In Italia non c’è stata chiarezza sulla valutazione della mortalità da Covid-19
di Raffaele Cerbini
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DALLA PIU’ RECENTE LETTERATURA SCIENTIFICA LA CONFERMA DI UNA GESTIONE INADEGUATA DELLA PANDEMIA E DI GRAVI RISCHI ALLA SALUTE DERIVANTI DA UNA VACCINAZIONE A TAPPETO
Già nel dicembre 2020 i dati sanitari ci mostravano in maniera direi inequivocabile come la mortalità da Covid fosse molto alta negli anziani e fosse quasi trascurabile al di sotto dei 50 anni, tanto è vero che al tempo le più importanti autorità regolatorie correttamente dicevano che vaccinando esclusivamente i soggetti al di sopra dei 50 anni si potevano prevenire il 99% dei decessi.
Nei mesi successivi numerose pubblicazioni hanno valutato la mortalità – in particolare quelle provenienti dalla Università statunitense di Stanford – ma le autorità sanitarie anziché seguire tali autorevoli indicazioni si sono orientate a vaccinare il maggior numero possibile di persone tenendo come assurdo obiettivo il raggiungimento della immunità di gregge, cosa ovviamente impossibile per un virus a RNA come il SARS-CoV-2.
La settimana scorsa, The Lancet finalmente ha indicato l’Infection Fatality Rate(IFR) come fondamentale per la percezione dei rischi, per le politiche sanitarie, per il controllo della epidemia e per la reale stima della gravità della COVID-19. In ultima analisi, anche per preparare la popolazione a convivere con tale virus. Non dimentichiamo che da oltre cento anni conviviamo con centinaia di varianti del virus influenzale tra le quali avremo anche quelle da SARS-CoV-2.
L’articolo, si è soffermato sulle morti per COVID-19 in rapporto alla popolazione a rischio e sulle morti per COVID-19 rapportate ai casi accertati di malattia COVID-19, considerando che le stime di mortalità tramite IFR tengono conto non solo di coloro che mostrano sintomi, ma anche di coloro che, una volta contratta l’infezione virale, rimangono completamente asintomatici. La straordinaria importanza di questo parametro si riflette sul fatto che il denominatore di questo rapporto è estremamente più elevato di quelli calcolati in passato.
L’importanza di questo articolo deriva dal fatto che si tratta della più completa revisione della letteratura avvenuta prima di qualsiasi vaccinazione e pertanto i dati di mortalità sono assolutamente puri per la malattia conclamata, senza fattori confondenti derivanti dai vaccini stessi e dalle varianti scoperte successivamente.
Ed allora vediamo con chiarezza che le curve di IFR vengono definite a forma di J, con un minimo all’età di 7 anni (0,0023 %) per poi crescere esponenzialmente all’età di 30 anni (0,0573%), 60 anni (1,0035%) e 90 anni (20,3292%). Si tratta di valori straordinariamente simili a quelli già anticipati nel 2020 e dai quali si poteva immaginare che gli interventi vaccinali sarebbero stati utili al di sopra dei 50 anni.
Vediamo adesso l’importanza di questi dati dal punto di vista pratico.
Dal 2021 è iniziata la vaccinazione di massa ma sugli eventi avversi dei vaccini non c’è mai stata trasparenza, soprattutto in Italia. Le valutazioni beneficio/rischio sono sempre avvenute su dati nebulosi e difficilmente interpretabili ed in particolare l’Agenzia italiana per il farmaco (Aifa)nell’ultimo rapporto di vaccinovigilanza, ha oggettivamente fornito dati incompleti e praticamente inutili a capire la reale estensione del problema. Dati invece disponibili sul sito adrreports della unione europea, che sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli americani.
Anche l’Istituto Superiore di Sanità nel suo ultimo report del 22 Febbraio ha fornito i dati di rischio di morte per COVID-19 da inizio pandemia con una rappresentazione gravemente ingannevole.
Dobbiamo anche dare per assodato che, come riportato in numerosissime pubblicazioni – ultima in ordine di tempo, quella nel New England Journal of Medicine dello scorso 23 Febbraio – la variante omicron sia di gran lunga meno letale delle precedenti varianti e quindi i numeri dei decessi non possono essere attribuiti a tale variante ma alle fragilità intrinseche dei singoli individui. Per questo già dall’Ottobre 2021 sempre The Lancet metteva in guardia sulla inutilità di somministrare una dose booster nei minori di 40 anni dal momento che il beneficio atteso rimaneva ben al di sotto della soglia di rischio.
Non finisce qui: proprio due giorni fa sempre il New England Journal of Medicine ha splendidamente rilevato come sia il ciclo primario vaccinale, sia il booster, hanno certamente la possibilità di essere efficaci nell’immediato nel proteggere contro una infezione da virus SARS-CoV-2, ma nel corso del tempo avviene un declino molto rapido di questa immunità la quale diventa non proteggente per la variante omicron (unica variante al momento in circolazione) entro 10 settimane proprio dalla somministrazione del booster. Ed allora la parola vaccino, che confonde, dovrebbe essere sostituita nel linguaggio corrente dalla definizione di “immunizzazione a breve termine”.
Per riassumere, i dati pubblicati di recente non fanno altro che confermare che la scelta migliore di politica sanitaria non è quella di perseguire la vaccinazione a tutti i costi, ma, per un virus ad RNA estremamente mutevole come il SARS-CoV-2 per il quale è impossibile raggiungere l’immunità di gregge, rimane quella di offrire una immunizzazione a breve termine con vaccini aggiornati per le varianti più recenti (ed adeguatamente testati in sperimentazioni cliniche), solo a coloro che sono a maggior rischio di sviluppare complicanze post-infezione, ovvero soggetti over 50 e con patologie concomitanti che li rendono “fragili”. La vaccinazione a tappeto non porta infatti benefici rilevanti a coloro che non sono a rischio, mentre determina un chiaro rischio di patologie legate alle reazioni avverse da vaccino nei più giovani. In altri termini, l’unico approccio valido per la COVID-19 può essere solamente quello già adottato per l’influenza.
Alla luce di quanto la letteratura scientifica sta rendendo noto sarebbe auspicabile, almeno in Italia, la costituzione di una commissione di inchiesta parlamentare per stabilire se l’assai discutibile e antiscientifica gestione della pandemia da parte del governo sia dipesa dalla totale incompetenza degli “esperti” investiti del ruolo di consulenti dell’Esecutivo, dal prevalere di interessi di tipo economico, o da entrambi questi fattori.