Storia, che pizza! (O forse no?)

Storia, che pizza! (O forse no?)

Di Gianmaria Spagnoletti

LO STUDIO DELLA STORIA È FUNZIONALE ALLO SVILUPPO DELLA PERSONA, ANCHE SE A MOLTI SEMBRA SOLO UNA SUCCESSIONE DI EVENTI DA IMPARARE A MEMORIA

Se c’è una materia “bistrattata” dalla scuola, quella è Storia. Eppure è proprio da essa che vanno tratte le lezioni per il presente e per il futuro, perché siamo “nani sulle spalle dei giganti”.

Penso di incontrare il favore di molti lettori se dico che la materia scolastica più detestata dopo Matematica è Storia. Ne ho avuto una conferma pochi giorni fa, quando a Cingolani, Ministro della transizione digitale, è scappata la frase “A che serve studiare 3 o 4 volte le guerre puniche?”.

Una frase che dovrebbe farmi saltare sulla sedia, ma che in realtà non mi stupisce più, perché ormai tutta la scena è presa dalla tecnica e dalla tecnologia: è un “saper fare” molto pratico che potrebbe piacere alle aziende di oggi, e tuttavia potrebbe diventare obsoleto nel giro di poco tempo, non appena cambiano i requisiti dell’industria e del mercato.

La Storia invece non risponde a un sapere pratico. Non è “spendibile”, tanto per usare un altro termine caro ai fautori della scuola-azienda. Ma forse è in questo che sta la sua forza: lo studio della Storia è funzionale allo sviluppo della persona, anche se a molti sembra solo una successione di eventi da imparare a memoria.

Prendiamo ad esempio l’antichità classica: l’antica Grecia viene considerata il fondamento della civiltà occidentale, non per nulla, perché ci ha lasciato in eredità la filosofia, la politica, la democrazia (notate che tutti e tre sono termini greci), e il teatro.

L’antica Roma ha portato il tutto al massimo grado di perfezione, creando un impero basato su una potente organizzazione militare, che ha saputo unire tutto il mondo allora conosciuto, lasciando un’impronta che non è mai svanita del tutto.

Non a caso, tutti i regnanti che sono venuti dopo la caduta dell’impero romano hanno tentato di imitarlo, come Carlo Magno, che chiamò il suo Stato “Sacro Romano Impero”. Ancora oggi le leggi degli Stati occidentali si basano sul Diritto romano, come esempio di leggi “laiche” codificate da Giustiniano.

Qui però prevedo già delle obiezioni: il mondo classico non era “democratico” nel senso che intendiamo noi; inoltre, donne e bambini godevano di scarsa o nessuna considerazione, per non parlare dei milioni di schiavi che proprio non avevano nessun diritto.

Tutte cose vere, ma senza considerare che migliaia di anni di distanza hanno completamente cambiato il mondo, che cosa ha influito su questi elementi? La risposta è: il cristianesimo, che “stemperò” questi lati più oscuri della società del tempo, pur non riuscendo a eliminarli del tutto, grazie alla novità della figliolanza divina che dava pari dignità a tutti i battezzati. Inoltre, il cristianesimo riconobbe il grande valore della cultura lasciata dal mondo antico, specialmente della filosofia greca e dei classici letterari: è rimasto famoso l’aforisma attribuito a Bernardo di Chartres (vissuto nel XII secolo), secondo cui siamo “nani seduti sulle spalle dei giganti”.

Disgraziatamente però, tutta la storia dal XVI secolo in avanti è una serie di tentativi fatti dall’umanità per scrollarsi di dosso il cristianesimo. Il grosso problema è che i libri di Storia lo presentano in una luce positiva, “completando” il tutto con una prospettiva distorta per cui i “migliori” saremmo noi moderni, e tutti quelli che ci hanno preceduto “arretrati” e “retrogradi”. In questo si colloca lo stereotipo del Medioevo come epoca buia, mentre fu un periodo di eccezionale fioritura delle arti, della filosofia e della teologia (ad esempio, la “Summa” di San Tommaso non era altro che un riassunto delle lezioni del grande teologo campano (tuttavia a uno studioso moderno forse non basta una vita per affrontarla tutta).

