L’Idiota di Dostoevskij è sempre attuale
di Matteo Castagna
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LA GENERAZIONE CONTEMPORANEA CHE NON CREDE IN NULLA
Esistono dei grandi scrittori, intellettuali e pensatori che hanno lasciato alle generazioni future degli autentici tesori senza tempo. Parlo di ricchezze immortali perché prendono in considerazione pregi e difetti dell’umanità, fornendo risposte originali o, in alcuni casi, addirittura profetiche. E’ questione di capacità e dono di saper guardare oltre la punta del proprio naso per fornire un’ analisi precisa, condivisibile o meno, ma ricca di spunti di riflessione.
Nella mentalità contemporanea l’uomo si fa Dio e mette il Trascendente nel cassetto. Domenico Cavalca, nel suo Specchio di croce dice che “molto più conosce Iddio un santo idioto, che un savio peccatore“.
Vittorio Strada produce un saggio introduttivo al romanzo “L’Idiota” di Fedor Dostoevskij assai efficace e sempre attuale nell’antropologia di tutti i tempi. Il testo inizia con una famiglia di proprietari terrieri di Pietroburgo, andata in rovina, perché il padre ha dissipato tutte le sue sostanze all’estero e la madre ha sperperato tutto, gettandosi tra le braccia del fidanzato della figlia, “un ufficiale che dà soldi a prestito” e dello zio “usuraio che vive in solitudine”. Dei tre figli, la donna suona il piano, il Bello è il cocco della madre, menre il minore è detestato e soprannominato “l’idiota”. Uomo di smisurato orgoglio e violente passioni, questo “idiota”, è capace di grandi azioni e grandi abiezioni.
Questo personaggio, per il grande scrittore russo, rappresenta la forza, la passione della generazione contemporanea che non crede in nulla. Da un lato presenta uno smisurato idealismo e dall’altro uno sconfinato sensualismo. Dostoevskij vede nel socialismo il male dell’uomo perché conclude la presunta felicità dell’essere nell’effimero materialismo. Per lui, l’uomo non è sulla terra per questa limitante finitezza, ma per svilupparsi, da essere non compiuto, ma di transizione, totalmente privo di senso se non avrà una vita futura dopo la morte. La vita diviene, così il Vangelo di una catastrofica Passione e l’Apocalisse di una serena Tragedia.
Il protagonista del celebre romanzo, il principe Lev Myshkin, è l’incarnazione dell’uomo ideale. “L’idea di Dostoevskij era quella di rappresentare l’uomo perfetto, amato e benvoluto da tutti, capace di comprendere gli altri in un mondo fatto di persone malvagie e meschine”, si legge sull’autorevole portale online di letteratura “Polka”.
Dostoevskij voleva rappresentare Myshkin come “il principe Cristo” e il ritratto che ne deriva è davvero quello di un Cristo del XIX secolo: una figura carica di amore e perdono, lontano dai sentimenti di rabbia e odio.
Ma le persone che lo circondano iniziano a prenderlo per un imbecille, un idiota. Credenze alimentate anche dal fatto che egli soffre di alcuni problemi di salute.
In filigrana alle vicende di questi personaggi riusciamo così ad intravvedere i segni di una Russia che sta cambiando, simboleggiati dall’insoddisfazione di Aglaja e dalle letture pericolose fatte da lei e dalle sorelle, ma anche dalle numerose parentesi aperte continuamente nel romanzo dai vari personaggi secondari, in primo luogo Ippolit, simbolo di una gioventù che cerca un ordine nuovo denigrando a priori tutto l’esistente.
Dostoevskij chiude il romanzo insoddisfatto per la riuscita del suo progetto. Il suo idiota però verrà assorbito dalla cultura novecentesca diventando simbolo di un impossibile compromesso tra l’uomo e le pressioni della società.
Lettura limitata, in fondo, se è vero che il principe ha dei connotati innegabilmente cristologici, e la sua parola di compassione, intesa come assumere, volontariamente e responsabilmente, su di sé la sofferenza altrui, era – ed è ancora – una parola di rivoluzione, che tentava di dare una risposta ad un mondo che invece vive di violenza e sopraffazione reciproca. Una parola che andrebbe recuperata, e che potrebbe forse rivelarsi l’arma più vera di cui disponiamo.