Il fico sterile: il Cristianesimo “ateo” e il Cristianesimo “ideologico”
RIFLETTIAMO SU DUE COSE ESISTENZIALI E FONDAMENTALI: L’ESSERE STERILI IN RELAZIONE AL TEMPO E IN RELAZIONE AL FRUTTO
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Di Pierluigi Pavone
Sia Marco (Mc 11,12-21) sia Matteo (Mt 21, 18-20) riportano l’episodio del fico sterile e, per questo, maledetto direttamente da Gesù.
Il fico è sterile, ma non secco. Cioè quando Cristo lo vede, nel tragitto da Bètania a Gerusalemme, è vivo, ha linfa, rigoglioso, pieno di foglie. Da sterile diventa secco, perché Gesù lo maledice, non trovandovi frutti. Matteo insiste sull’effetto della maledizione di Gesù, sul produrre i frutti (non nasca mai più frutto da te): potremmo dire, dalla prospettiva dell’albero; Marco esplicita invece il non poter mangiare i frutti (nessuno possa mangiare i tuoi frutti): dalla prospettiva del frutto, quindi, e di chi ne può o dovrebbe fruire. In più, in Marco, la pretesa di Cristo sembra paradossale, avendo chiarito che non era periodo (non era infatti quella la stagione dei fichi). Cristo sembra cercare un frutto, in contraddizione con la natura dell’albero. La Sua fame diventa il criterio.
Ma questo fa riflettere su due cose esistenziali e fondamentali: l’essere sterili in relazione al tempo e in relazione al frutto.
In relazione al tempo, la “stagione della morte” è infatti, generalmente la vecchiaia. E questo potrebbe determinare un certo rimando nella conversione, un rimando illimitato della confessione, una astratta speranza di avere un’ultima possibilità… sfidando Dio. Il cristiano invece è chiamato a vivere, non sapendo né il giorno né l’ora, in uno stato di Grazia, affinché il Giudizio possa essere secondo Misericordia e per il Paradiso. Il fico sterile subisce, per volontà divina, il Giudizio nel momento non opportuno né favorevole. E viene maledetto, similmente a coloro che morendo il peccato mortale – perché non hanno posto i mezzi efficaci, non hanno “vigilato” sulla propria anima e sulle occasione di peccato – saranno giudicati colpevoli dell’inferno eterno.
La seconda questione riguarda l’essere sterili in relazione al frutto. Questo è il pericolo dell’ideologia cristiana. O meglio, del cristianesimo trasformato in ideologia. Nel primo caso, il cristiano pecca di superficialità e indifferentismo: la sua fede non ha opere né sostanza, né magistero; egli si ricopre di foglie che non lasciano forse neppure intuire di essere cristiani, non si accosta ai Sacramenti, tende al paganesimo, al sincretismo o ad una forma di ateismo-pratico. Vive secondo il mondo e la sua mentalità. È un albero del mondo. Non ama nessuno, se non relativisticamente e utilitaristicamente, in relazione a se stesso. Il suo è un cristianesimo forse etico, solidale, filantropico. Ma di fatto, “ateo”.
Nel secondo caso, al contrario, abbiamo un cristiano dalle foglie verdi e rigogliose. Un albero giovane e forte, pieno di vigore e forza. È un cristiano fedele, perseverante, dottrinalmente ineccepibile. Più papista del Papa e più cattolico di molti teologi. Conosce morale e liturgia, Scritture e storia della Chiesa. Vive in opposizione militante allo spirito del mondo. Se potesse vivrebbe fuori da ogni tipo di legame mondano: sociale, scolastico, economico. Potrebbe aprire anche ad uno stile nostalgico-rurale. Tuttavia manca di carità. Manca di frutti. È sterile, perché, pur appartenendo coscientemente alla Chiesa, ha trasformato la sua fede in una adesione dottrinale fine a se stessa, razionalistica e priva di pietà. La sua perseveranza è diventata superbia; le sue opere “cristiane” hanno il sapore di un perfetto fariseismo cattolico; la sua partecipazione al rito è scaduta in una esposizione vanagloriosa di merletti d’altri tempi e cravattini vintage; le sue conoscenze sono state pervertite in uno snobismo culturale e spirituale, funzionale solo a legittimare – quasi da neo-manicheo – una distinzione di classe tra se stesso e i suoi da un lato e, dall’altro la massa ingenua e profana. Il suo Cristianesimo è una sterile ideologia che non salva nessuno e non ama nessuno.
È interessante che la foglia di fico compia anche nella Genesi, a coprire inutilmente la nudità di Adamo ed Eva. Il loro peccato, per quanto avrebbe determinato la morte e avuto conseguenze sulla materia, non riguardava però il corpo, quanto l’anima. A nulla servì il coprirsi. Dio vide nel cuore e maledì l’uomo, cacciandolo dall’Eden, perché aveva preteso il frutto di morte: l’essere come Dio, contro Dio stesso.
La prima forma di sterilità – quella legata al tempo – offre il pericolo di subire il Giudizio in stato di peccato mortale. Cristo non ci riconoscerà perché non abbiamo vegliato (Mt 25, 1-13). La seconda forma di sterilità – quella legata ai frutti – offre il pericolo di medesima condanna nella destinazione finale, con simile eco: “non so di dove siete” (Lc 13, 10-33), come di chi veglia, eppure senza amare e senza neppure vedere il prossimo.