Pier Paolo Pasolini e il “genocidio” delle classi subalterne

Pier Paolo Pasolini e il “genocidio” delle classi subalterne

di Andrea Rossi

RECENSIONE DEL SAGGIO DEDICATO DA ANTONIO CATALFAMO A PIER PAOLO PASOLINI (1922-1975), INTELLETTUALE DISCUTIBILE MA SENZ’ALTRO SCOMODO, SOPRATTUTTO PER LA SINISTRA. UNO SCRITTORE, INOLTRE, PER ALCUNI VERSI “PROFETICO” CIRCA LE DINAMICHE CULTURALI, POLITICHE ED ECONOMICHE CHE VEDIAMO ANCHE NELL’ITALIA DI OGGI

Se fosse possibile condensare in poche parole il lavoro di Antonio Catalfamo dedicato al poeta, regista e scrittore Pierpaolo Pasolini (Pasolini “eretico solitario” e la lezione inascoltata di Gramsci, Edizioni Solfanelli, Chieti 2021, pp. 232), occorrerebbe utilizzare quelle che troviamo a p. 129 del suo eccellente studio: «il grande merito di Pasolini è stato quello di aver denunciato a fondo, come nessun altro intellettuale o soggetto politico ha fatto in Italia, gli effetti nefasti della società capitalistica matura, dal punto di vista economico-sociale e antropologico, primo fra tutti il “genocidio” delle classi subalterne e della loro autonomia culturale».

Questo snodo, su cui ci eravamo soffermati già in passato su questa testata, è il canovaccio su cui si svolgono le considerazioni dell’Autore attorno alla biografia e alla produzione letteraria, cinematografica, critica di Pasolini. Parliamo di un intellettuale scomodo fin dalle sue prime opere, fra le quali Catalfamo giustamente segnala il precoce Il sogno di una cosa (1949), nel quale le delusioni dei giovani emigranti dal Friuli, terra di adozione della famiglia Pasolini fin dagli anni Quaranta, sono narrate mettendo sullo stesso piano sia chi tornò povero dalla Svizzera, sia chi tornò ancora più miserevole e deluso dalla Jugoslavia di Tito e del socialismo reale.

Da questa ambivalenza (l’ammirazione per gli ideali comunisti e assieme la costante delusione per il loro tradimento) discende tutto il disegno della filologia pasoliniana nei decenni successivi: dai borgatari romani (violenti, beceri e umanissimi) esclusi dal boom economico del 1958-63 alle classi borghesi senza valori se non quelli relativi al misero tornaconto personale, per finire con i giovani corteggiati dalla sinistra marxista, per i quali Pasolini prova un misto di speranze e di delusioni, specie per il modo in cui la cosiddetta “contestazione” del 1968 si risolveva nella loro entrata all’interno della società dei consumi, onnivora e apparentemente onnipotente.

Il filosofo e politico marxista Antonio Gramsci (1981-1937) costituiva ai suoi occhi la rappresentazione estrema di questa contraddizione, descritta nel poema, appunto intitolato “Le ceneri di Gramsci”. Qui la tomba di chi fu il difensore degli ideali comunisti durante la dittatura mussoliniana si trova paradossalmente situata al centro del cimitero acattolico di Roma, all’ombra dei sontuosi monumenti sepolcrali di famiglie nobili inglesi o statunitensi.

Non meno efficace il Pasolini regista, nel rappresentare le contraddizioni di un Paese tanto veloce nel progredire economico, quanto rapido a distruggere convenzioni secolari (non solo religiose, ma anche sociali e culturali) in nome di uno sviluppo che era solo affaristico e non valoriale. Anche qui “l’eresia” dell’intellettuale rispetto all’ideologia del Partito Comunista Italiano (PCI) creò non pochi problemi nei rapporti con la sua area culturale di appartenenza, e non solo. I film “Accattone” (1961) o “Mamma Roma” (1962) vennero criticati dal PCI che vedeva sminuita la propria opera di redenzione e rappresentanza delle classi meno abbienti.

Allo stesso tempo il film breve “La ricotta” (1962), con la tragica e assieme grottesca messa in scena della morte in croce di una miserevole comparsa di Cinecittà, ebbe critiche ingiuste da una parte del mondo cattolico, forse incapace di comprendere il contenuto morale dell’opera, che raffigurava la parabola del povero che muore per indigestione al banchetto dei ricchi, proprio perché abituato al digiuno.

Diverso fu il destino de “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), ancora oggi considerato un capolavoro del cinema mondiale, grazie anche alla preziosa consulenza fornita da don Francesco Angelicchio (1921-2009), primo sacerdote italiano dell’Opus Dei. Purtroppo, il cupo divenire del Paese a cavallo fra gli anni 1960-70 si riverbera nella successiva produzione fino al truce affresco di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975), rappresentazione dei Poteri forti economici e politici che usano come oggetti per le proprie sadiche perversioni le generazioni più giovani.

Il volume di Catalfamo si chiude con la produzione giornalistica di Pasolini, che fu intellettuale critico e, purtroppo, spesso solitario e inascoltato, nonostante alcuni temi da lui trattati, già negli anni Sessanta, fossero profetici, come la strapotenza delle multinazionali e l’influenza dei media nell’abbassamento della cultura del popolo.

Le conclusioni del saggio sono assai condivisibili: solo oggi comprendiamo il senso dell’espressione “genocidio culturale”, che mezzo secolo fa appariva incomprensibile ai più. Si trattava della triste constatazione della fine di un mondo rurale e plebeo, forse povero ma ricco di buon senso e di valori umani, per sempre sostituito da quei valori “liquidi” incentrati sull’egoismo de “l’io al centro di tutto” nel quale oggi, purtroppo, ci troviamo totalmente immersi.

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