La “comunicazione educativa”, una dinamica antropologica e metafisica essenziale
IL TEMA DELLA COMUNICAZIONE, NEGLI ULTIMI DECENNI, È ENTRATO A PIENO TITOLO NEI PROCESSI EDUCATIVI E SCOLASTICI. PER EVITARE DI FOCALIZZARSI ESCLUSIVAMENTE SUL “CONTENITORE” E NON SUL “CONTENUTO”, SAREBBE IMPORTANTE PERÒ CONSIDERARE ANCHE IL CONTRIBUTO DI QUELLA PEDAGOGIA CHE VALORIZZI LE DINAMICHE DELLA “COMUNICAZIONE EDUCATIVA” IN QUANTO DIMENSIONE ANTROPOLOGICA E METAFISICA ESSENZIALE. CIÒ AL FINE DI SUPERARE L’ESCLUSIVO RIFERIMENTO ALLA LOGICA NEL RAPPORTO EDUCAZIONE/COMUNICAZIONE
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Di Sara Deodati
Il tema della comunicazione, in quanto fattore essenziale per umanizzare la vita individuale e collettiva, è oggi al centro dello studio di varie discipline sociali. Fra queste anche la pedagogia, in quanto l’insegnamento rappresenta una forma di comunicazione caratterizzata dalla intenzionalità formativa e si presenta, sotto questa prospettiva, come un agire educativo.
Diciamo subito che, ogni vero educatore, come ragione specifica della sua attività, dovrebbe comunicare «in un modo particolare che è ben diverso da quello dell’informatore o del comunicatore pubblico» (F. A. Masota-C. Naval, Filosofia dell’educazione, Editore La Scuola, Brescia 2004, p. 45).
Il termine comunicazione designa in effetti l’azione del verbo “comunicare”, che si identifica con numerose e diversificate attività quali manifestare, conservare, trasmettere, consultare e propagare. Nell’ambito pedagogico, il riferimento essenziale è quello della manifestazione, in quanto la comunicazione mira a rendere l’altro partecipe di ciò che si ha. Da questo punto di vista è possibile rilevare il carattere derivato o secondario dell’informazione oggetto dell’azione comunicativa, in quanto si può essere partecipi di essa, ma anche ignorarla del tutto. Nel linguaggio corrente, invece, la concezione più diffusa della comunicazione è quella dello scambio di informazioni. Pur non essendo falsa, si tratta di una definizione riduttiva e incompleta, innanzitutto perché non permette di rispondere a interrogativi decisivi per la comprensione della dinamica comunicativa quali, ad esempio: “l’abbondanza dell’informazione genera una migliore o peggiore efficacia comunicativa?”, oppure “qual è il principale agente operante nell’attività comunicativa, colui che comunica o il destinatario della comunicazione?” e, infine, “sono più importanti gli aspetti materiali o quelli formali della comunicazione?”.
Il pedagogista spagnolo Emilio Redondo (1928-2007) ha per questo motivo individuato il nucleo essenziale dell’attività comunicativa nel concetto di partecipazione, piuttosto che in quello di scambio. Ha definito quindi la comunicazione come la «relazione reale stabilita tra due – o più – esseri, in virtù della quale uno di essi partecipa degli altri o entrambi partecipano tra loro; oppure: relazione reale stabilita tra due esseri in virtù della quale si pongono in contatto, e uno di loro – o entrambi – donano qualcosa all’altro» (Educación y comunicación, Ariel, Barcelona 1999, p. 178). In questo modo, secondo lo studioso, non è possibile definire in termini pedagogici il concetto di comunicazione senza rifarsi a quello di partecipazione, che «esprime l’estensione di qualcosa all’altro, e che è il costitutivo essenziale della comunicazione» (ibidem).
Partecipare è dunque in primo luogo un prendere parte a qualcosa che qualcuno già possiede, caratterizzandosi pertanto come un possesso condiviso, effetto diretto di una donazione, quale azione di un soggetto che dà qualcosa a qualcuno. Se non si desse tale donazione, non ci sarebbe una comunicazione, bensì una comunità.
