Gli islamici del “Macina Liberation Front” dietro il sequestro dei tre italiani in Mali

Gli islamici del “Macina Liberation Front” dietro il sequestro dei tre italiani in Mali

di Angelica La Rosa

LE VIOLENZE ISLAMICHE (E I RAPIMENTI) IN MALI SONO A SCAPITO SOPRATTUTTO DEI CIVILI, ED HANNO CAUSATO MIGLIAIA DI VITTIME E SFOLLATI

Ci sarebbe la “Katiba Macina”, chiamata dai media Macina Liberation Front (FLM) dietro il sequestro dei tre italiani, una coppia di anziani e e il loro figlio di circa 50 anni, missionari dei testimoni di Geova, avvenuto nei giorni scorsi in Mali.

Il sequestro, da parte di uomini armati, è avvenuto nel distretto di Koutiala nel sud-est del Paese. Dal 2015 le violenze e i rapimenti a scapito soprattutto dei civili, hanno causato migliaia di vittime e sfollati.

La FLM è un’unità di combattimento jihadista salafita apparsa nel gennaio 2015 durante la guerra in Mali. Affiliata a Ansar Dine e al Support Group for Islam and Muslims, il gruppo opera nelle regioni di Mopti e di Ségou. Il loro obiettivo è quello di istituire uno Stato islamico in Mali governato dalla Sharia.

Il termine “Macina” si riferisce all’intera area allagata del delta interno del Niger, ovvero l’area compresa tra i circoli di Mopti, Ténenkou e Youwarou. Il termine si riferisce anche all’impero Fulani di Macina, fondato nel XIX secolo dal marabutto Sékou Amadou.

Il gruppo sarebbe composto principalmente da ex combattenti Fulani del Mujao. Il fondatore del gruppo è Amadou Koufa. Oltre a Koufa, il capo militare è Mahmoud Barry, noto come Abou Yehiya (che è stato arrestato dalle forze di sicurezza maliana il 26 luglio 2016 tra Nampala e Dogofry. Un altro capo del gruppo era Bekaye Sangaré, ucciso dalla Guardia nazionale maliana a Mougna, vicino a Djenné, il14 luglio 2017.

Katiba Macina che conta su circa 200 uomini addestrati al terrorismo, principalmente Fulani, conta su un numero molto più grande di fedeli, informatori e persone che prestano supporto logistico. Quasi tutti i borghi Fulani di Macina, infatti, tenderebbero ad aiutare la formazione terroristica.

La maggior parte dei membri della Katiba Macina sono Fulani maliani, ma il gruppo comprende anche combattenti di altri gruppi etnici e di altre nazionalità. La Katiba Macina opera in maniera decentralizzata pur avendo una catena di comando ben organizzata. A parte il suo nucleo nel delta interno, il gruppo comprende molte unità, ciascuna denominata markaz (“centro”, in arabo) e operanti sullo stesso modello: un capo, l’amirou markaz, coadiuvato da un comandante militare, uno shura (consigliere), e un qadi (“giudice”, in arabo). Ogni amiru markaz normalmente siede nel principale Majlis al-choura (consiglio consultivo) del movimento, che è guidato da Koufa e comprende altri predicatori islamici.

Ogni markaz esercita la sua autorità sul suo territorio, spesso in collaborazione con notabili locali, pur seguendo gli ordini della direzione della katiba Macina, anche nei markaz fuori del delta interno che sembrano godere di una maggiore autonomia rispetto agli altri.

I jihadisti si muovono in piccoli gruppi e allestiscono campi mobili nelle foreste. Questi yimbé laddé (“uomini della boscaglia”, come li chiama la popolazione locale), possono contare sui loro simpatizzanti nei villaggi per ottenere supporto materiale e logistico, oltre che informazioni. In questi campi si trovano anche alcune donne sposate con combattenti: servono come cuoche o lavandaie, ma non combattono mai.

I jihadisti si spostano in due in moto nelle fiere per provvedere ai rifornimenti. A volte compaiono in numero maggiore nei villaggi, soprattutto di notte, per ricordare la loro presenza e talvolta predicano il venerdì nelle moschee. I combattenti non sembrano ricevere uno stipendio fisso e sono pagati per ogni missione.

