Quando la disobbedienza è civile
di Gianmaria Spagnoletti
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SI DEVE UBBIDIRE SEMPRE E COMUNQUE O È LECITO DISUBBIDIRE PER MOTIVI DI COSCIENZA? E CHE COS’È QUESTA “COSCIENZA”? IL BUON CITTADINO È CHI AGISCE SEGUENDO I PROPRI PRINCIPI MORALI E NON SEMPRE CHI VIENE ADDITATO COME TALE PER LA SUA PERFETTA OBBEDIENZA AI DETTAMI STATALI
La disobbedienza civile è un libro del 1849 (ASCOLTALO QUI), in cui lo scrittore americano Henry David Thoreau (1817-1862) esprime le proprie motivazioni a giustifica della legittimità e della necessità, per un cittadino, di ribellarsi a una legge ingiusta.
Il libro scaturisce da un’esperienza vissuta in prima persona dall’autore: poco tempo prima, Thoreau si era rifiutato di pagare la “Poll Tax” come gesto di ribellione verso la guerra che gli Stati Uniti stavano conducendo contro il Messico. Di conseguenza era stato imprigionato e poi liberato dopo una sola notte, probabilmente grazie a una parente che aveva pagato il dovuto.
Centro dell’opera è la critica mossa al governo americano dell’epoca, capace di portare avanti una guerra di aggressione e di accettare l’istituto della schiavitù e, contemporaneamente, di proclamarsi custode dello stesso ideale di libertà che aveva animato i suoi Padri Fondatori.
Thoreau parte da questa premessa per dire che vi è una legge più importante di quelle fatte rispettare dallo Stato, ed è quella della coscienza che l’autore intende come capacità di ciascun individuo di distinguere da sé il giusto e l’ingiusto, per opporsi a un governo che si ritiene slegato da vincoli morali e crede di poter abrogare qualunque principio, o di metterlo a voto di maggioranza.
Viene in mente la frase di S. Agostino: “Togli il diritto, e allora cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”. Questo è stato anche il monito di Benedetto XVI al Parlamento tedesco nel suo discorso del 22 settembre 2011.
Anche il Card. John Henry Newman, contemporaneo di Thoreau, si rifà al primato della coscienza nella sua “Lettera al Duca di Norfolk”, intendendola come una “bussola” data da Dio all’uomo perché si orienti verso la verità. La studiosa Hannah Arendt (autrice de La banalità del male), da par suo, nel suo libro La disobbedienza civile, fa un interessante distinguo fra “disobbedienza” e “obiezione di coscienza”, laddove la prima ha il proprio campo d’azione nello spazio pubblico, la seconda nell’interiorità dell’individuo.
Ma c’è una cosa che devo far notare: benché sia l’obiezione di coscienza che la disobbedienza civile siano temi che vengono affrontati spesso, non sempre c’è accordo tra i vari autori sul significato del termine “coscienza”.
La definizione che ne dà Thoreau è quasi accettabile: “quasi” perché forse è troppo ottimistica a riguardo del discernimento individuale, che ormai ha imboccato la via di uno scivoloso piano inclinato. Di sicuro, molti oggi la intendono come il proprio “sentimento” o convenienza personale.
A fare chiarezza mi aiuta l’ottima definizione riportata al paragrafo 1778 del Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC):
«La coscienza morale è un giudizio della ragione mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto. In tutto quello che dice e fa, l’uomo ha il dovere di seguire fedelmente ciò che sa essere giusto e retto. È attraverso il giudizio della propria coscienza che l’uomo percepisce e riconosce i precetti della Legge divina».
Qualcuno forse può obiettare che il riferimento possa essere troppo “di parte”, cioè confessionale. Obiezione debole, in realtà, perché non si può parlare di coscienza senza parlare di legge morale naturale: non è un “chiodo fisso” dei credenti, ma un concetto con consistenza propria.
