Una domanda alla quale non possiamo sottrarci
di Daniele Trabucco
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UN RAPPORTO DA RECUPERARE, QUELLO TRA POLITICA E VERITÀ
La moderna dottrina dello Stato pone una domanda alla quale non possiamo sottrarci: può la politica assumere la Verità come categoria per la sua struttura?
La filosofia scolastica afferma che la verità è “adaequatio intellectus et rei“, ossia la corrispondenza tra intelletto e realtà. Tuttavia, si tratta solo di una piccola parte, non costituendo la Verità nella sua interezza.
La sua non completa riconoscibilità conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo o all’affermarsi di “verità funzionali” a dare un significato scientifico all’esistente, ma preclude la possibilità di cercare una verità sull’uomo, sul senso ultimo del suo agire, della sua provenienza e del suo fine ultimo.
Tommaso d’Aquino (1225-1274), nelle “Quaestione disputatae de veritate“, sostiene come, mentre nell’intelletto di Dio la verità è “in senso vero e proprio e in primo luogo (“proprie et primo”), in quello umano è “in senso vero e proprio e derivato” (“proprie quidem et secundario“).
Pertanto, se la politica non tende alla Verità, significa che essa deliberatamente rinuncia sia a criteri che garantiscano realmente la giustizia per tutti, sia a criteri sottratti all’arbitrarietà delle opinioni mutevoli ed alle concentrazioni storiche e contingenti del potere.
Ora, l’obiezione che si può muovere a queste brevi e semplici riflessioni risiede nell’identificazione della Verità con Dio, un’affermazione valida unicamente per chi crede e, dunque, oggetto di fede.
Eppure, qualora la politica venga scissa dalla Verità e, dunque, dall’ordine dell’essere, perviene alla distruzione di se medesima e dell’idea di diritto, o meglio al “diritto nichilista” dell’uomo di negare se stesso: aborto, suicidio, eutanasia etc.
La Verità obbliga, pertanto, la politica non nel senso di un’etica del dovere di tipo positivistico, bensì a partire dalla sua stessa natura la quale è “misura” di ciò che è. In questo, forse, ha ragione l’ultimo Hans Kelsen (1881-1973) quando ritiene che il derivare un dovere (giuridico) dall’essere è ragionevole solo se Qualcuno ha depositato un dovere nell’essere, sebbene si tratti di una tesi che egli non prende in considerazione.
In realtà, sono la democrazia e la stessa Costituzione ad avere, da tempo, un conto in sospeso con la Verità, l’unica che merita di andare al potere.