In secondo luogo, per potersi avere in senso proprio partecipazione è necessario che la donazione non comporti una perdita da parte di alcuno. Non si può affermare infatti che ogni donazione sia, per ciò stesso, una comunicazione, ma quest’ultima si avrà soltanto nel caso in cui non provochi un impoverimento nel donante. La specificità della comunicazione, di conseguenza, consiste nel dare senza impoverirsi.
Il dare senza impoverirsi qualifica la condizione pienamente umana dell’azione della partecipazione, in quanto soltanto un essere spirituale è in grado di partecipare qualcosa di sé. Della realtà materiale, invece, non si può avere condivisione senza che ciò comporti necessariamente una perdita. Se ne potrà, al massimo, alternare l’uso o il possesso, «ma non è possibile possederla in comune e simultaneamente: se si tratta di qualcosa di strettamente materiale, ciò che qualcuno possiede manca ad un altro» (F. A. Masota-C. Naval, Filosofia dell’educazione, op. cit., p. 47).
Per introdurre il tema della comunicazione educativa occorre un previo chiarimento, relativo ad un termine tecnico utilizzato in pedagogia, relativo alla formalità educativa. Con quest’ultimo concetto si esprime infatti quella modalità che fornisce alla comunicazione alcune caratteristiche particolari, che servono a distinguerla da altre forme di relazione. Se prendiamo ad esempio le modalità tipiche di comunicazione dei mass-media o di altri mezzi di trasmissione come internet od i social network, troviamo che sono prive di una qualsivoglia intenzionalità educativa, sebbene dal loro utilizzo possano talvolta scaturire, quali conseguenze fortuite, degli effetti formativi.
Da questo punto di vista osserviamo che tutte le forme di comunicazione si dirigono a gruppi umani ma, dal punto di vista della loro qualificazione pedagogica, non rilevano né il numero né la qualità dei ricettori della comunicazione e né le condizioni del canale comunicativo e, per questo, si può parlare di comunicazione educativa solo con riferimento all’indole dell’azione comunicativa, traducibile essenzialmente nel concetto di partecipazione. La sintesi di unità e dualità che tale partecipazione suppone costituisce il fondamento di una caratteristica essenziale della comunicazione educativa, vale a dire la sua dimensione metafisica e antropologica. Rendere qualcuno partecipe di qualcosa, infatti, determina una “sintesi” fra unità e dualità, dando luogo a un’espressione apparentemente contradditoria ma che è al contrario realmente una caratterizzazione della comunicabilità, nel senso di relazione costitutiva e dell’apertura trascendentale dell’uomo in virtù del suo essere partecipato.
L’educazione non diviene realtà laddove non si compia come espressione unitaria della relazione tra educatore e “soggetto in formazione”: «è di fatto la loro unità/unitarietà, non la loro semplice somma, a costituire la realtà, il senso e il valore concreti del percorso educativo» (G. Chiosso, Elementi di pedagogia, La Scuola, Brescia 2002, p. 82). Si tratta della stessa unicità che definisce l’evento educativo «in quanto espressione di una formazione che realizza il prendere forma di un essere unico e irripetibile perché soggetto di senso umano» (ibidem).
Da quest’ultima prospettiva, quindi, l’azione comunicativa emerge come una dimensione irrinunciabile della stessa esistenza umana. Le singole persone o interi sistemi sociali, infatti, possono ricevere degli stimoli, per una maggiore umanizzazione e cooperazione vicendevole, da significative forme comunicative.
Il punto di vista antropologico della comunicazione è stato messo in risalto da alcuni pensatori contemporanei appartenenti a diverse matrici filosofiche. Si possono citare, fra gli altri, Max Scheler (1874-1928), Karl Jaspers (1883-1969), Gabriel Marcel (1889-1973) e Karol Wojtyla (1920-2005).
Dai loro scritti si ricavano significativi apporti a quella che è stata definita l’antropologia dinamica, cioè uno studio e una riflessione sull’essere umano, considerato più dal punto di vista del suo agire etico che da quello della sua essenza metafisica. Dal punto di vista della comunicazione umana, in effetti, l’educazione è percepibile come una dimensione antropologica essenziale. Come ha affermato Robert Spaemann (1927-2018) il linguaggio, i pensieri e i sentimenti si sviluppano soltanto nella comunicazione e, la ricchezza della realtà, si rivela soltanto attraverso il linguaggio che unisce gli uni agli altri.
