Poeta, chierico e cortigiano, Ariosto narrò della follia del mondo

Poeta, chierico e cortigiano, Ariosto narrò della follia del mondo

di Francesco Bellanti

NELL’ANNIVERSARIO DELLA SUA NASCITA A REGGIO EMILIA, RIPERCORRIAMO LA “VITA TRANQUILLA” DEL GRANDE POETA E COMMEDIOGRAFO LUDOVICO ARIOSTO (1474-1533)

La follia non è un’invenzione moderna, che so, di Pirandello, di Svevo, Kafka, Nietzsche, o di Freud, è antica quanto il mondo. Per gli antichi, la follia governava anche le stelle, gli stessi Dei che avevano creato il mondo. La follia governava tutto, e il cielo e la terra erano la stessa cosa, e tutto ciò che accadeva in cielo influiva anche sulla terra e viceversa.

Questo è qualcosa che i moderni non riescono più a comprendere. Certo, in Dante i cieli sono Dio, ma, fino a Pascoli, c’è un perfetto equilibrio tra le stelle e l’uomo. Così la Luna di Ariosto contiene il senno perduto degli uomini, la Luna ha valli e foreste e fiumi più belli di quelli della terra. La Luna è la terra.

Già, Ariosto, forse lo scrittore più tranquillo della nostra letteratura, è quello che meglio di ogni altro ha saputo narrarci la follia. Un altro grande poeta del Rinascimento, Torquato Tasso, impazzì perché voleva dare ordine al mondo, Ariosto invece accettò il mondo così com’è, si ritagliò un angolo di pace e di amore con la sua Alessandra Benucci, e lo narrò con gioia, con ironia, con sereno distacco. Beh, si può essere moderni anche così, no? Insomma, solo accettando la follia si può vivere nel mondo.

Desiderare nel mondo è vano, è fallimentare, ogni ricerca, ogni inseguimento, ogni errare è senza senso. È questa la filosofia del Grande Reggiano, autore de L’Orlando Furioso.

Torniamo sempre al punto di partenza, con movimento circolare inconcludente. È lo spazio della bassura, dell’abisso a cui sempre si ritorna. È il viaggio senza meta, soggetto sempre all’errore. È il viaggio senza Dio, preda del caso, del capriccio della Fortuna. È il percorso frustrante, interminabile, dentro una selva senza via d’uscita, la selva intricata popolata di fantasmi e d’immagini reali, dove non è possibile distinguere la realtà che si mescola e si aggroviglia. L’uomo preda dell’arbitrio del caos, di quello che noi oggi chiamiamo anche destino. Non si possono eliminare questo tempo e questo spazio di confusione. La frustrazione, il continuo differimento.

Lo scacco della realtà, il capriccio, il rovesciamento delle attese, il mutevole, l’inganno, l’illusione, le vuote apparenze. Sì, non è forse questa la vita? Un instancabile intrecciarsi di vicende senza senso, un intreccio di avventure interrotte e riprese, storie che non portano da nessuna parte, sentieri interrotti, un tornare e scomparire di ricordi che la memoria non recupera, la ricerca di qualcosa che non si ottiene mai, frustrante, inappagata, l’errare senza fine e il ritornare lì, sempre lì, dove si è partiti.

È il movimento circolare dell’eterno ritorno, della vita che però si dipana sulla terra, nello spazio orizzontale, terrestre, dove tutto accade, nel tempo senza tempo, ambiguo, nell’immane labirinto degli accidenti da cui non si esce mai, sotto il disincanto del capriccio della Fortuna, del caos. 

Tutto il mondo di Ariosto è un caos. Tutti sono alla ricerca di qualcosa che sfugge sempre. Orlando, il più grande dei paladini, che impazzisce per una donna, abbandona i suoi doveri di cavaliere e di paladino della cristianità per una donna che si concede a un umile fante saraceno, Medoro.

Tutto è caos e follia in Ariosto: la disperazione di Rinaldo, la gelosia di Bradamante, l’ira smisurata di Rodomonte. Tutti sono pazzi e il senno degli uomini si raccoglie sulla Luna, un luogo più bello della Terra. Una proiezione della Terra. Lì si reca il paladino Astolfo sull’Ippogrifo a recuperare il senno del paladino più grande, il senno di Orlando.

Eh sì. L’Orlando Furioso è il poema non dell’armonia ma della dissonanza e della follia. Sì, Ariosto ha compreso che è la follia la chiave per comprendere il mondo. Nell’edonismo e nel naturalismo dell’Umanesimo e del Rinascimento si ha la percezione che il mondo sia una selva oscura, un labirinto, un groviglio inesplicabile.