Insomma, se la Storia viene spesso pensata o insegnata come una marcia verso il progresso, non è detto che sia stata effettivamente così: per esempio, in un interessante saggio dal titolo “La Ragione aveva torto?” Massimo Fini scrive che un contadino dell’Ancien Régime, pur non specializzato e analfabeta, con un certo numero di giornate lavorative, poteva costruirsi una casa per sé e per la famiglia con un pezzo di terra intorno. Oltre al fatto che oggi, a parità di ore lavoro si “combina” molto meno, fra i “progressi” del ‘700-‘800 ci furono le leggi inglesi sulle recinzioni, che impedirono ai contadini di mandare le proprie mucche o pecore a pascolare nelle terre demaniali, costringendoli a riversarsi nelle città per diventare “proletariato”.

Le terre, ovviamente, andarono a ingrassare chi stava già bene economicamente, cioè i grandi proprietari. Altro tema interessante, per esempio, è lo sguardo che alcune civiltà avevano sui disabili: famosissima a questo proposito è la storia di Ermanno il Contratto, nato deforme e affidato dai genitori a un monastero, dove poi si dimostrò un brillantissimo studioso, autore fra l’altro della “Salve Regina” e dell’”Alma Redemptoris Mater”.

Nell’Antico Egitto, come anche tra i Nativi Americani, i disabili non venivano emarginati, ma trattati con uno speciale riguardo, in quanto esseri “toccati dalla divinità” che facevano da tramite fra il mondo degli uomini e quello soprannaturale.

Insomma, la Storia è utile perché ci toglie la nostra presunzione (sciocca, diciamolo pure) di essere i più intelligenti solo perché siamo gli ultimi arrivati sulla Terra. È vero che mandiamo razzi nello spazio e abbiamo a disposizione una medicina avanzatissima, ma è vero anche che ci sono voluti decenni perché riuscissimo a capire la funzione del “Meccanismo di Antikitera”, un orologio astronomico del 100 avanti Cristo.

Inoltre i vari Pericle, Leonida, Cicerone, Giulio Cesare, insieme a molti altri uomini illustri, ci hanno lasciato il loro inestimabile giudizio su molte cose: ad esempio quali siano le caratteristiche di uno Stato giusto e non tirannico, cosa sia il bene comune, di cosa sia l’amicizia, la verità, la vita.

Per cosa valga la pena vivere e, se necessario, morire. Insomma, a tutte le domande che avete, i “grandi” del passato hanno già scritto tutte le risposte. Perché la Storia parla di noi, e come la sua “figlia” archeologia, è identitaria, ci appartiene: impossibile non sentire un legame con gli antichi romani, per esempio, passeggiando per le vie di Roma, o meglio ancora, di Pompei; perché qualsiasi cosa che ha resistito alle ingiurie del tempo per anni e anni ha il potere di far uscire la Storia dai libri e farla vivere.

Tutto questo ce l’abbiamo in Italia: un territorio che ha aggregato a sé tutto il mondo conosciuto grazie all’Impero Romano e, dopo il suo crollo, è rimasto “una pura espressione geografica” per più di mille anni.

Ma la sua riunificazione ha in qualche modo “tradito” le aspettative, perché attuata dalle élite a dispetto delle grandi masse. Scriveva nientemeno che il grande Dostoevskij, nel suo “Diario di uno scrittore”: “L’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia.

Ma guardate più addentro e che cosa vedete? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano.

La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa ha ottenuto al suo posto? (…) è sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa assolutamente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti e soprattutto soddisfatto di essere un regno di second’ordine. Ecco la creazione del conte di Cavour”.

Insomma, un triste destino per un Paese che, pur essendo “a pezzi”, era stato per secoli “leader” di arte e cultura. Se l’Italia vuole rinascere dovrà assolutamente recuperare con orgoglio il proprio passato.

 

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