Il “grazie” è un delicato lubrificante di ogni rapporto umano, ma sta sparendo
di Nicola Sajeva
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IN UN CONTESTO SOCIALE DOVE BAMBINI, RAGAZZI, GIOVANI DIVENTANO SOGGETTI A CUI TUTTO È DOVUTO, L’USO DEL “GRAZIE” DIVENTA ESPRESSIONE DA DEMONIZZARE
Grazie è una parola piccola, semplice, dolce, comprensibile, calda che, sin da bambini, ci hanno insegnato ad usare. Un’espressione importante, necessaria per aprire ogni rapporto ad un solido futuro. Un passaggio obbligato per esprimere con delicatezza e sovrabbondanza un sentimento di riconoscenza. Una goccia di miele per stemperare o annullare possibili incomprensioni dialettiche.
Il grazie è un abbraccio, tra chi dà e chi riceve, che non conosce dipendenza, dispone il cuore alla bontà, lascia aperte tutte le strade, esprime stupendamente il valore della gratuità vista come intenso profumo della solidarietà umana. Molto spesso, purtroppo, gli uomini perdono le ali e trafficano, con lurido pragmatismo, questo frammento di ricchezza spirituale.
C’è un grazie espresso nell’intimità di un rapporto familiare o amicale e c’è un grazie che cerca strategiche posizioni di visibilità. Mentre il primo alimenta pace esistenziale, il secondo favorisce interessi, mette in moto ricadute compensative, degrada ogni rapporto interpersonale. Quest’ultimo grazie sembra andare per la maggiore, perde la dimensione di cortesia, gentilezza, buona maniera e veste i panni della moneta di scambio e di un favoritismo offensivo dell’intrinseca dignità della persona umana.
Quando la nobile arte della politica tradisce il suo dettato istituzionale non disdegna di fare scempio di questa piccola semplice dolce calda parolina che i nostri educatori, comprendendone tutta l’energia formativa, responsabilmente hanno cercato di seminare nel nostro cuore.
In un contesto sociale dove bambini, ragazzi, giovani diventano soggetti a cui tutto è dovuto, l’uso di questa piccola semplice dolce calda parolina diventa espressione da demonizzare perché va ad intaccare quel personaggio di autosufficienza, quel ruolo di bullismo che, purtroppo, con la nostra rinunciataria connivenza, sono portati ad interpretare.
La pretesa non può incontrarsi con la gratitudine: viaggiano su binari diversi. La pretesa isola, rende inconcepibile sia l’idea del dono sia la predisposizione a formulare un grazie.
Grazie! Questo delicato lubrificante di ogni rapporto umano conosce altre sfaccettature che, all’interno di una riflessione, anche ristretta, chiedono di essere messe in evidenza. Sfaccettature che rappresentano la molla determinante che mi ha spinto a proporre questo tema.
Grazie! Quando un nostro gesto non si pone alla sua ricerca, trova soglie di comprensione ineffabili, stupende, esaltanti: non conosce nessuna ribalta, ma trova una linea di compensazione situata in alto, molto in alto: per i credenti è convenzionalmente definita Paradiso, per i non credenti è la piena convinzione di aver operato secondo coscienza.
Per realizzare quanto detto bisogna vincere la tentazione di andare alla ricerca di un pubblico riconoscimento della propria bontà e lavorare per far lievitare un Bene senza firma e senza etichetta, ma che getta le fondamenta del Regno di Dio o, se volete, diventa propedeutico di una società migliore.
In tutti i settori della vita pubblica, non esclusa la Chiesa, ogni evento importante o di poco conto è attraversato da un’overdose di ringraziamenti: si propiziano favori o si compensano servizi e disponibilità, si danno zuccherini da consumare subito o si fanno intravedere future gratificazioni.
“Han ricevuto già la loro ricompensa” (Mt 6,2). Le parole di Gesù condannano l’ostentazione nel fare il bene, considerano chiuso su questa terra ogni conto, fanno crollare, per il credente, le prospettive di futura eterna consolazione.
Non per ricevere un grazie i missionari raggiungono tutti i confini della terra; non per ricevere un grazie Madre Teresa, lungo le vie di Calcutta, si inginocchiava per sollevare materialmente e spiritualmente i moribondi; non per ricevere un grazie ognuno di noi deve dimostrare tutta intera la sua capacità di amare nella piena maturità.