Felicità, beatitudine e movimento si identificano e si sostengono

Felicità, beatitudine e movimento si identificano e si sostengono

UNA CHIAVE DI LETTURA DIVERSA DELLE BEATITUDINI

Di Giuliva Di Berardino

Quando parliamo di beatitudine, in generale, pensiamo a uno stato di vita contemplativo, o comunque a un tipo di felicità che si qualifica attraverso una presa di distanza dalle questioni umane. In effetti, da un punto di vista filosofico, la beatitudine, a differenza della felicità, ha designato prevalentemente uno stato di vita contemplativo. San Tommaso, in particolare, ammette l’esistenza di due tipi di beatitudine: una oggettiva, per la quale l’uomo, come essere razionale e libero, intuisce un fine ultimo, che è Dio, e l’altro tipo di beatitudine, che potremmo definire soggettiva, e che non è altro che quell’atto con cui l’individuo entra in possesso della beatitudine oggettiva.

Ma…che cos’è la beatitudine? Uno stato che dobbiamo raggiungere con grande impegno, una situazione riservata a pochi eletti, una speranza che ci apre al futuro, una gioia che costruisce la memoria?…e perché Gesù parla di beatitudine? perché non proclama sè stesso beato, sua madre, i suoi cari, quando quella donna anonima esordisce nel mezo della folla: “beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato”? Perché Gesù afferma che i beati siamo noi, che ascoltiamo la sua Parola e la mettiamo in pratica, e non Lui?

Nel Vangelo spesso troviamo l’idea di beatitudine, addirittura Gesù, secondo il Vangeli sinottici, in particolare i vangeli di Matteo e di Luca, pronuncia un discorso che si presenta come un elenco di otto beatitudini, anche se possiamo notare che in tutto il Vangelo le beatitudini sono molto più di otto. Luca ad esempio indirizza la prima beatitudine a Maria, attraverso le parole di Elisabetta: “Beata colei che ha creduto”.

Il confronto dei due testi rivela diverse varianti: Matteo dà maggior risalto all’aspetto spirituale della povertà, Luca invece evidenzia quello materiale; Matteo insiste sulle condizioni per entrare nel regno dei cieli, Luca ha invece il senso dell’attesa imminente del regno dei cieli; Luca accompagna le beatitudini con altrettante maledizioni, ciò che invece non avviene in Matteo. Questi espone otto beatitudini, Luca invece solo quattro. In entrambi gli evangelisti però esse rappresentano la dichiarazione ufficiale del regno dei cieli e questa scoperta di un mondo nuovo, nel quale tutti i valori sono capovolti, dà loro il tono di un grido di gioia. A differenza dei principi su cui si basava il mondo ellenistico-romano, tutto volto ai valori terreni e presenti, le beatitudini hanno un netto accento escatologico e sono tutte rivolte al regno di Dio veniente. Le esclamazioni con cui nel «discorso della montagna» (non identificata con sicurezza, e tradizionalmente designata come monte delle beatitudini) Gesù proclama beati, promettendo loro il Regno dei Cieli, i poveri, quelli che piangono, gli umili, gli affamati e assetati, ecc. e poiché vengono qualificati con parola derivata dal gr. μακάριος «beato», sono anche dette tecnicamente macarismi.

Makàrios, l’aggettivo greco che noi traduciamo “beato”, è un termine che nasce nelle antiche letterature greche, presente fin dagli antichi testi di mitologia. La makarìa era la felicità esclusiva degli dei, uno stato che gli uomini non potevano conoscere perché troppo presi dalle preoccupazioni umane: lavoro, angosce, fatiche…ma soprattutto la morte. Per questo gli esseri umani, secondo la mentalità greca antica, non possono essere felici come gli dei, non possono raggiungere la beatitudine perché sono esseri mortali, mentre gli dei, pur avendo le caratteristiche umane sia positive che negative, sono beati perché immortali.

Etimologicamente makàrios deriva dalla radice mak – connessa con makròs “lungo”, e mègas, “ampio” – e dal sostantivo chàris, che vuol dire “favore, cura amorevole”, a sua volta connesso alla base accadica magaru, che riprende il concetto di “accordare favori”. Quindi, secondo un’interpretazione letterale del termine, il senso del makàrioi del Nuovo Testamento potrebbe essere tradotto così: “felici, ma soprattutto fortunati, favoriti perché curati con le cure di Dio”. Nella Settanta – la traduzione in lingua greca dell’Antico Testamento – la parola makàrios compare 68 volte, nel Vangelo 50 volte, e indica felicità, beatitudine piena e insuperabile, indica uno stato di shalòm, di integrità.

