Il vescovo di Pavia: “la Chiesa non sia semplice eco di Stato e OMS”

Il vescovo di Pavia: “la Chiesa non sia semplice eco di Stato e OMS”

di monsignor Corrado Sanguineti*

IL VESCOVO CORRADO SANGUINETI: “NON POSSIAMO ACCONTENTARCI, COME CHIESA, DI RIPETERE LUOGHI COMUNI O DI ESSERE UNA BUONA AGENZIA DI SERVIZI SOCIO-CARITATIVI”

[….] San Siro, che celebriamo come patrono della città e della diocesi di Pavia, come primo pastore della nostra Chiesa, vissuto nel IV secolo, contemporaneo di Sant’Ambrogio, fu un vescovo evangelizzatore, forse proveniente dall’oriente, come si potrebbe dedurre dal suo nome. In realtà le notizie sicure sono poche, tuttavia è certo che la sua azione di vescovo della prima comunità credente in Pavia avesse uno spiccato carattere di evangelizzazione: si trattava di impiantare la nuova fede cristiana e di porre le basi della Chiesa in questo territorio.

Ecco perché la prima lettura evoca la figura di Abramo, il grande pellegrino della fede, che in obbedienza alla voce di Dio lascia la sua terra e si affida alla promessa del Signore: «Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gen 12,1). Anche Siro è stato un credente che si è messo in cammino, si è fidato di Dio e della sua parola e con il suo annuncio e il suo servizio di pastore ha generato un popolo nuovo: il popolo di Dio che da allora cammina nella nostra città e nella nostra terra.

Il vangelo è la pagina conclusiva del racconto dell’evangelista Marco, nella quale il Signore risorto consegna ai suoi discepoli il mandato missionario: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Subito gli apostoli si mettono in cammino: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto» (Mc 16,20).

Ebbene, carissimi fratelli e sorelle, San Siro s’inserisce nella lunga schiera dei vescovi che, nei primi secoli dopo Cristo, hanno evangelizzato, hanno diffuso il Vangelo, con la parola e con le opere, hanno dato forma e struttura alla vita della comunità cristiana, e hanno posto così, senza un progetto preordinato il fondamento di una nuova civiltà che, lentamente, ha dato un volto alle nostre terre, come a tutto il continente europeo, attraverso l’azione diffusa di altri uomini di Dio, come San Colombano e San Benedetto, che, con i loro monaci e con il fiorire dei monasteri, centri di fede, di cultura e di educazione, hanno plasmato l’animo dei popoli, hanno salvato l’eredità del mondo antico, hanno generato una concezione dell’uomo e della realtà, profondamente impregnata e illuminata dalla fede.

Ovviamente, nella civiltà cristiana che ha trovato la sua espressione matura nei primi secoli dopo il Mille – l’epoca di San Francesco e di San Domenico, di San Tommaso d’Aquino e di Dante Alighieri, l’epoca delle grandi cattedrali e dei liberi comuni – non sono mancate ombre e tradimenti dello stesso Vangelo di Gesù, fino a forme di violenza e d’intolleranza che oggi giustamente condanniamo, anche se purtroppo non mancano esempi attuali di una perniciosa commistione tra violenza e religione, con forme di fanatismo e d’integralismo che ben conosciamo.

Le miserie e le meschinità degli uomini, le lotte di potere, i condizionamenti della storia hanno segnato anche la civiltà cristiana medioevale e nessuno di noi vuole ritornare al passato o vagheggia un sogno di “restaurazione della cristianità”: tuttavia, sarebbe ingiusto e miope non riconoscere il ruolo fondamentale che la fede cristiana, testimoniata da una schiera di santi e di sante, uomini e donne che spesso si muovevano nell’orizzonte ampio dell’Europa, di città in città, di università in università, di monastero in monastero, ha avuto nella formazione della coscienza europea, nella percezione del valore e della dignità della persona umana, nell’amore alla scienza e nella passione d’indagare la realtà, nella lenta crescita di prassi democratiche, nello sviluppo d’istituzioni sociali e culturali dall’impronta umanistica e religiosa al contempo – come gli ospedali, i ricoveri dei pellegrini, le scuole monastiche e cattedrali, le università.

