Ripartire a primavera con i santi: pellegrini nel cuore dell’Umbria sulle orme di santa Chiara della Croce da Montefalco
di Simona Trecca
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STUFI DI PREGHIERE E PELLEGRINAGGI ONLINE PROPONIAMO UN’IDEA CULTURALE E RELIGIOSA PER LA PROSSIMA PRIMAVERA. IL 25 E 26 MAGGIO, INFATTI, ASSIEME ALL’ANTEPRIMA SAGRANTINO (PRESENTAZIONE DELL’ANNATA 2018 DI MONTEFALCO SAGRANTINO DOC), SARÀ POSSIBILE A MONTEFALCO (PERUGIA) PREGARE E CONOSCERE NEI LUOGHI IN CUI VISSE SANTA CHIARA DELLA CROCE, INSIGNE TESTIMONE DELL’UMBRIA CRISTIANA
Nella tradizione cattolica il nome di “santa Chiara” viene associato comunemente a Chiara d’Assisi, collaboratrice di san Francesco e fondatrice dell’Ordine delle Clarisse. Nell’agiografia cristiana è però annoverata una sua omonima e conterranea di pari grandezza e degna di devozione ed è santa Chiara della Croce da Montefalco, che nacque a Montefalco (Perugia) nel 1268 e qui morì nel 1308. Bambina entrò nel reclusorio dove la sorella Giovanna viveva con altre compagne in condizioni austere. A fine 1200 il reclusorio divenne monastero sotto la regola di S. Agostino ma la giovane vi rimase fino alla sua morte il 17 agosto 1308 ricoprendo il ruolo di superiora, dopo la morte della sorella.
Fu una donna di grande discernimento e doti spirituali, consigliera dei potenti del tempo. Concentrò la sua vita sulla meditazione della Passione di Cristo e sulla devozione alla Croce. Ad una consorella che le stava facendo il segno della croce sulla fronte, in punto di morte disse: «Perché mi segni, Giovanna, con il segno della croce? Io la croce ce l’ho nel cuore».
Per meglio conservarne il corpo, alla sua morte, le monache agostiniane le aprirono il cuore e vi trovarono impressi i segni della Passione di Cristo.
Ma di Chiara di Montefalco non è arrivato a noi solo il “mistero del suo cuore”. Si narra infatti che un giorno, un vecchio pellegrino, ospite di passaggio al monastero lasciò alla santa il suo bastone e che la stessa, non sapendo cosa farne perché secco e inutile, lo piantò nell’orticello del convento, oggi visitabile nell’attuale Monastero, circondato da fabbricati e mura e denominato “Il giardino di S. Chiara”. La leggenda vuole che da questo bastone prese vita un albero comunemente chiamato “albero dei paternostri” o “l’albero di S. Chiara”. Originario dell’Himalaya, è in realtà un Melia Azedarach che, in primavera, si riempie di fiori viola e profumati, da cui maturano a grappolo delle bacche. I semi di queste bacche, detti “acini”, sono utilizzati per confezionare da secoli corone del rosario. E venivano infilati in numero di 33 semi (gli anni di Cristo) in una corona, già dal Medioevo, per la recita del Padre Nostro ancora prima della devozione del Santo Rosario.
Nel 1640 uno dei maggiori biografi di Chiara di Montefalco, Battista Piergigli di Bevagna, narra così la storia misteriosa di questo albero: «Costumano ancore dare le monache alcuni granelli piccioli, che sono frutto d’un albero chiamato Sicomoro. Il qual’albero, come attesta la comune traditione, nacque d’un secco bastone d’un pellegrino, che dopo haver un giorno discorso alla lunga con la beata, nel partir che fece, lasciolle il suo bastone; e la Beata Chiara havendolo preso, incontinente lo piantò nell’orto, che miracolosamente germogliando, produsse, e produce fino ai giorni nostri simili granelli. Tengo, che questo Pellegrino fusse l’istesso Christo, che in tal forma si lasciasse veder’ alla B. Chiara».
Questa è la preghiera inserita nel sacchetto dei tre acini, da recitare dopo averli immersi per un giorno in un bicchiere di acqua:
“Sorella S. Chiara,
nella luce di Dio
conosci i miei bisogni
e i miei desideri.
Poiché la vita dell’anima
È l’amore di Dio
ottienimi di volere
sempre ciò che Dio vuole
e di avere fiducia nella
sua provvidenza paterna,
portando la mia croce
dietro a Gesù
per partecipare con te
alla sua gloria. AMEN”
Anche chi non è cristiano e non riconosce quindi ai santi la testimonianza dell’amore verso Dio e la giusta devozione, non può rimanere indifferente di fronte a queste antiche tradizioni conservate gelosamente per secoli. Suscitano sempre almeno curiosità, in quanto rappresentano un aspetto peculiare della nostra cultura storica-religiosa-antropologica troppo spesso ingiustamente dimenticata.