Storia, verità e (vera) libertà a proposito

Storia, verità e (vera) libertà a proposito

QUINDI USARE FRASI COME “IL GREEN PASS RENDE LIBERI” (E VARIAZIONI SUL TEMA) È UNA ESAGERAZIONE UGUALE E OPPOSTA ALLA RETORICA DEL “SIAMO IN GUERRA”

Di Gianmaria Spagnoletti

Negli scorsi giorni è apparso un cartello in un bar, che diceva: “Il green pass rende liberi”. Subito sono scoppiate le polemiche sull’opportunità di questa frase: è giusto paragonare le restrizioni attuali con Auschwitz, la “sintesi” dello sterminio degli ebrei?

La mia risposta breve è: “NO”. Semplicemente perché ritengo che Auschwitz non abbia nessun paragone, né precedente né seguente. È qualcosa che non regge confronti, anche se in seguito ci sono stati altri genocidi, perché mai nessuno Stato come la Germania nazista ha mai organizzato lo sterminio in modo “industriale” come appunto accadeva nei campi di concentramento.

Lo stesso giudizio negativo va alla vignetta apparsa nel 2019 dove Boris Johnson, ritratto in veste di prigioniero, scappava dal cancello del Lager sovrastato dalla scritta “Unione Europea”; inoltre sono ben motivate anche le polemiche sorte ogni volta che la frase “Il lavoro rende liberi” appare su qualche manifesto elettorale. Al netto della scarsa sensibilità di questa scelta, è necessario dare un minimo di spiegazione sulla frase.

“Il lavoro rende liberi” è una frase utilizzata per la prima volta dallo scrittore tedesco Heinrich Beta nel 1845 nella sua opera “Geld und Geist” (“Denaro e spirito”): “Non è la fede che rende beati, non gli scopi egoistici clericali e della nobiltà, ma è il lavoro che rende beati, perché il lavoro rende liberi. […] Questa è la legge generale umana, la condizione di tutta la vita e di tutti gli sforzi, di tutta la buona sorte e di tutta la beatitudine”. La frase quindi nasce in un contesto di etica lavorativa; e per questo fu ripresa nel 1873 dallo scrittore tedesco Lorenz Diefenbach come titolo di un suo racconto, dove i personaggi trovano la propria redenzione attraverso il lavoro.

Il romanzo di Diefenbach fu ristampato nel 1922 dalla lega nazionalista “Deutsche Schulverein” di Vienna, ma non è del tutto chiaro come la frase sia stata conosciuta e adottata all’interno del Partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler. Quel che è certo è che, da allora, la frase ha assunto un significato più cinico, dato che il “lavoro” svolto nel campi di concentramento e la “libertà” finale poteva essere solo quella della morte: infatti si parla di “sterminio attraverso il lavoro”. Ancora una volta riemerge la cinica manipolazione delle parole fatta dai nazisti.

A volte veniva messa sui cancelli anche la scritta “Jedem das Seine” (traduzione del motto latino “Unicuique suum”, “a ciascuno il suo”), che è meno nota, tuttavia suscita ugualmente polemiche.

Che c’entra la Storia del ‘900 con il presente? Anzi, riformulo la domanda: la Storia si ripete?

Per dare una risposta devo andare a ritroso una ventina d’anni e tornare a fine anni ’90. Non era stata ancora istituita la Giornata della Memoria ma, tutto sommato, ex deportati, ex internati e testimoni vari dell’epoca erano ancora piuttosto numerosi e spesso si recavano nelle scuole a raccontare le proprie vicende. La frase chiave di queste testimonianze in prima persona era “perché non accada mai più”. Io stesso ne ho conosciuti diversi personalmente, e l’esortazione era la stessa. Pure Primo Levi scrisse nel suo libro “Se questo è un uomo”: “È accaduto, quindi può accadere di nuovo”, cioè ritenendo possibile una ripetizione di quello che si era verificato, dava per irrinunciabile la necessità di farne memoria.

Arriviamo al 2021, molte “Giornate della Memoria” dopo e infiniti allarmi per il “ritorno del fascismo” dopo, uno degli oggetti di discussione è se lo stato attuale delle cose sia una riedizione delle persecuzioni antisemite. Chi ha fatto un parallelo fra le restrizioni attuali e quelle imposte agli ebrei, tra le altre cose, ha dovuto subire il diniego della Sen. Liliana Segre, salvo poi trovare un appiglio in un brano del “Diario di Anna Frank” che mostra una certa somiglianza tra la situazione del 1942 e quella delle restrizioni antipandemia del 2021. Inoltre c’è anche un video dove una donna di nome Vera Sharav “osa” andare controcorrente, cioè dire che la somiglianza tra i vari divieti imposti durante la pandemia e le discriminazioni antisemite c’è ed è pure evidente.

Intanto, secondo un articolo del “Corriere della Sera”, è rispuntata persino la vecchia accusa rivolta agli ebrei di essere “untori”, oggi non della peste ma del C-19. Fortunatamente è un’idea che non tocca l’Italia, e però circola in Turchia e Iran (leggi qui).

Ma alla fin fine, quei testimoni della Seconda guerra mondiale che andavano a parlare nelle scuole “perché non accadesse mai più” si sbagliavano o avevano ragione? Ugualmente, il presupposto del “fare memoria” dei fatti, è corretto o errato?

A mio parere la Storia non si ripete. O meglio, mai allo stesso modo. Quindi usare frasi come “Il green pass rende liberi” (e variazioni sul tema) è una esagerazione uguale e opposta alla retorica del “siamo in guerra”. Non siamo in guerra, né perseguitati, e quindi è un eccesso di retorica che fa male all’interesse “vero” per la Storia, che serve a guardare al passato per interpretare il presente. Impossibile che gli eventi più grandi si ripetano “in fotocopia”; ma ce ne sono altri minori (la privazione delle libertà personali, la costrizione ad avere un “documento” per non perdere il lavoro, la colpevolizzazione di una parte della popolazione) allarmanti. In questo caso, fare riferimento ai sistemi totalitari è certamente fondato, anzi dovrebbe fare da “sveglia” perché queste sono “spie” di un cambiamento negativo della società che potrebbe preludere a qualcosa di ben peggiore. Non si studia Storia per avere ragione in una discussione, ma per cercare la verità: non “il lavoro rende liberi”, ma “la verità vi farà liberi”.

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