La nostra città di Pavia in quei secoli lontani ha visto edificare chiese e monasteri, dentro e fuori le mura, e ancora oggi il suo volto urbano è segnato dall’eredità di una storia cristiana, arricchita nella modernità e negli ultimi secoli da nuove correnti di pensiero, da tradizioni ideali differenti da quella cristiana, anche se incomprensibili senza la relazione con la cultura e l’esperienza ispirate dalla fede, una relazione, in certi tratti, dialettica e perfino violenta: pensiamo solo ai movimenti giacobini e al periodo di Napoleone, alle forte tensioni sociali tra cattolici, liberali e socialisti nei primi decenni dello Stato unitario, al confronto vivo e aspro tra filosofie positiviste e materialiste, presenti a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento negli ambienti universitari e culturali pavesi ed europei, e la visione umanistica cristiana della Chiesa e degli esponenti del mondo cattolico, attivi negli stessi ambienti di pensiero, di ricerca e d’insegnamento.

Carissimi amici, noi siamo eredi di questa storia, che ha in San Siro un testimone e un padre, proprio nel suo ruolo di primo vescovo e di evangelizzatore della nostra terra. Allora, mi verrebbe di rivolgermi a lui, chiedendogli: che parola diresti oggi, a Pavia, alla tua Chiesa, a questa città da te amata? Che dono originale, che parola singolare è chiamata a testimoniare e a offrire la Chiesa di Pavia qui e ora, in questo tempo?

Viviamo, infatti, un tempo segnato da non poche contraddizioni che mi limito ad accennare.

Da una parte, nel vissuto e nella coscienza diffusa, anche in questa società sempre più secolarizzata, permangono e anzi si manifestano aspetti e convinzioni che, almeno alla radice, sono legati al cristianesimo e alla sua concezione ideale e morale: il senso della dignità della persona e dei suoi diritti intangibili, la solidarietà e la condivisione dei bisogni e delle sofferenze altrui – pensiamo la ricchezza del volontariato, nelle sue varie espressioni o il fiorire di tantissimi gesti e iniziative di servizio e di carità verso i fragili, i poveri, le famiglie in difficoltà – la promozione delle persone “diversamente abili” perché acquistino forme di autonomia e possano mettere in gioco i loro doni, senza essere pietosamente ridotti a destinatari solo di accudimento, la cura dei malati con una sanità intesa come servizio per tutti, il valore della corporeità, che appartiene alla visione biblica dell’uomo come unità profonda di spirito e corpo. E potremmo continuare nel cogliere tratti del sentire comune che, certamente alimentati anche da altre correnti di pensiero e di costume, sorgono da un’anima naturaliter cristiana.

Dall’altra parte, invece, ci sono fenomeni e orientamenti ideali sempre più estranei alla fede cristiana, sempre più lontani da quell’umanesimo cristiano che, per secoli, ha plasmato il vissuto delle famiglie e delle persone, ha creato atteggiamenti e istituzioni, e vanno emergendo questioni cruciali per il presente e il futuro delle nostre società, per il cammino delle nuove generazioni.

Mi permetto di riprendere, come sintesi, quello che ho scritto sul quotidiano Avvenire domenica scorsa, in una pagina dedicata alla nostra diocesi; indicavo tra gli aspetti urgenti e critici «il dramma dei migranti e dei profughi, con le scene di respingimenti e di muri che s’innalzano, nella colpevole indifferenza dell’Europa, sempre più ritorta su se stessa – Papa Francesco nel recente viaggio a Cipro e in Grecia ha gridato, visitando il campo profughi nell’isola di Lesbo: «Vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà!»; la necessità di una transizione ecologica, realizzata in modo equilibrato e progressivo; le questioni che toccano l’identità dell’uomo, che rischia d’essere offuscata e cancellata nei sogni di certo “trans-umanesimo”; la crisi demografica, unita a una sfiducia nel futuro, e la crescita, nell’Occidente ricco e sazio, di una mentalità di morte, che difende il “diritto” all’aborto, all’eutanasia e al suicidio assistito, in nome di una libertà assoluta che vuole disporre totalmente di sé; infine, la diffusione di pratiche come l’utero in affitto e le varie forme di fecondazione artificiale, che sempre più trasformano la generazione di un figlio a un processo di produzione, con l’esito di ridurre il bambino concepito a oggetto di commercio, magari, una volta nato, abbandonato e lasciato ad altri, come la recente vicenda della bimba “parcheggiata” per un anno in Ucraina».

