Quei cittadini sudditi e quei leader di partito giullari di corte
di Dalila di Dio
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MAI COME NEGLI ULTIMI QUATTRO ANNI LA SALVAGUARDIA DELLA POLTRONA È STATA LA DIRETTRICE LUNGO CUI I PARTITI HANNO CONDOTTO LA LORO ATTIVITÀ POLITICA
«Normalmente, in democrazia, è il Parlamento che tiene in piedi il Governo. In questo caso abbiamo il Governo che tiene in piedi il Parlamento, il che è una anomalia».
Con queste parole, un paio di giorni fa, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha fotografato il nuovo assetto istituzionale, figlio di questa sciagurata XVIII legislatura: mai come negli ultimi quattro anni la salvaguardia della poltrona è stata la direttrice lungo cui i partiti hanno condotto la loro attività politica.
Succede quando il 33% dei seggi in Parlamento viene assegnato a una accolita di personaggi in cerca d’autore – e di emolumenti, profumati emolumenti – che una volta raggiunto l’agognato scranno si sono rivelati – come era prevedibile – disposti a tutto pur di non perdere i privilegi acquisiti.
Succede quando il PD, il partito che deve governare anche quando perde le elezioni, riesce rocambolescamente a risaltare in sella al potere, complice il momento di obnubilamento agostano di Matteo Salvini, e a riconquistare, del tutto inaspettatamente, il governo del Paese.
E se con il Conte 2 i partiti di Governo avevano dato prova del trasformismo più sfrenato – via i veti, le condizioni non trattabili, i “mai con…” – è con il Governo Draghi, la grande accozzaglia per non soccombere, che il percorso verso il meretricio più spinto è giunto a compimento: totalmente impotenti e incapaci di incidere nell’azione di governo, i partiti, tutti i partiti, hanno deciso che l’obiettivo fosse semplicemente resistere fino a marzo 2023 senza perdere troppi pezzi.
Lo si è visto durante il primo anno del “Governo dei migliori”, culminato nella oscena operetta dell’elezione del Presidente della Repubblica, e lo si può apprezzare in questa ultima fase della legislatura, tra guerra, fine – o presunta tale – dello stato di emergenza e adorazione incondizionata del feticcio PNRR.
Mentre Mario “questa è casa mia e qui comando io” Draghi propone, dispone e scompone, i leader politici, ormai tagliati fuori da ogni decisione, sono tutti protesi a dare ai rispettivi elettorati l’impressione di contare qualcosa.
E tra i “non scherziamo” di Matteo Salvini e i diktat di Enrico Letta, a cui non crede manco lui, è Giuseppe Conte a svettare: l’eroe dei due governi di opposti colori trova periodicamente il modo di rubare la scena ai competitors, riproponendo, a scadenze più o meno regolari, il quesito “vuoi più bene a Giuseppe Conte o a Conte Giuseppe?”.
Ogni volta una vittoria, un trionfo, un plebiscito.
Tra Giuseppi e Giuseppi, la giuria votante sceglie sempre, ineluttabilmente, Giuseppi!
Quando uno è vincente, è vincente.
E, stranamente, è una vittoria di tutti anche qualsivoglia decisione assunta unilateralmente dal Presidente del Consiglio dei Ministri: da un anno a questa parte, infatti, la gara tra i partiti di Governo è ad intestarsi per primi la paternità delle decisioni di Draghi.
“Draghi cede al Movimento 5 Stelle…”, “Il PD aveva posto quale condizione imprescindibile…”, “Su suggerimento della Lega…”: frasi come queste campeggiano sulle prime pagine dei quotidiani di riferimento di ciascun partito, per convincere gli elettori che il Parlamento, i partiti, il loro voto, contino ancora qualcosa.
A dispetto di un Governo che gestisce la cosa pubblica con totale indifferenza rispetto al sentire e alla volontà popolare.
Sudditi i cittadini, giullari di corte i leader di partito.
Si parte con un mai, si prosegue con “per garantire stabilità al Paese” e si finisce con “sì, padrone”.
Come per la storia delle armi: in principio quello del Movimento 5 stelle era un no da far tremare il Governo. Poi è diventato un sì, ma entro il 2030. Infine, Draghi annuncia un sì, entro il 2028: “proprio come aveva chiesto Giuseppe Conte”.
Cani che abbaiano ma non mordono.
Perché basta un caffè al Quirinale tra Draghi e Mattarella per rimettere tutti a cuccia, ‘che ci sono ancora undici stipendi da mettere in banca.
La chiamano Repubblica parlamentare, bellezza!
Foto: Visione Tv