Se però volessimo andare più a fondo per comprendere pienamente in cosa consista però questo stato di beatitudine piena nel Vangelo, ci accorgeremo presto che nel caso della beatitudine siamo di fronte a un fenomeno anche linguistico e lessicale molto particolare, perché il greco del Nuovo Testamento ci richiede di considerare il contesto originario non tanto della lingua in sé, ma del senso profondo che attraverso quel termine si desidera veicolare. In altre parole più semplici dobbiamo tener sempre presente che anche questa semplice parola greca che è stata spiegata nella sua etimologia greca, poiché è inserita nel Nuovo Testamento da autori che risentono del contesto culturale ebraico orientale, si porta dentro il senso ebraico-biblico che possiamo riferire all’ ebraico ashrè.

A questo punto emerge dal senso linguistico un senso più profondo, perché ci si rende contro che, se il greco antico aveva una felicità propria degli dèi, la macharìa e una degli esseri umani la olbia, l’ebraico ashrè appare come unica felicità possibile, in quanto in tutta la Bibbia ashrè è il solo termine utilizzato per indicare lo stato di beatitudine e ricorre 45 volte nel Testo Masoretico, cioè il testo ebraico. Di queste 45 volte viene applicato per due categorie diverse di persone: chi vive nell’integrità, e che quindi osserva la Torah e si fa guidare dai comandamenti di Dio, e chi cerca un rapporto intimo e amante con la Sapienza, che è alla base di ogni giustizia divina rivelata nella Torah.

Nella Bibbia il libro che presenta più beatitudini è il libro dei Salmi, un libro particolare, che non sviluppa una storia o più storie, ma raccoglie le preghiere, le suppliche, le speranze, potremmo dire le parole del dialogo tra gli uomini e Dio. Studiando l’impiego del termine ashrè nei Salmi, si capisce una situazione molto intressante: quando le proclamazioni di beatitudine non si riferiscono a una condizione, a una situazione contingente, ma a un augurio per una situazione futura, le beatitudini hanno sempre il valore di benedizione.

Se dedichiamo un pò di tempo, infatti, a leggere il Salmo 128, ci accorgiamo poi di una verità ancora più profonda, perché questo salmo spiega in modo semplice che la beatitudine non è altro che la conseguenza di una benedizione. E’ proprio quello che leggiamo nel testo già citato del vangelo secondo Luca, in cui Elisabetta prima benedice e poi proclama Maria, donna beata perché ha creduto. Troviamo prima la benedizione e poi la beatitudine. Ecco allora il motivo per cui Gesù ci chiama beati, perché ci ha fatti partecipare della benedizione filiale che Lui ci ottiene dal Padre.

Se continuiamo ad approfondire con lo studio l’etimologia di ashrè, troviamo che il plurale costrutto di ashré, cioè èsher, che noi traduciamo col termine “Beatitudini”, significa pienezza totale di benessere che si identifica nel movimento. La parola èsher infatti è un esortativo che indica “in movimento, in cammino, in avanti, muoversi, alzarsi” e viene dalla radice ’shr, “camminare” –, per cui felicità, beatitudine, movimento si identificano e si sostengono. Questa interpretazione giudaica delle Beatitudini ci offre una chiave di lettura diversa delle Beatitudini che Gesù ci insegna, secondo l’immagine che ce ne offre Matteo, descrivendoci Gesù seduto sulla montagna ad insegnare, come Mosè, il grende maestro e legislatore del popolo ebraico. Luca invece inserisce il discorso delle Beatitudini in pianura, a dire che l’insegnamento di Gesù è per tutti. In ogni modo l’elenco delle otto beatitudini che ci offre il Vangelo potrebbero essere anche tradotte come ho letto una volta in una Bibbia francese: “en marche”, a dire “và avanti, cammina!” E’ felice chi trova il modo per andare avanti, chi non si adagia nelle situazioni di sconfitta e di morte, questo ci insegna Gesù. Ne troviamo conferma nell’unica beatitudine che troviamo nel Vangelo secondo Giovanni.