Non mancano esempi di una strana volontà di cancellare parole e segni cristiani nel costume, per cui, in nome di una malintesa tolleranza e del rispetto di ogni identità, si giunge all’assurdo di ridurre il Natale a una festa senza senso e ragione, non si può nominare l’evento della nascita di Gesù, si tende a cancellare i segni della festa, come il presepe o i canti natalizi; sta crescendo, nel mondo occidentale, nord-americano ed europeo, la tendenza a demonizzare tutto un certo passato, e a inventare un nuovo “linguaggio inclusivo” che censura le parole originarie dell’esperienza umana (madre, padre, uomo, donna, maternità, generazione …), intollerante e violento per chi non si adegua al “pensiero unico”.

In questa situazione, di quale parola e di quale testimonianza la Chiesa è debitrice? Pensando a San Siro, pastore che si è dedicato all’annuncio del Vangelo e all’edificazione della nascente comunità cristiana, qual è il contributo che come cristiani siamo chiamati a offrire oggi?

Noto, infatti, un rischio, abbastanza diffuso nella cristianità attuale: dovendo parlare a un mondo sempre più chiuso alla trascendenza, che elimina Dio e il mistero dall’orizzonte della vita e che confida, talvolta in modo esagerato, nella scienza come unica forma di conoscenza valida e come soluzione a tutti i problemi – anche una certa enfasi sulla fede nella scienza di fronte alla complessa sfida del Covid va in questo senso – noi cristiani, noi Chiesa, quando prendiamo la parola in ambito pubblico o ci rivolgiamo a un uditorio “laico”, rischiamo di sottacere le questioni radicali, di limitarci a buoni consigli di comportamento o di accettare che l’unica forma apprezzata di presenza della Chiesa è quella che si realizza nella carità, nell’organizzare forme di servizio e di risposta ai bisogni emergenti.

Un solo esempio: la circostanza inattesa della pandemia, che si sta prolungando più di ciò che immaginavamo, con tutte le sue pesanti conseguenze sanitarie, sociali, psicologiche e spirituali, mette allo scoperto la terribile fragilità di una certa visione dell’esistenza, tutta schiacciata sull’immediato, sul consumo, sull’accumulo di beni e il godimento di emozioni e “esperienze”.

È un momento in cui tornano a farsi largo le domande inestirpabili dell’uomo sul senso della vita e della morte, sul significato dell’umano soffrire, su ciò che veramente vale e ha consistenza: chi è leale con la propria esperienza, riconosce l’evidenza del limite che ci costituisce come esseri umani, – non siamo padroni della vita, né propria, né altrui – e al tempo stesso la forza inesauribile di un desiderio di vita, di pienezza, di positività che nulla riesce a cancellare!

Siamo creature finite, mortali, tuttavia portiamo in noi un’apertura all’infinito, un’inquietudine che ci rende vivi: c’è come in noi un “punto di fuga” che sfonda il limite, l’apparente e ci spalanca al mistero, a Dio, a Colui che è ragione e fondamento ultimo di tutto ciò che esiste.

Allora, carissimi fratelli e sorelle proprio in questo tempo, noi come cristiani, sulle orme del nostro patrono San Siro, non possiamo accontentarci, come Chiesa, di ripetere luoghi comuni o di essere una buona agenzia di servizi socio-caritativi: «Una Chiesa che si limitasse a ripetere parole di saggezza, a dare consigli di buon comportamento sociale, magari adeguandosi, in certi campi, a un linguaggio generico e “inclusivo”, o facendo semplicemente eco a raccomandazioni dello Stato e dell’OMS, forse troverà ascolto, almeno all’apparenza, entrerà nel circolo del politically correct, ma alla fine si confonderà con altre agenzie di pensiero e di costume, e perderà la sua forza attrattiva e la sua capacità di essere una “minoranza creativa”» (Editoriale del Ticino, 9/12/2021).

Come credenti nel Signore della vita, siamo in debito del Vangelo, dell’annuncio buono e carico di speranza che si sprigiona dall’evento di Cristo, il Figlio di Dio divenuto figlio dell’uomo, che ha condiviso tutto il dramma della nostra condizione umana, fino alla sofferenza e alla morte e che proprio attraversando la valle oscura del dolore, assunto e vinto dall’amore, ha aperto per tutti noi il varco luminoso della risurrezione e della vita eterna.

San Siro allora ci richiama a essere una Chiesa che evangelizza, che desidera annunciare e testimoniare lo sguardo nuovo, che nasce dalla fede, sulla vita, sulla morte, sulla sofferenza, sull’amore umano, su tutto! Certo è un Vangelo che si annuncia, che si comunica con la parola e con la vita, è un Vangelo che si celebra, ridando centralità e valore all’Eucaristia: cari cristiani della Chiesa pavese, ritorniamo a vivere con fedeltà la messa, ogni domenica, ritroviamoci come popolo di Dio nelle nostre chiese, nei nostri oratori, ridiamo spazio alla preghiera nelle famiglie e accompagniamo i nostri figli alla scoperta di Gesù, alla bellezza di essere cristiani!

