Il problema della Legge e le sue origini (angelica o umana?)

Il problema della Legge e le sue origini (angelica o umana?)

di Pietro Madeo

IL PROBLEMA DELLA LIBERTÀ UMANA E DEI SUOI LIMITI NON È NATO NÉ AL TEMPO DI PAOLO E DI FLAVIO GIUSEPPE, NÉ A QUELLO DI GESÙ

È un antico motivo che Dio protegge Israele, quando questo osserva la Legge, e lo abbandona, quando questo la tradisce. Dio, allora, interviene per punire il popolo ebraico. Questa è la storia delle punizioni di Israele, ma è facile notare che la libertà di Dio è concepibile solo nei limiti in cui sceglie una pena. Dio altrimenti è chiamato in causa da Israele stesso che lo costringe ad agire, perché ristabilisca l’ordine turbato. Insomma l’azione di Dio è determinata da un certo comportamento etico dell’uomo e l’uomo è padrone del suo comportamento etico.

Niente di strano perciò che questa concezione farisaica abbia finito con l’arrivare fino a posizioni del tipo di alcune, oggi assai diffuse, per cui il messia finisce con l’essere Israele stesso; o comunque è Israele che preparerà la venuta del messia, tanto che questa finirà solo con l’essere un segno o una conseguenza della giustizia di Israele. Scrive oggi il rabbino Sierra: «Israele, quale collettività consacrata ed impegnata ad una particolare disciplina di vita, si considera al servizio dell’umanità per precederla e preparare con essa il Regno di Dio sulla terra» (cit. in Paolo Merlo, La religione dell’antico Israele, Carocci editore, Roma 2009, p. 150 e seguenti).

Se la testimonianza di Flavio Giuseppe lascia intravvedere la possibilità che nel I sec. d.C. sussistesse qualche dubbio all’interno dello stesso mondo farisaico circa la totale libertà dell’uomo di fronte al male (cosa che bene spiega la problematica di Paolo), nei secoli seguenti i rabbini hanno preso posizione nettissima in favore della libertà morale dell’uomo.

Nella seconda metà del II secolo d.C. il grande rabbino Aqiba (Abot, 5,15ss.) aveva detto che tutto è previsto (e quindi determinato da Dio), ma la libertà morale è lasciata all’uomo. Intorno al 300 r. Hanina ben Papa spiegava la sua concezione di una libertà morale assoluta dell’uomo col racconto dell’angelo della notte preposto da Dio ai concepimenti (Niddâ 16b). L’angelo chiede a Dio come dovrà essere l’uomo che sta per essere concepito: Dio determinerà tutto, tutto fuorché la sua libertà; l’angelo domanda se l’uomo dovrà essere debole o forte, saggio o stolto, ma deliberatamente non domanda se dovrà essere giusto, o ingiusto, poiché ciò dipende solo dall’uomo.

Comunque, il problema della libertà umana e dei suoi limiti non è nato né al tempo di Paolo e di Flavio Giuseppe, né a quello di Gesù. Si è visto, dunque, che, dal secolo II a.C. fino al 300 d.C., si hanno nel mondo ebraico alcune prese di posizione in favore della libertà morale dell’uomo. È chiaro dal loro tono che queste affermazioni si fanno sempre più nette col passare degli anni. Ciò dipende dal fatto che parallelamente alla corrente farisaica si dovevano essere sviluppate nel mondo ebraico altre correnti che predicavano cose diverse e che dovevano essere sembrate pericolose al farisaismo, se questo prese posizione.

Ci si può pertanto domandare se questa disperazione della Legge, da cui nasce il cristianesimo di Paolo come corrente di pensiero marcata da una ideologia ben precisa, risalga solo a Paolo o non abbia nell’ebraismo radici più antiche, non sia cioè una componente della cultura ebraica che, tenuta quasi in disparte perché temuta, ha finito con l’imporsi con l’evidenza di una realtà indiscutibile, quando si è presentato all’uomo la possibilità di inquadrare in nuove sistemazioni ideologiche una concezione così temuta.

Prima di guardare i testi qumranici, giova porsi ancora un problema riguardo a Paolo. Abbiamo visto come il mondo ebraico del tempo, grosso modo, di Gesù appare diviso circa il grave problema della libertà umana, o meglio dei limiti e delle possibilità della libertà umana. È certo che Paolo ebbe la sensazione precisa dei limiti di questa libertà e ne abbiamo già parlato. Si pone il problema se questa concezione limitata della libertà umana si possa considerare in Paolo nata con la conversione, oppure rappresenti uno stato d’animo dell’uomo radicato da tempo nella coscienza di Saulo.

In altri termini, ci si domanda se quell’incrinatura nella concezione farisaica della libertà che appare nella versione che ce ne ha lasciato Flavio Giuseppe e di cui abbiamo già parlato, non possa ritrovarsi anche in Saulo. Quando Paolo guarda la Legge, da qualunque parte la guardi, trova sempre la sua inutilità, almeno per l’uomo del suo tempo. Può darsi che Paolo sia così disilluso della Legge, proprio perché le chiede di più di quanto essa possa dare; ma questa richiesta alla Legge non può essere invenzione di Paolo; deve essere un’opinio communis abbastanza diffusa. Per esempio, in Gal 3,21 Paolo dice che per credere a una giustificazione dalla Legge, bisognerebbe che Dio avesse dato agli uomini una Legge che dà la vita.

Un modo di ragionare di questo genere svela un discreto lembo dell’animo di Saulo, che aspirava alla Vita e che sentiva che fra lui e la Vita c’era sempre la barriera rappresentata dal peccato, a lui presentato proprio dalla Legge con ogni evidenza. Dunque, si nota in fondo all’anima di Paolo un anelito in direzione di una libertà dalle cose, che difficilmente è nato con la conversione.

Si legge nella Lettera ai Galati 4,1 ss.: l’uomo senza Cristo è schiavo degli elementi del cosmo e degli astri; la fede in Cristo ha liberato Paolo ed ora si sentirebbe forse più grande dell’umano, se Dio non gli avesse dato, per non farlo salire in superbia, un angelo di Satana che lo schiaffeggiasse. «Nessun uomo è giusto davanti a te» (Sal 143,2) aveva cantato un salmista e la saggezza ebraica aveva riecheggiato questo tema; e se nessuno è giusto, che senso ha attendere la salvezza dalla propria giustizia? Si veda Gal 2,15 ss. dove è detto: «Noi, giudei di nascita… sapendo che non è giustificato nessuno per le opere della Legge…».

Sembra che san Paolo sottolinei il nesso che c’è fra l’essere ebreo e il sapere che nessuno è giusto. In questa luce, lo stesso senso del Patto ancorato alle clausole della Torah si sfalda, perché l’uomo tradisce inesorabilmente il patto. Quando fu data la Legge ci fu un mediatore, anzi fu consegnata al mediatore stesso attraverso mani angeliche: la funzione della Legge è quindi puramente contingente, storica, come diciamo noi? Solo la promessa ha valore universale, perché soltanto nella promessa Dio agisce solo, senza collaborazione umana, destinata di per sé a produrre il fallimento.

Idee di questo genere, come la Legge data da Dio agli uomini per mezzo di angeli, mostrano di non derivare dalla fede cristiana, ma da un ambiente colto, le cui idee assorbite da Paolo sono state da questo svolte in funzione cristiana. E chiunque, fariseo o no, sapesse che la Legge era stata data a Mosè attraverso mani angeliche non poteva non sentire una certa umanità della Legge.

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