Meno lavoro, stipendi più bassi e prospettiva di precarietà permanente: c’era una volta il futuro…
di Giuseppe Brienza
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IL LAVORO AL TEMPO DELLA GLOBALIZZAZIONE E LA PAURA DEL FUTURO NEL FOCUS DEL NUMERO DI DICEMBRE DELLA RIVISTA DI CULTURA E POLITICA “IL BORGHESE” (DIRETTORE: GIUSEPPE SANZOTTA)
Caricatura del geniale Charlie Chaplin in Tempi Moderni (1936) sulla copertina dell’ultimo numero de “Il Borghese”, disegnata da Alessio Di Mauro, con su la scritta: “Il lavoro al tempo della globalizzazione. Tempi post-Moderni”.
La vignetta si riferisce al titolo dell’editoriale di apertura, “La paura del futuro”, del numero di dicembre della rivista mensile di cultura e politica pubblicata dall’editore Pagine di Roma. Nel suo fondo il direttore Giuseppe Sanzotta obietta ai politici italiani di parlare spesso dei giovani ma, quasi sempre, trattando di nuovi fenomeni sociali o culturali, mode, musica, ambiente, droghe e, in generale, quando si tengono convegni, summit, etc. Si tratta, invece, di iniziare a farlo ipotizzando misure concrete ed efficaci in tema di famiglia, di lavoro e di prospettive di crescita per tutto il Paese. In particolare, secondo Sanzotta, se nel 2023 l’Italia vorrà davvero ripartire, dovrà eliminare la scorciatoia del “reddito di cittadinanza”, perché «la possibilità di avere un reddito, stando a casa, non facilita una reazione» (p. 3).
Al tema centrale del globalismo quale unificazione anonima, legata a ragioni economico-finanziarie e favorita dall’immigrazione incontrollata, è dedicato l’articolo del filosofo Hervé Cavallera, ordinario di Storia della pedagogia all’Università del Salento, dal titolo “La Globalizzazione come negazione del dialogo” (p. 26). Si riferisce alla connotazione essenziale del nostro tempo, ossia all’annullamento delle frontiere da un punto di vista non solo degli spostamenti delle persone, ma anche e soprattutto dal punto di vista commerciale, artistico e spirituale, «un processo che va al di là dei riferimenti ai grandi imperi mondiali di una volta, sia perché tali imperi non erano completamente mondiali sia perché essi implicavano il riconoscimento e l’accettazione di una concezione della vita, se non proprio di un ideale. L’odierna globalizzazione del mondo è invece il risultato di una unificazione dovuta al trionfo della scienza e della tecnica […]. Che il mondo si unisca, che vengano meno le distinzioni ideologiche ed etniche può apparire a prima vista un processo di liberazione e quindi estremamente positivo. [Ma] l’accoglienza ha in sé dei limiti legati alla possibilità della capienza e della reale e funzionale integrazione degli “accolti”. In altri termini, un equivoco del presente è quello di associare, in un buonismo astratto, la globalizzazione con il dialogo, che di per sé non può che essere positivo. Ma l’associazione non è corretta. Il dialogo, infatti, implica due elementi di partenza: la molteplicità e la volontà. Il dialogo avviene tra persone diverse che vogliono comunicare tra loro. Ciò richiede non solo la presenza di precise identità, ma altresì lo sforzo di andare oltre la dualità. Avviene questo nel presente?».
L’opinionista di destra Marcello Veneziani dedica la sua rubrica mensile Ultimatum al «sistema di sfruttamento senza precedenti» nel quale si è ormai trasformato il lavoro agile (o smart working). Nel pezzo, intitolato “Cresce un nuovo schiavismo”, il giornalista e scrittore confuta anzitutto «gli esiti assai promettenti» che ancora continuano da molti ad attribuirsi al lavoro a distanza, quali ad esempio «il ritorno a casa, il ritorno in famiglia, il ritorno al paese, in campagna o in provincia, il ritorno al sud». A distanza di due anni, però, va rilevato che lo smart working ha sconvolto assetti ed economie, penalizzato i circuiti commerciali costruiti intorno al lavoro in ufficio e creato disagi quando in casa ci sono più persone collegate, senza contare che, al di là della retorica, nella pubblica amministrazione in molti casi il rendimento da casa cala ulteriormente. Per i lavoratori, però, in definitiva tranne alcune limitate eccezioni, sta accadendo, conclude Veneziani, «e lo dico sulla base di esperienze direttamente conosciute, di ogni età e di ogni livello professionale, che lo smart working sia diventato per molti un sistema di sfruttamento senza precedenti» (p. 80).
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