Mi basti citare Antigone, la protagonista della tragedia di Sofocle, condannata a morte per aver deciso di dare sepoltura al fratello trasgredendo le leggi dello Stato, ma ubbidendo a quelle innate: «a proclamarmi questo non fu Zeus, né la compagna degl’Inferi, Dice, fissò mai leggi simili fra gli uomini. Né davo tanta forza ai tuoi decreti, che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, e innate, degli dèi. Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove».
Questi concetti sarebbero stati ripresi e ampliati dopo diciotto secoli in ambito cristiano da San Tommaso d’Aquino. Ma come vedete, la sostanza è già presente.
La consapevolezza di una legge morale naturale, però, non esclude che la coscienza individuale debba essere ben formata e messa al riparo da traviamenti e influenze negative. Questa formazione può essere condensata attraverso tre principi-base (CCC 1789):
— non è mai consentito fare il male perché ne derivi un bene;
— la «regola d’oro»: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12);
— la carità passa sempre attraverso il rispetto del prossimo e della sua coscienza.
Chiarito ciò, acquista tutta un’altra luce quel che scrive Thoreau più avanti: «Deve il cittadino – anche se solo per un momento, od in minima parte – affidare sempre la propria coscienza al legislatore? Perché allora ogni uomo ha una coscienza? Io penso che dovremmo essere prima uomini, e poi cittadini». Insomma, secondo lo scrittore americano il buon cittadino è chi agisce seguendo i propri principi morali e non sempre chi viene additato come tale per la sua perfetta obbedienza ai dettami statali; anzi, sono proprio gli uomini comunemente reputati “buoni cittadini” (popolani, sceriffi, membri della Milizia e dell’Esercito, etc.) quelli che talvolta rischiano di permettere grandi ingiustizie mettendo da parte la propria coscienza.
Ma se l’ingiustizia è talmente radicata da essere istituzionalizzata, cioè «quando un sesto della popolazione di una nazione che si è impegnata ad essere il rifugio della libertà è formato da schiavi, ed un intero paese è invaso e sottomesso ingiustamente da un esercito straniero», scrive Thoreau, è giunto il momento di fare una rivoluzione. Non certo una rivoluzione armata ma una pacifica, dove gli “uomini buoni” – quelli ancora dotati di una coscienza – prendano una posizione attiva contro la guerra e lo schiavismo. Non importa quanti siano, e non è necessario che attendano di essere maggioranza, dal momento che «una minoranza è senza potere quando si conforma alla maggioranza; non è nemmeno una minoranza in tal caso; ma è irresistibile quando è d’intralcio con tutto il suo peso».
È sufficiente quindi che mille, o cento, o dieci uomini rassegnino le dimissioni da incarichi pubblici, o smettano di tenere schiavi, affinché il meccanismo di oppressione crolli anche se è tenuto in piedi da una maggioranza.
«Se l’alternativa è tenere tutti gli uomini giusti in prigione, oppure rinunciare alla guerra ed alla schiavitù, lo Stato non avrà esitazioni riguardo a cosa scegliere».
E forse cominceranno a esercitare il potere uomini con una coscienza, che avranno a cuore il bene collettivo e non useranno gli strumenti dello Stato in funzione dell’ingiustizia.
Benché sia passato quasi inosservato ai tempi della sua pubblicazione, più tardi il saggio La disobbedienza civile diventò ispirazione per molti movimenti non-violenti, e per personaggi come Gandhi e Martin Luther King (i quali, ricordiamo, non sono dei modelli da seguire per i motivi che, rispettivamente, trovate QUI e QUI).
La disobbedienza civile di Thoreau, insomma, è un libro da leggere sicuramente in questo periodo, disponibile gratuitamente e consigliato a tutti, ma in particolare a chi desidera leggere parole forti e chiare sul rapporto tra etica, Stato e persona, e su certi confini che non dovrebbero mai essere attraversati.