Con il sostegno di Ansar Dine, il gruppo è responsabile dell’estensione dell’insurrezione jihadista nel sud del Mali. La prima azione nota del gruppo è stata l’attacco a Nampala del 5 gennaio 2015, poi quello di Ténenkou il 16 gennaio dello stesso anno. Il gruppo sta portando avanti una strategia di omicidi mirati e sequestri di rappresentanti dello stato maliano, come membri delle forze di difesa e sicurezza, agenti idrici e forestali, consiglieri comunali, magistrati e insegnanti, nonché notabili o informatori. Impone anche la chiusura delle scuole pubbliche: così, tra il 2015 e la fine del 2018, le minacce hanno causato la chiusura di 464 scuole nella regione di Mopti e di 14 scuole nella regione di Ségou, che rappresentavano il 65% delle scuole chiuse nel Paese.

Secondo un rapporto dell’Associazione maliana per i diritti umani e la Federazione Internazionale dei Diritti Umani (FIDH), “beneficiando di una vasta rete di sostegno e senza occupare militarmente città e villaggi, il gruppo impone comunque la sua legge e di fatto si sostituisce alle autorità. Attaccano anche i civili e le popolazioni a cui concedono la loro ‘protezione’. Inoltre ‘dispensano’ la giustizia applicando la legge islamica della sharia, dirimono le controversie in materia fondiaria, sociale e penale, gestiscono l’accesso alle risorse, in particolare i pascoli, e riscuotono le tasse islamiche, la zakat. Insomma impongono uno stile di vita religioso radicale (preghiere obbligatorie) particolarmente nei confronti delle donne (vestiti, comportamenti, obblighi, ecc.). Decine di villaggi ora vivono sotto il loro giogo. Tutti coloro che vi si oppongono hanno una sola scelta: ‘partire o morire'”.

I jihadisti emanano “un certo numero di regole, che differiscono da un luogo all’altro, e che vengono applicate con vari gradi di rigore: le donne non possono più lasciare il villaggio senza essere accompagnate da un uomo; non possono più fare il bagno nel fiume; sono vietate manifestazioni di battesimi o matrimoni; la musica è vietata, ecc.”.

Si è visto che quando l’esercito maliano pattuglia i villaggi, i terroristi arrivano nei giorni successivi negli stessi villaggi e catturano coloro che sono stati visti parlare con i soldati. Alcuni di essi vengono solo interrogati e poi rilasciati. Ma diversi sono stati uccisi. Si segnalano anche diversi casi di stupro commessi da jihadisti della Katiba Macina.

Tuttavia, lungi dall’immagine di un gruppo armato omogeneo, la disparità nei background e nelle motivazioni dei ‘terroristi’ rimanda a una realtà molto complessa: si tratta soprattutto di una società in rivolta che vuole rovesciare un ordine consolidato e predatorio, catalizzato da un carismatico predicatore della regione.

Certo, la radicalizzazione personale e le alleanze di Amadou Koufa ne fanno un gruppo di jihadisti ma i suoi discorsi religiosi non possono cancellare del tutto le dimensioni comunitarie del conflitto sociale e sociale nel Paese africano all’insegna di un certo “egualitarismo inclusivo”.

Se è vero che Amadou Koufa accusa lo Stato “non credente” di voler distruggere l’Islam e i suoi rappresentanti, e respinge il suo personale politico e amministrativo che ne organizza il funzionamento, in particolare l’Assemblea Nazionale, in nome dell’uguaglianza sociale, e per rifiuto dell’ordine costituito, Amadou Koufa diffama i ricchi, le famiglie marabutte arricchite dall’elemosina dei talibé, e glorifica i poveri e gli umili. Unendosi al desiderio di rivolta sociale, Koufa ha però messo in campo anche attacchi virulenti contro “l’Islam di fratellanza” e i suoi rappresentanti religiosi, i marabutti (e le loro pratiche di maraboutage), denunciando anche la mercificazione delle benedizioni.

Insomma il Macina Liberation Front è un gruppo islamico particolarmente problematico da analizzare.

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