Davanti al relativismo riscopriamo l’arché, cioè il principio o l’origine di tutte le cose
di Sara Deodati
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NELL’ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI ARISTOTELE (7 MARZO 322 A.C.) RIPROPONIAMO IL CONCETTO METAFISICO DI “ESSERE” CHE RISALE AGLI ALBORI DELLA RIFLESSIONE FILOSOFICA DELL’ANTICA GRECIA
La nozione metafisica di essere è il risultato di un lungo processo di riflessione e risale ai primordi della filosofia. Fu proposta da quei pensatori presocratici che erano alla ricerca dei diversi principi fondamentali dai quali trae origine la realtà. Tali principi si muovevano esclusivamente nell’ambito delle causalità materiali, senza andare quindi al di là della filosofia della natura.
Le indagini dei primi filosofi, in quanto non propriamente metafisiche, cercavano pertanto di trovare l’arché, cioè il principio o l’origine di tutte le cose, indeterminate sostanze non generate e indistruttibili che permangono eternamente uguali. Taluni lo identificavano nell’acqua (Talete), altri nell’indeterminato (Anassimandro), nell’aria (Anassimene), nel fuoco (Eraclito) o, infine, nei quattro elementi, cioè terra, acqua, aria e fuoco, che furono individuati da Empedocle (484/1-424/1 a.C.) sviluppando il pensiero di altri filosofi prima di lui. Per il filosofo e taumaturgo di Agrigento, il principio di tutte le cose non è più unico, bensì molteplice. Ciò che accomuna tutti i pensatori prima citati è comunque la ricerca del principio unificante di tutta la realtà, dal quale deriverebbe quindi l’essere. Facendo ciò, essi hanno diretto uno sguardo al di sotto delle apparenze sensibili, alla ricerca di una origine dalla quale, in fondo, sono costituite tutte le cose.
I filosofi presocratici, come dice Aristotele, si sforzano in definitiva di individuare «ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo».
L’inizio della metafisica, come riflessione che approfondisce i risultati della filosofia della natura, si ha con Parmenide (515/510-450 a.C.), un pensatore che ha influenzato l’intera storia filosofica occidentale. Il problema dell’essere, di fatto, nasce con lui perché, contrariamente ai suoi predecessori, per primo si pose il problema della realtà come puro e semplice essere, senza determinazioni accidentali. L’essere, quindi, per Parmenide, è ciò che è, e solo l’essere è. Il concetto parmenideo di essere è pertanto univoco e unitario: l’essere è uno. Però è solo la ragione a cogliere questo concetto, giacché i sensi presentano l’essere piuttosto come molteplicità (visione presocratica). Per la ragione, invece, la molteplicità è apparente, dettata cioè da elementi come mutamento e tempo che non alterano la sostanza delle cose. Per questo, oltre che uno, l’essere è anche immutabile, eterno e necessario (nel senso che l’essere non può non essere).
In polemica con Parmenide, Aristotele (384/383-322 a.C.) definisce “filosofia prima” (quella che poi verrà chiamata metafisica) la scienza dell’essere in quanto essere, quella ricerca quindi di ciò che è “primo”. Per lo Stagirita, dunque, la metafisica è scienza dell’intero essere, che non elimina però il principio dell’irriducibile molteplicità dei sensi dell’essere.
Dalla “problematicità” del reale Aristotele trae la fondamentale conseguenza che l’essere ha molti sensi, cioè è costituito da una molteplicità che non è riducibile ad un genere unico. Ogni forma di molteplicità, per essere intelligibile, cioè per poter essere presentata in maniera sensata, deve possedere una certa unità. Infatti, sostiene Aristotele, una parola che non possiede una sua unità, non significa niente, e se le parole non significano niente, nessun discorso è possibile, né dal punto di vista della verità né in rapporto a sé stesso. Se non si pensa un’unità, in definitiva, non si pensa niente.
D’altra parte, una molteplicità che sia fornita di quella particolare unità che è l’unità del genere, cioè una molteplicità costituita da cose che sono dette tutte nello stesso senso, o che sono, in linguaggio aristotelico, sinonime, può essere ricondotta, al contrario, ad una causa comune, che è costituita dal genere stesso, e che, per ciò stesso, è immanente a ciascuna delle molte cose di cui si cerca la causa.
La causa comune a tutte le categorie è costituita proprio dalla sostanza (ousia in greco) che conferisce unità a tutte le altre; essa è infatti principio delle categorie. La sostanza, a sua volta, ha bisogno di essere ricondotta ad una certa unità, che non potrà essere costituita che da una sostanza immune da ogni molteplicità, da una sostanza non sensibile e che non appartenga, quindi, al genere delle altre sostanze, cioè alla molteplicità che esse costituiscono.
Secondo diversi specialisti del pensiero di Aristotele, egli avrebbe risolto il problema dell’unità della sostanza, e quindi il problema dell’unità dell’essere, ritrovando il punto di riferimento unitario nella sostanza immobile, cioè nell’atto puro, Dio. Ora, è certo che Dio costituisce l’unità suprema alla quale il sistema aristotelico riconduce l’intero essere, il principio capace di rendere intelligibile tutta la realtà, ma il rapporto stabilito da Aristotele tra Dio e le altre sostanze è diverso da quello da lui elaborato tra la sostanza sensibile e le altre categorie. Infatti, mentre la sostanza sensibile fa parte della molteplicità dei sensi dell’essere, e contribuisce, con le altre categorie, a determinare una situazione di “problematicità”, Dio non fa parte della molteplicità che rende problematiche le sostanze, ma è un principio che trascende completamente qualsiasi molteplicità e, di conseguenza, offre un’unità veramente definitiva.
In breve, mentre la sostanza è uno dei numerosi sensi dell’essere che possono essere rilevati in un discorso, cioè inclusi nell’esperienza, Dio non è uno dei sensi della sostanza inclusi nell’esperienza. In effetti, la molteplicità ci è data sempre nell’esperienza e non nel confronto tra l’esperienza e ciò che la trascende. Al contrario, Dio è una unità assoluta proprio in quanto trascende l’esperienza.