Ascoltiamo anche le urla del silenzio della Corea del Nord
di Pietro Licciardi
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CHI AMA DAVVERO LA PACE E LA GIUSTIZIA NON SI MOBILITA A COMANDO O QUANDO A CHIEDERLO SONO LA TV E I GIORNALI
Da quando viviamo condizionati dai mezzi di informazione, tv e giornali in primis, la nostra indignazione scatta a comando, per indirizzarsi là dove vogliono i media o chi li dirige e per il tempo che questi decidono di occuparsi di certe situazioni e avvenimenti. Lo stiamo costatando in maniera esemplare proprio in occasione della guerra russo-ucraina, che sta catalizzando l’opinione pubblica internazionale. Guerra iniziata già da otto anni nelle regioni del Donbass e di Luhansk ma di cui i media si sono occupati senza particolare enfasi, come se fosse uno dei tanti conflitti regionali in qualche periferia del mondo. Adesso invece che l’Ucraina è diventata una pedina importante sulla scacchiera americana in funzione anti-russa tutti i riflettori sono puntati sul conflitto. Non una parola, invece, sulla Siria, stretta come l’Ucraina attorno al suo presidente, Assad, per difendere la propria indipendenza e integrità territoriale dall’aggressione dei mercenari islamici, che però sono armati e finanziati dagli Stati Uniti e dagli alleati sauditi; quindi su quello che sta accadendo da undici anni in quella parte del Medio Oriente, zitti e mosca.
Altra tragedia silenziata dai media perché non ritenuta rilevante nel Risiko internazionale è quella che si sta consumando da più di mezzo secolo nella Corea del Nord, immenso campo di concentramento per 25 milioni di persone schiacciate e oppresse da un regime comunista peggiore di quello di Stalin e Mao. Gli unici momenti in cui si sente nominare la Corea sono quando il satrapo Kim Jong-un decide di giocare ai soldatini e il mondo finge di preoccuparsi, ben sapendo che si tratta di minacce a vuoto di un regime militarmente inconsistente, che ancora resta in piedi solo perché nessuno saprebbe che farsene di una Corea finalmente libera.
La liberazione sarebbe infatti un fardello troppo pesante da accollarsi per la Corea del Sud, i cui 51 milioni di abitanti dovrebbero ricostruire da cima a fondo e sfamare per anni l’intero Nord. Della questione non vogliono occuparsi neppure l’unico alleato, la Cina, e men che meno gli Stati Uniti, che preferiscono mantenere una salda presenza militare nella Corea del Sud col pretesto di una guerra ancora formalmente non conclusa – dopo la guerra che ha devastato le due Coree dal 1950 al 1953 è stato stipulato solo un armistizio e mai una pace definitiva – anziché rimettere in gioco gli equilibri dell’intera area.
Ad una riunificazione della Corea probabilmente non è interessato neppure il Giappone, per il quale il regime del Nord non rappresenta certo una minaccia, a dispetto dei rudimentali missili che ogni tanto gli piovono vicino, poiché in prospettiva teme molto di più la concorrenza delle aziende sud-coreane che si rilancerebbero alla grande con la manodopera a basso costo di una ex Nord Corea.
I nordcoreani quindi sono costretti a vegetare nel limbo comunista, sottoposti ad una ferrea disciplina che punisce col lager qualsiasi minima violazione. Secondo i racconti dei pochi occidentali che riescono a visitare il paese, ossessivamente guardati a vista dai funzionari del partito, sembra che anche al Nord sia sorta una specie di borghesia, concentrata nella capitale Pyongyang, la quale però non si sogna neppure per il momento di rivendicare una qualche apertura da parte del regime. Il resto della popolazione, ovvero la stragrande maggioranza, è costituito da contadini costretti a lavorare la terra in fattorie collettive con attrezzi e tecniche antidiluviane; da qui la carestia endemica e la malnutrizione che affligge il Paese, le cui scarse risorse sono impiegare per mantenere il tenore di vita regale del “presidente a vita” della dinastia Kim, i privilegi della nomenklatura comunista e un esercito sproporzionato quanto inefficiente, sia perché armato con mezzi superati, sia perché privo di quella capacità logistica necessaria per affrontare un qualsiasi conflitto, per quanto breve.