La relazione tra la comunicazione con gli altri – fatto radicale dell’esistenza umana – e l’educazione non è una coincidenza occasionale tra due ordini dell’agire umano bensì il vincolo essenziale tra l’essere, il sapere e il fare dell’essere umano. Solo l’uomo può operare in riferimento agli altri, ed è per mezzo della comunicazione, specialmente mediante il linguaggio, come ricorda Spaemann, che si scopre la realtà. Studiare la comunicazione educativa non significa pertanto riferirsi solo ad un aspetto importante dell’educazione bensì prenderla in considerazione da una radicale prospettiva antropologica.
Eccoci quindi all’ulteriore elemento, l’affettività, attraverso la quale non solo si conosce la realtà oggettivamente, ma se ne percepisce il “significato per sé”, ovvero il valore di quanto è conosciuto per la propria soggettività. Rilevano in proposito i filosofi dell’educazione Francisco Altarejos Masota e Concepción Naval: «percepisco gli affetti e i sentimenti dell’altro – quando lo considero e mi si mostra come un tu – attraverso i miei sentimenti e i miei affetti; e percepisco, pertanto, le sue valutazioni della realtà e di me stesso. Per quanto confusa possa essere tale percezione, non si può prescindere da essa nel contatto con un’altra soggettività. La conoscenza affettiva o per connaturalità si realizza solo attraverso la presenza; e solo con questa conoscenza si possono aprire le porte alla comunicazione soggettiva o esistenziale» (F. A. Masota-C. Naval, Filosofia dell’educazione, op. cit., p. 50).
All’intervento fondamentale dell’affettività è associato un altro elemento costitutivo della relazione, che potrebbe definirsi “compresenza”, nel senso di presenza dell’uno all’altro. La partecipazione affettiva, infatti, risente di ogni tipo di mediazione oggettiva, che produce come effetto quello di alienare (almeno in parte) il rapporto autentico con l’altro. Facciamo l’esempio dell’immagine filmica che, pur caratterizzata da una “mediazione debole”, priva comunque della presenza fisica e del contatto diretto gli interlocutori e, pertanto, non favorisce la percezione dei gesti e le inflessioni vocali che modulano l’espressione dell’affettività, senza la quale la comunicazione soggettiva non si può realizzare. Ma la comunicazione della soggettività, afferma Emilio Redondo, nel senso di rendere partecipe un altro non solo delle proprie idee o delle proprie emozioni ma del proprio io, porta con sé, tra l’altro, l’esigenza di avere come referente un’altra soggettività: solo essa, in quanto tale, può accogliere e riconoscere. Inoltre, in questa accoglienza e riconoscimento da parte dell’altro ognuno si scopre come un io, ed è proprio nell’affermazione dell’altro che si radica la propria autoaffermazione.
Ritorniamo dunque alla reciprocità, dimensione essenziale della comunicabilità che, afferma il filosofo spagnolo Antonio Millán-Puelles (1921-2005), «è il vissuto di una comunità che si esplicita nell’esperienza di sentirmi giustamente riconosciuto da un essere come me» (La estructura de la subjetividad, Rialp, Madrid 1967, p. 363).
In conclusione, possiamo affermare come le varie forme di comunicazione di cui si è finora detto siano proprie e costitutive della comunicazione educativa. Entrambe sono infatti presenti, non simultaneamente ma successivamente, nella relazione interpersonale che dà luogo all’intenzionalità formativa.
La forma oggettiva è richiesta dalla stessa finalità dell’insegnamento che, considerato in sé stesso, consiste nel comunicare un sapere oggettivo, rendendo l’allievo partecipe della conoscenza del docente. Qualora non si ottenga questa partecipazione al sapere oggettivo, l’insegnamento si configura semplicemente come inutile. E se non c’è insegnamento ne consegue, logicamente, che non può esserci educazione. Con tutte le conseguenze del caso in ordine alla solidità e al futuro stesso delle società organizzate.