Covid, il dott. Paolo Gulisano: “curo in scienza e coscienza chi mi chiede aiuto”
Di Gian Piero Bonfanti
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LA “MEDICINA DEI PROTOCOLLI” NON DEVE PRENDERE IL SOPRAVVENTO SULLA MEDICINA DELLA CURA, DELLA VISITA, DELLA DIAGNOSI E DELLA TERAPIA MIRATA E PIÙ ADEGUATA
Oggi pubblichiamo un’intervista che ci è stata rilasciata dal professor Paolo Gulisano, medico epidemiologo e già docente della storia della medicina all’Università Statale di Milano. Il prof. Gulisano è stato per sedici anni presidente del Centro Aiuto alla Vita di Lecco ed inoltre collabora con diverse testate giornalistiche, oltre ad essere uno stimato scrittore e saggista.
Il covid-19 è considerata come pandemia, ma secondo i numeri e la diffusione di questo virus si può realmente considerare così?
A due anni dai suoi esordi, possiamo definire l’epidemia di Covid 19 come una pandemia, ossia una epidemia che si caratterizza per un’ampia diffusione territoriale. E’ una pandemia di tipo geriatrico, visto che l’età media delle persone decedute è di oltre 80 anni, e il numero dei casi tra le persone al di sotto dei 20 anni è basso e si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di asintomatici o paucisintomatici. Una pandemia, sì, ma con caratteristiche abbastanza peculiari che la rendono diversa da altre situazioni di diffusione di malattie infettive.
Come sappiamo, lei si è speso molto nella cura di persone affette da covid-19. Abbiamo assistito ad una campagna mediatica e ad azioni in netto contrasto alle cure domiciliari sin dal principio. Ora però sembra che qualcosa stia cambiando e che ci sia maggior sensibilità in merito alla cura del paziente. Ci può spiegare quali sono per lei i motivi che hanno rivoluzionato i protocolli e la visione del mondo della medicina, e perché ora si sta lentamente tornando alla cura della persona?
Fin dall’inizio della pandemia è apparso chiaro che curare era possibile, che c’erano farmaci in grado di contrastare efficacemente l’azione patogenetica del virus. Basti ricordare le cure praticate a Piacenza dal professor Cavanna. Poi un altro illustre ricercatore come il professor Remuzzi dell’Istituto Mario Negri ebbe a dimostrare l’efficacia delle terapie con farmaci antiinfiammatori, ma il Governo non ha mai fatto nulla per promuovere la medicina territoriale e le cure domiciliari, che oltre a salvare migliaia di vite umane avrebbero evitato il sovraffollamento degli ospedali, causa a sua volta di altri gravi problemi. Poi si sono aggiunte associazioni di medici che praticano le cure domiciliari, che tuttavia anziché essere sostenute sono state ostacolate in vari modi. Personalmente non faccio parte di nessuna associazione, ma curo in scienza e coscienza chi mi chiede aiuto, utilizzando tutte le conoscenze di cui disponiamo. Non si tratta infatti di avere dei “protocolli”, ma – all’interno certamente di alcune linee guida di base – di curare le persone nel modo migliore tenendo conto della loro anamnesi, della loro storia sanitaria. La “medicina dei protocolli” non deve prendere il sopravvento sulla Medicina della cura, della visita, della diagnosi e della terapia mirata e più adeguata. Io tuttavia devo constatare che persiste ancora una certa mancanza di attenzione alle cure.
Ci può spiegare se allo stato attuale siamo rimasti al protocollo “tachipirina e vigile attesa”, oppure ci sono stati degli sviluppi in merito al primo soccorso?
Purtroppo questa malapratica è ancora molto diffusa. E’ incredibile che a quasi due anni dagli inizi del Covid 19 ci siano ancora dei medici che pensino che una polmonite si possa curare solo con un antipiretico. Le polmoniti sono state sempre curate con farmaci ben più importanti, come antibiotici o cortisonici. Gli sviluppi che possiamo avere in questo ambito sono relativi alle scelte personali di medici che decidono di curare in scienza e coscienza. Ma troppe volte si deve prendere atto di questa forma di assenteismo terapeutico eticamente e professionalmente gravissima.
Per lei il green pass è uno strumento utile per limitare la diffusione della pandemia oppure questo dispositivo potrebbe avere un’altra finalità?
Green pass? Cos’è? Questo termine gergale designa la cosiddetta “Certificazione verde”, un documento che non serve a contenere la diffusione del virus, anzi. I portatori di questo tipo di lasciapassare non sono certi della loro immunità, a parte le persone che si sono ammalate e sono guarite. Molti dei portatori di certificato si ammalano di Covid. Il fatto di aver fatto delle dosi di vaccino, due o anche tre, non è garanzia di immunità. Alcuni Paesi hanno riconosciuto questo dato di fatto scientifico, e hanno abbandonato (è il caso della Spagna) la politica delle certificazioni “verdi”. Un colore, questo, che in Medicina è sempre segno di mancanza di salute, di malattia. La scelta di questo colore per il certificato è stata davvero infelice, anche se è chiaro che i suoi inventori pensavano ad altri simbolismi: quello del semaforo, che se è verde ti consente di passare, oppure all’ecologismo che di questi tempi è di gran moda, e la cosiddetta emergenza ecologica è strettamente coniugata a quella sanitaria. Il certificato non è dunque uno strumento di prevenzione, ma semplicemente è una sorta di tessera sociale che serve ad esercitare un controllo capillare e coercitivo sulle persone. Uno strumento che – temo – andrà ben oltre l’epidemia da Covid.
I vaccini che sono stati utilizzati hanno fatto nascere grandi dubbi e divisione tra le persone, ci può spiegare il motivo?
Credo che molte persone siano state sorprese e allarmate dalla rapidità con cui alcuni vaccini sono stati approvati. In particolare i vaccini a mRNA che sono stati realizzati con nuove tecnologie sperimentali. Normalmente la realizzazione di un vaccino richiede 5 anni di lavoro, non 5 mesi. Questo, insieme alle notizie di molte reazione avverse, ha suscitato dubbi e preoccupazione. Per altri si è aggiunta una perplessità di tipo etico, visto l’utilizzo di cellule provenienti da bambini abortiti per la preparazione di questi vaccini. A ciò si è aggiunto il fatto che è mancata una serena discussione sui vaccini, sui rischi e sui benefici, a cui si è preferita la via dell’imposizione di fatto, della coercitività, ed infine dell’odio settario nei confronti delle persone non vaccinate, odio e intolleranza che stanno raggiungendo livelli molto preoccupanti, spaccando la società in due parti contrapposte. Un odio contro il quale dovrebbero alzarsi voci di condanna, per lo meno da agenzie morali, o dalla Chiesa stessa che spesso si è spesa in difesa di categorie come i migranti, gli omosessuali e così via, e che nei confronti delle persone non vaccinate minacciate, offese, discriminate, non spende una sola parola.
Se fosse stato al posto del ministro della salute, quale misure avrebbe attivato per contrastare la pandemia?
Avrei guardato a modelli di Paesi come la Svezia o il Giappone o la Corea del Sud che hanno contenuto efficacemente l’epidemia senza ricorrere a strumenti repressivi, ai lockdown estenuanti che hanno provocato gravi danni economici e psicologici. Il “modello italiano” ha fatto sì che il nostro Paese avesse un tasso di mortalità tra i più alti al mondo, anche se i media ufficiali lo tengono ben nascosto. Una realtà su cui riflettere .