Unica speranza per i Nord Coreani è la fuga, che in molti tentano. I più cercano di scappare in Cina, dove sperano di trovare almeno quel po’ di cibo e medicine che alimenta un mercato nero indispensabile alla sopravvivenza, data l’assoluta scarsità di beni. Il più delle volte però i fuggiaschi sono presi, arrestati dalla polizia di Pechino e rispediti al mittente dove li aspetta immediatamente l’accusa di diserzione e il lager. I pochi che dopo inenarrabili peripezie attraverso la Cina, la Thailandia e Vietnam riescono a raggiungere la Corea del Sud devono affrontare un periodo di “rieducazione” in quanto provenienti da un paese in cui la paura, l’oppressione, l’obbedienza incondizionata al regime li hanno trasformati in disadattati incapaci di vivere in libertà. Quando poi superato il trauma iniziano a raccontare la loro esperienza ciò che descrivono, specialmente se hanno fatto l’esperienza delle prigioni nordcoreane, è terribile.
Nei lager la tortura è una pratica quotidiana e ogni minima infrazione costa violenze e ulteriori privazioni di cibo e sonno e i prigionieri sono trattati come animali, anzi peggio. Nella prigione di Onsong i detenuti stanno seduti a gambe incrociate, mani sulle ginocchia, immobili e a testa bassa, per 12 ore ogni giorno ascoltando le urla di chi è pestato a sangue. Le celle sono topaie infestata dai pidocchi e dal fetore delle tazze aperte dei gabinetti, divise in spazi minuscoli nei quali si è costretti a entrare strisciando o a carponi da una porticina alta un metro, per poi stiparsi in file per tre.
Gli stupri di donne sono all’ordine del giorno e se una di queste povere sventurate resta incinta viene fatta abortire. Nel centro di detenzione di North Hamgyong, una donna ha descritto l’aborto praticato a una detenuta incinta di otto mesi: nato vivo, il suo bambino è stato annegato in un catino colmo d’acqua. I vagiti dei neonati ammazzati tormentano per anni i sopravvissuti.
Nel lager di Kaechon, 40 chilometri a nord della capitale Pyongyang, i prigionieri vivono perché le guardie concedono loro di vivere. Ma per farlo occorre mangiare e per ricevere una misera razione di cibo bisogna lavorare. Lavorare giorno e notte, altrimenti gli altri prigionieri criticano, le guardie picchiano e non danno da mangiare. In alcuni centri di detenzione la famiglia non viene abolita ma è svuotata del suo significato: il sesso è ridotto ad accoppiamento, la generazione a riproduzione, l’educazione ad allevamento. Il rapporto tra genitori e figli semplicemente non esiste. A due detenuti modello può capitare di essere rinchiusi, per premio, in una cella assieme per fare sesso e se nasce un figlio è bene che stiano in guardia perché una volta cresciuto potrebbe denunciare gli stessi genitori e farli giustiziare.
Ma i sopravvissuti lamentano un’altra piaga che affligge tutti i nordcoreani e in special modo quelli nei campi di detenzione e lavoro: la fame.
Una risorsa è la cattura dei ratti: cuocerli è consentito e mangiarli aiuta i detenuti a combattere la pellagra, una malattia dilagante soprattutto nei periodi invernali. L’assenza di proteine e niacina nelle diete provoca debolezza, lesioni cutanee, diarrea e demenza. Un’altra fonte di sussistenza nei campi è rappresentata da locuste, libellule, cavallette che vengono infilzate in steli e poi arrostite sul fuoco. In inverno tutto si complica e gli ospiti dei campi più anziani hanno imparato una tecnica, quella delle mucche, che rigurgitano il pasto per poi mangiarlo nuovamente.
Martiri, in un popolo già martirizzato dal comunismo, i cristiani. Secondo un’indagine della Commissione sulla libertà religiosa internazionale del dipartimento di Stato americano, nel 2019 si trovavano nei lager tra i 50 mila e i 70 mila cristiani, perseguitati come in ogni regime comunista ma particolarmente in Nord Corea, dove ogni culto diverso da quello alla dinastia Kim è considerato un crimine politico.
Eppure incredibilmente le comunità cristiane crescono e secondo quanto dichiarato a DailyNk da una disertrice – scappata, rimpatriata, rinchiusa in un lager e poi scappata di nuovo – anche nei campi di lavoro aumentano le attività missionarie e gli incontri di preghiera: «sono rimasta profondamente commossa dalle preghiere che pronunciavamo insieme in silenzio, alle cinque del mattino mentre eravamo in coda ai bagni». Cinque compagne di prigionia incontrate nei bagni del lager l’hanno seguita sul cammino cristiano.
Signore perdonaci, perdona questa umanità che permette tanta crudeltà, accetta la nostra preghiera per queste persone così martirizzate.