Il fine vita e il senso autentico del dono della libertà

Il fine vita e il senso autentico del dono della libertà

di Mons. Francesco Cavina*

UNA RIFLESSIONE DI MONS. FRANCESCO CAVINA, VESCOVO EMERITO DI CARPI (MODENA), A 2 MESI DAL DEPOSITO IN CASSAZIONE DELLE FIRME PER IL REFERENDUM EUTANASIA LEGALE, UN CRIMINE CHE RISCHIA DI FAR SCIVOLARE LA NOSTRA SOCIETÀ VERSO IL BARATRO DELLA “CULTURA DELLA MORTE”

Riflettere sul fine vita implica considerare il senso autentico del dono della nostra libertà, il grande sogno dell’umanità, ricevuto da Dio sin dagli inizi, ma particolarmente minacciato nell’epoca moderna. La cultura individualista in cui siamo immersi ci presenta infatti la libertà come la capacità di scegliere indifferentemente una cosa o l’altra, come possibilità di autodeterminarsi. Sono libero se non dipendo da nessuno, se posso fare tutto quello che voglio.

In realtà, l’esperienza insegna che l’uomo non è un assoluto e che isolarsi e comportarsi solo secondo la propria volontà è contrario alla verità del proprio essere. Infatti, l’uomo è un essere in relazione e solo accettando questa nostra relazionalità entriamo nella verità. Se io mi assolutizzo, divento nemico dell’altro, non posso più convivere e tutta la vita diventa crudeltà, diventa fallimento.

Gesù ci ha detto: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,3 2). La prima realtà da rispettare per essere liberi è la verità, perché la libertà contro la verità non è vera libertà. La libertà cresce e si perfeziona quando l’uomo si apre a Dio e all’ascolto della rivelazione divina per accoglierla. Ora Cristo, pienezza della rivelazione di Dio, con la sua vita e non solo con le parole rivela che la libertà si realizza nell’amore, cioè nel dono di sé. La libertà, dunque, è dire di sì all’amore di Dio e all’amore del fratello. La vera libertà in definitiva è sapere la strada per raggiungere al vero bene.

Per cercare di tradurre in senso esistenziale questa visione della libertà riporto la storia di due persone, un uomo e una donna, molto distanti per stile di vita, ma ambedue segnati dal dramma della sofferenza. Entrambi giovani, certamente pieni di sogni e di progetti da realizzare.

Lei si chiamava Benedetta Bianchi Porro (1936-1964). La sua storia è più silenziosa, ma di recente è riemersa con forza e dolcezza. Durante la celebrazione del 14 settembre 2019 presso la cattedrale di Forlì è stata dichiarata beata. Aveva diciassette anni quando era già iscritta all’Università. Nove anni più tardi volle rispondere a una lettera pubblica di un giovane, Natalino, che gridava il suo dolore e la sua disperazione.

«Caro Natalino, sulla rivista “Epoca” è stata riportata una tua lettera. Attraverso le mani, la mamma me l’ha letta. Sono sorda e cieca, perciò le cose, per me, diventano abbastanza difficoltose. Un morbo mi ha atrofizzata, quando stavo per coronare i miei lunghi anni di studio: ero laureanda in medicina a Milano. Poi il male mi ha completamente arrestata quando avevo quasi terminato lo studio: ero all’ultimo esame. […] Fino a tre mesi fa godevo ancora della vista; ora è notte. Però nel mio calvario non sono disperata. Io so che in fondo alla via Gesù mi aspetta. Prima nella poltrona, ora nel letto che è la mia dimora ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli. Fra poco io non sarò più che un nome; ma il mio spirito vivrà qui fra i miei, fra chi soffre, e non avrò neppure io sofferto invano. […] Le mie giornate non sono facili; sono dure, ma dolci, perché Gesù è con me, col mio patire, e mi dà soavità nella solitudine e luce nel buio. Lui mi sorride e accetta la mia cooperazione con Lui.

Ciao, Natalino, la vita è breve, passa velocemente. Tutto è una brevissima passerella, pericolosa per chi vuole sfrenatamente godere, ma sicura per chi coopera con Lui per giungere in Patria. Ti abbraccio».

Benedetta morirà il 23 gennaio 1964. La sua storia ci insegna che vera forza consiste nel saper accettare fino alla fine la propria vita, anche quando le capacità motorie vengono meno o la nostra possibilità di comunicare viene eclissata. Lei ha scoperto la via della libertà e dell’amore. Non la via dell’autodeterminazione fino a scegliere come e quando morire, ma la via della luce che la invitava ad aprirsi alla verità di una promessa di bene. E così non è rimasta schiacciata sotto il peso della croce, ma si è affidata al mistero d’amore di un Dio crocifisso che ha cercato lo sguardo della Madre nel momento estremo della sua agonia. Maria è stata una presenza forte e silenziosa che ha certamente trasmesso al Figlio una materna consolazione, la consolazione di colei che ha saputo fare del dolore dell’Altro il suo dolore.

Concludo con queste parole della giornalista Eugenia Roccella, che condivido totalmente, tratte da un articolo apparso sul quotidiano Avvenire il 24 novembre 2021: «Mentre le terapie intensive tornano a riempirsi per il Covid si cerca di far passare la morte autoprocurata non come una scelta libera e tragica, che una comunità solidale deve cercare di evitare, ma come un diritto. Dobbiamo decidere se vogliamo un Paese dove la morte è un diritto del singolo, a cui essere indifferenti, o se l’Italia deve restare il Paese dove il Presidente della Repubblica premia la carabiniera Martina capace di passare tre ore su un ponte, accanto a una donna che aveva già scavalcato il parapetto, convincendola a non buttarsi. Questo è il Paese che amiamo».

* Vescovo emerito di Carpi (Modena)

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