Partito Comunista si discute di democrazia e della possibilità di adattarla al contesto cinese dai primi anni duemila. Di fatto alcune istanze democratiche esistono già in Cina, come il sistema di doppio ballottaggio nei villaggi rurali o le consultazioni fatte a livello nazionale quando è stato necessario riscrivere la legge nazionale sul lavoro, ma queste forme di democrazia sono state introdotte e usate con la partecipazione del Partito Comunista, non escludendolo. Dobbiamo poi ricordare che per il Partito Comunista Cinese i diritti umani collettivi precedono quelli individuali, non solo gerarchicamente ma anche dal punto di vista ontologico: si hanno i diritti che ci si può permettere, e il diritto all’istruzione, alla salute, alla scelta del proprio lavoro, è secondario al fatto che esista un’economia fiorente che dia a tutti la possibilità economica di perseguirli. In questa logica, se il perseguire un diritto individuale – nel nostro caso gli insegnamenti di una religione – ostacolano il perseguimento dei diritti comuni, allora è la religione a dover cambiare”.

Xi Jinping ha parlato della “riunificazione della Cina” , in un chiaro riferimento a Taiwan, l’isola autonoma che le autorità cinesi considerano una provincia separatista della quale, prima o poi, desiderano riprendere il controllo. Crede che questo accadrà presto? 

“La riunificazione di Taiwan è un punto programmatico che deve essere ricordato sempre e comunque. Dal 1949 ad oggi la legittimità del Partito Comunista Cinese si è basata sull’essere in grado di difendere il Paese, riportandolo al posto che gli spetta di diritto nella storia. Questo rinascimento cinese passa anche attraverso il recupero dell’integrità territoriale del Paese e Taiwan è fondamentale per questo scopo. La fattibilità dell’impresa invece non è certa: Taiwan è un protettorato a stelle e strisce su cui veglia anche il Giappone, a cui va il merito di aver riportato in vita il QUAD, l’iniziativa per la sicurezza a cui partecipano anche USA, India e Australia. Se anche ci fosse un’invasione di Taiwan, il problema per Pechino sarebbe essere tagliata fuori da tutte le rotte marittime da cui dipende per il commercio e gli approvvigionamenti”.

Gli Stati Uniti hanno minacciato una reazione militare nel caso di intervento cinese a Taiwan. Rischiamo davvero un conflitto Usa-Cina?

“Ciò che rende un conflitto più probabile è il fatto che entrambe le parti se lo aspettino: Washington si è riposizionato nel Pacifico identificando nella Cina il maggior competitor ancora dalla prima amministrazione Obama, e tutte le mosse degli Stati Uniti vanno lette in quest’ottica, anche i limiti posti all’impegno in Ucraina. Washington non andrà in guerra per Kiev ma lo farà per Taipei. Pechino non può fare marcia indietro sulla questione della riunificazione perché taglierebbe le gambe alla legittimità del potere del Partito Comunista Cinese e qualsiasi azione che possa essere letta come un passo indietro alienerebbe al Partito il prezioso supporto popolare. Se a questa miscela esplosiva aggiungiamo una serie di incidenti dove entrambi rischiano di perdere la faccia, un conflitto diventa più che possibile. Per entrambi la vita sarebbe molto più facile senza un conflitto per Taiwan, ma qui c’è in gioco la moneta principale delle grandi potenze e aspiranti tali, la credibilità”.

Dopo l’attuale intensificarsi del conflitto Russia-Ucraina secondo lei la Cina potrebbe intervenire politicamente?

La Cina non interverrà. Non tutto il mondo vuole essere trascinato nelle questioni occidentali, sentimento comune a potenze come la Cina e l’India. Dall’inizio del conflitto Pechino ha scelto di supportare Mosca usando tattiche che non le alienassero il favore Occidentale: compra petrolio e gas ma non fornisce soluzioni tecnologiche avanzate o armi, e il supporto politico tanto vantato da Mosca si esaurisce nella semplice asserzione che questa è una questione interna russa. Non è una condanna esplicita, che per Pechino sarebbe un pericolosissimo precedente, ma non è nemmeno supporto incondizionato.  Pechino e Mosca, pur essendo favorevoli ad un cambiamento verso un mondo multipolare, hanno opinioni diverse su quello che è lo stato attuale: Mosca ritiene che il sistema unipolare a guida statunitense sia esaurito, Pechino invece pensa che la transizione sia ancora in corso e che Washington rimanga un avversario temibile. Per Pechino sarebbe utile che gli Stati Uniti si impegnassero in un conflitto contro Mosca che li distragga da Taiwan, cosa che Washington sta evitando lasciando che siano i suoi alleati europei a combattere. Aggiungiamo poi che, in termini di aiuto, Mosca ha più bisogno di componenti elettroniche avanzate come i semiconduttori di ultima generazione che di uomini, e che Pechino non sarà in grado di fornirli. Non solo non era un produttore di prima fascia, è stata anche esclusa dalla vendita di semiconduttori e tecnologie di produzione americana, eliminando questa possibilità. Tutto considerato direi che no, Pechino non interverrà in favore di Mosca aumentando il suo impegno a supporto dell’alleato”.

La Santa Sede ha firmato degli accordi con la Cina per la nomina dei vescovi. In molti osservatori hanno criticato tale accordo, sottolineando le violazioni del patto da parte delle autorità cinesi. In molti, anche cardinali, chiedono alla Santa Sede di rivedere questo accordo. Lei che ne pensa?

“Credo che questo sia il miglior accordo raggiungibile con Pechino, che per i motivi già discussi non cederà il controllo su quella che può essere una fonte alternativa di creazione del discorso politico. Capisco anche che il messaggio inviato da questo accordo non sia in linea con ciò che vogliono i sostenitori del diritto alla libertà religiosa: se la più grande religione organizzata al mondo si sottomette al diktat del Partito Comunista Cinese, che possibilità hanno le altre? Qui però il potere contrattuale è nelle mani di Pechino, che può sempre scegliere di limitare ulteriormente le concessioni fatte. Se a livello ideale sarebbe auspicabile rinegoziare il patto, la realtà è che questa è la migliore tra le alternative possibili”.

 

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