L’uomo è posto al centro dell’universo ma è solo, a lottare contro i titani e le forze oscure. Dio è lontano se non assente, inarrivabile. La follia allora diviene lo strumento che scompiglia lo sguardo tradizionale sul mondo. È una forza conoscitiva straordinaria, più o meno come la malattia degli scrittori del Decadentismo, che poi trova dimora più facilmente nei cosiddetti savi.

La mancanza di senno, insomma, si trova in quelli che pensano di essere dotati d’incrollabili certezze che non presso i veri pazzi, che sono in grado di assecondare in modo più autentico la propria coscienza e le proprie pulsioni.

E allora, che fare? Solo la mente può vincere tutto questo. Il rifugio nella follia. Nella solitudine. Oppure nella letteratura, che è quel che fa Messer Ludovico dal suo nido d’amore. Governa la follia con l’alto magistero della letteratura, col sacro distacco dell’ironia, con la vita serena e tranquilla a cui sempre egli aspirò. Col piacere di narrare, di una lingua chiara e cristallina, armoniosa, senza increspature, organizzata in un’ottava che è un miracolo di scorrevolezza e di equilibrio.

È un pessimismo più profondo ma meno tragico di quello degli altri tre grandi del Rinascimento, dico Machiavelli, Guicciardini e Tasso, perché questi non ebbero mai il dono dell’ironia, e forse nemmeno dell’amore. È un pessimismo più profondo che egli vince con la letteratura.

Tasso, come un poeta moderno, entrò nella follia per potere dominare l’allucinazione e l’angoscia. Nella follia egli era padrone di sé stesso e del mondo, era padrone dei suoi sogni. Solo con la follia egli poteva superare il suo smarrimento psicologico, la sua sensibilità dolente e turbata da un secolo che non gli apparteneva. La sua mente e la sua fantasia navigavano oltre. Erano perfette, un’opera d’arte al di fuori del tempo e della storia. L’Aminta, la Gerusalemme liberata, tutte le sue poesie in modi diversi sono dei capolavori perché la sua vita è un’opera d’arte. Egli finse la sua follia così bene che a un certo momento la follia divenne reale. Era il tempo che era aggrovigliato e sconvolto, non la sua mente. Così si rifugiò nella follia e nella solitudine, che in fondo sono la stessa cosa. La solitudine, poi, ha a che fare con il mondo della natura. Il suo compiuto mondo è, infatti, il mondo dei pastori e delle ninfe dell’Aminta, la favola pastorale dell’Aminta, il mondo della natura, dell’amore libero. È il giardino di Armida, che si nutrisce di vento e del canto dei vezzosi augelli, Armida, immagine sinuosa ma vera della sensualità e dell’erotismo, che fa dimenticare a Rinaldo il suo dovere e gli fa perdere la dignità di cavaliere, e nello stesso tempo è fragile e debole quando egli l’abbandona, questo è il suo mondo. È la tenera e spontanea Erminia, che odia le inique corti. È Clorinda che muore in duello. È l’incomunicabilità dell’amore. L’impossibilità dell’amore. Donne sole nell’ora fatale. Amore e morte che si congiungono. È questa la sua follia. Un poeta moderno. La pulsione dispersiva e l’ordine: era umano, troppo umano. Come tutti i folli.

Messer Ludovico no, il cortigiano Ludovico che rifiuta pure lui le corti, se ne sta in disparte, non entra nella follia, la osserva, la scruta da lontano, la narra. La sua follia se la tiene per sé. Come l’amore. Solo coltivando un piccolo ordine in noi stessi, egli dice, possiamo trovare la pace e l’amore, e così combattere la follia del mondo, e se lo facessimo tutti, non ci sarebbe più follia. È la folla, è la storia che dà origine alla follia. Oh, certo, forse sarebbe anche tempo di distinguere la pura follia, dalla pazzia, dalla stultitia, dalla insania, dalla dementia. Per Erasmo da Rotterdam, la demenza è quella che nel mondo rincorre i falsi valori, mentre la follia è in realtà la suprema saggezza, come quella che spinge il cristiano a fare un esercizio di vita della sua fede. Quello che fece Messer Ludovico, che ottenne gli ordini minori e fu chierico e al servizio di chierici e cardinali, trasformare la follia in saggezza. Quella di chi guarda con distacco dal proprio focolare domestico al caos della storia. 

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