Leggiamo il testo: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, affinché come io ho fatto a voi, anche voi facciate. Amen amen vi dico: non c’è servo più grande del suo padrone, né un inviato più grande di chi lo ha inviato. Se capite queste cose, siete beati se le fate.” (Gv 13,14-17).

La beatitudine che Gesù ci consegna è quella del servizio, perché mettersi in movimento per servire, cercare di far star bene un altro è il modo di vivere che ci rende profondamente felici. Gesù, proprio in prossimità della sua Passione dolorosa, insegna ai suoi amici e a tutti noi come camminare, come mettersi in moto per percorresse la via della beatitudine. L’evangelista Giovanni in questo testo, quindi, ci mostra la via del servizio come via della beatitudine piena, una beatitudine che si manifesta nella pienezza di gioia. I due verbi indicati in questi pochi ma intensi versetti, Chàirete e agalliàsthe – nella forma imperativa che designa la necessità, quasi il dovere imprescindibile di vivere tali stati d’animo – esprimono due accezioni di gioia complementari.

La radice di chàirein è char, con valore appunto di “desiderare, amare, aver piacere”, vocabolo che nel Nuovo Testamento e compare 75 volte. Agalliào/agàllomai invece significa “sono pieno di gioia, sono felice, esulto, giubilo, mi rallegro”, ma anche “godo di, mi atteggio a sovrano, a principe”, etimologicamente formato dall’unione di àgan, “molto”, con il verbo àllestai, “saltare”. Questo verbo esprime quindi una gioia così piena che costringe la persona che la vive a saltare.

Le Beatitudini garantiscono all’uomo una gioia tale, così piena e potente da costringerla letteralmente a saltare di gioia. Del resto la stessa parola vangelo indica il lieto annuncio, il libro della gioia, perciò se questo annuncio non riesce a farci saltare di gioia nella vita, significa che dobbiamo andare più in profondità per capire davvero le parole di Gesù, il suo insegnamento. Le parole di Gesù ci mostrano che la beatitudine, la gioia, l’esultanza sono lo stato connaturale dell’uomo, l’essenza stessa della vita, la sostanza di cui è composto l’essere umano. Dal modo in cui Gesù rivela le Beatitudini all’umanità, si intuisce chiaramente che lui, in questo momento, non sta solo elencando, enumerando delle verità, ma sta rivelando ciò che sta contemplando nel suo cuore e nel suo sguardo interiore.

Lo sguardo interiore di Gesù, il cuore stesso di Gesù è costantemente fisso sulle Beatitudini, perché le Beatitudini sono il modo in cui Dio ama, il modo in cui l’amore di Dio si realizza. Nelle Beatitudini Gesù rivela che in Dio nulla è senza gioia, che dove c’è Dio c’è gioia e dove c’è gioia c’è Dio. Le Beatitudini allora sono il fondamento della motivazione di un credente, perché non ci portano a uno stato di passività e di impassibilità, ma perché ci mettono in cammino verso la nostra piena realizzazione, facendoci avanzare nel possesso della gioia eterna già da oggi, quì sulla terra.

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica le Beatitudini sono trattate nella prima sezione della terza parte del Catechismo intitolata “La vita in Cristo”. Questa prima sezione si occupa della vocazione dell’uomo per cui, dopo aver trattato la vita nello Spirito e la dignità della persona umana, si passa a leggere i numeri 1716-1723 che approfondiscono la nostra vocazione della Beatitudine, affermando che tutti gli esseri umani tendono e ricercano la beatitudine.

Leggiamo insieme il n° 1719: “Le beatitudini svelano la mèta dell’esistenza umana, il fine ultimo cui tendono le azioni umane: Dio ci chiama alla sua beatitudine. Tale vocazione è rivolta a ciascuno personalmente, ma anche all’insieme della Chiesa, popolo nuovo di coloro che hanno accolto la Promessa e vivono nella fede di essa.”

Comprendiamo allora che beatitudine è la nostra stessa ricerca, è imparare sempre, ogni giorno, a cercare Dio in ogni realtà che viviamo, finché non ci accorgiamo che il nostro cuore è dilatato dalla gioia dell’amore di Dio. Portiamo nel cuore, per concludere questa riflessione che vi condivido, le parole di Sant’Agostino, perché ci aiutino ad accogliere la beatitudine che siamo chiamati a essere per gli altri: “Come ti cerco, dunque, Signore? Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità. Ti cercherò perché l’anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te ” (Conf.20).

 

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