È un Vangelo che s’incarna nelle mille forme della carità, nelle opere di misericordia, nell’accoglienza alla vita nascente, nella cura della vita fragile e che tramonta: nel campo davvero infinito della carità e dell’educazione, possiamo fare un tratto di strada con tanti fratelli uomini, che magari non condividono la nostra fede, ma sono aperti al bene, si lasciano toccare e ferire dai bisogni degli altri, hanno voglia di costruire una convivenza più umana, ci tengono al tesoro del creato e a un nuovo rapporto con la natura, non accettano acriticamente certe tesi del pensiero dominante o la follia d’inventare un linguaggio ideologico che nega l’evidenza.

Ricordiamoci che ogni potere totalitario, più o meno violento, si afferma e si regge sul silenzio e l’inazione delle “brave” persone, dei “buoni” e degli ignavi: Vaclav Havel, dissidente nella Cecoslovacchia comunista, divenuto poi presidente della nazione finalmente libera dopo gli eventi dell’89, un laico aperto al mistero e alla dimensione spirituale della vita, ricordava «il potere dei senza potere» che consiste nel non cedere mai alla menzogna incominciando dal linguaggio, dal chiamare le cose per quello che sono.

Questo è il compito che abbiamo come comunità cristiana, se vogliamo essere fedeli all’eredità di San Siro e renderla viva e attuale: se venisse meno un’esperienza reale e condivisa di fede, un popolo cristiano, per quanto “minoritario”, verrebbe meno la possibilità di percepire la corrispondenza all’umano che appartiene alla concezione e alla pratica dell’umanesimo cristiano. Come vediamo accadere, senza la fede, come esperienza presente che illumina la vita, certe evidenze e certi valori, che per sé sono naturali e appartengono alla verità dell’umano, si offuscano, si oscurano, non sono più riconosciuti e apprezzati. Cresce un nichilismo, spesso travestito, che non ha più nemmeno la dignità del nichilismo tragico: è un “nichilismo gaio”, un vuoto di senso e d’ideali, che purtroppo stanca e intristisce non pochi giovani e adolescenti, sempre più fragili perché senza adulti che abbiano qualcosa di grande e di vero da comunicare.

Accogliamo, in questo passaggio così gravido di futuro, l’invito che Papa Francesco ha rivolto, alla nostra civiltà europea, di cui Pavia è parte e protagonista nella sua lunga storia, nella sua sosta recente ad Atene, città simbolo della cultura occidentale. Atene, Gerusalemme e Roma rappresentano le grandi tradizioni dell’umanesimo europeo – il culto del pensiero e della riflessione filosofica, l’eredità giudaico-cristiana, il mondo del diritto e delle sue istituzioni –che rischia d’essere ridotto e appiattito alla sola dimensione empirico-scientifica, perdendo l’ampiezza della ragione umana, aperta ad altre dimensioni, altrettanto essenziali e reali, come quella etica, metafisica, estetica, spirituale e religiosa: «È il richiamo ad allargare gli orizzonti verso l’Alto: dal Monte Olimpo all’Acropoli al Monte Athos, la Grecia invita l’uomo di ogni tempo a orientare il viaggio della vita verso l’Alto. Verso Dio, perché abbiamo bisogno della trascendenza per essere veramente umani. E mentre oggi, nell’Occidente da qui sorto, si tende a offuscare il bisogno del Cielo, intrappolati dalla frenesia di mille corse terrene e dall’avidità insaziabile di un consumismo spersonalizzante, questi luoghi ci invitano a lasciarci stupire dall’infinito, dalla bellezza dell’essere, dalla gioia della fede» (Discorso alle autorità, alla società civile e al corpo diplomatico, Atene 4/12/2021).

Che San Siro ci accompagni e ci sostenga, come Chiesa e come comunità umana e civile, nell’impegno a non smarrire la ricchezza e la verità del nostro essere uomini e donne, in cammino nella storia, aperti all’eternità. Amen!

* Vescovo di Pavia

Solennità di San Siro protovescovo e patrono della Città e della Diocesi

Duomo di Pavia – giovedì 9 dicembre 2021, omelia su “San Siro: quale parola per il nostro tempo”

Subscribe
Notificami
0 Commenti
Oldest
Newest
Inline Feedbacks
View all comments