L’importanza della “psicologia del carattere” nel campo etico e pedagogico
GLI STUDI PSICOLOGICI SUL CARATTERE SONO SORTI IN EUROPA E NEGLI STATI UNITI ALL’INIZIO DEL XX SECOLO. CON LA RIMESSA IN DISCUSSIONE DI TUTTO ALLA FINE DEGLI ANNI SESSANTA SONO STATI PERÒ IN GRAN PARTE ACCANTONATI PREFERENDO FISSARE L’ATTENZIONE, DA PARTE DEGLI AMBIENTI DELLA PSICOLOGIA E DELLA PSICHIATRIA PIÙ ACCREDITATI, SUL CONCETTO DI “PERSONALITÀ” E, CON CIÒ, FAVORENDO FONDAMENTALMENTE LA DERESPONSABILIZZAZIONE DELL’INDIVIDUO
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Di Sara Deodati
Gli studi sul carattere (o caratterologici) sono sorti in Europa e negli Stati Uniti all’inizio del Novecento. Con la rimessa in discussione di tutto negli anni Sessanta, però, sono stati in gran parte accantonanti preferendo focalizzare l’attenzione, da parte della più accreditata riflessione psicologica e psichiatrica, sul concetto di “personalità”.
Prima di analizzarne contenuti ed esiti, occorre ricordare come la psicologia contemporanea, a seconda di come studia il vissuto umano, sia generalmente suddivisa in quattro ambiti.
Il primo è la psicologia generale, che studia il vissuto dell’uomo normale, senza occuparsi pertanto né della patologia della psiche (es. nevrosi e psicosi) né delle sue varie fasi di sviluppo.
Il secondo ambito è la psicologia evolutiva, che esamina i processi psichici nel loro sviluppo, tanto dal punto di vista globale dell’individuo (ontogenesi) quanto di quello della specie (filogenesi). Dal punto di vista generale essa tratta distintamente la psicologia della prima infanzia (dalla nascita fino al settimo anno), dell’adolescenza e della giovinezza e, infine, della vecchiaia.
Il terzo ambito è la caratterologia, che studia gli elementi determinanti l’origine del carattere e i fattori che lo costituiscono. Il carattere di una persona si può definire quella legge di preferenza secondo cui un individuo determina il corso delle sue azioni.
Infine, abbiamo la psicologia sociale, che consiste nello studio dei comportamenti, pensieri, sentimenti delle persone influenzati dalla presenza di altre persone o gruppi.
Venendo ora specificamente all’esame della caratterologia va anzitutto spiegato che, per “carattere”, dal punto di vista psicologico s’intende la modalità di giustificazione delle azioni dell’uomo, il perché le compia abitualmente, cioè secondo una “legge di preferenza”, il senso che ha per lui un gesto piuttosto che un altro. Si tratta, insomma, di un qualcosa di oggettivo, che ha la natura di una norma o di una massima, in quanto si caratterizza come il modo dell’agire di una persona verso il “mondo”.
Il carattere esprime in definitiva la scala dei valori di un essere umano. Per fare un esempio, l’individuo che cede alla donna il suo posto a sedere, lo sta facendo valutando che l’aiutare sia un’azione di valore superiore rispetto a quella di far riposare il proprio corpo.
Nel corso della vita, comunque, le persone possono modificare alcune loro valutazioni di fondo: a diciotto anni, ad esempio, il tempo dedicato al bacio per la propria amata è valutato d’importanza significativamente superiore che a quaranta o più anni. In casi come questo le persone rimangono le stesse poiché la rispettiva personalità resta inalterata, è il carattere che si trasforma conformemente alla visione dei valori che via via si sperimentano o scoprono. Possiamo sintetizzare che la persona agisce attraverso la sua personalità, secondo il proprio carattere.
Anche se per caratterologia (o “psicologia del carattere”) non tutti gli studiosi intendono la stessa cosa, in termini generali si può definire questa branca della psicologia come «la scienza delle caratteristiche proprie e generali della vita psichica di ogni individuo» (Antonio Malo, Introduzione alla Psicologia, Le Monnier, Firenze 2002, p. 38).
Le diverse realtà psichiche dell’uomo non possono essere analizzate da una prospettiva unicamente descrittiva e, quindi, unilaterale. L’approccio più ampio, “polimorfo”, dovrebbe portare a una psicologia che persegua pure indagini unidimensionali relativamente alla variegata molteplicità delle espressioni umane ma che, allo stesso tempo, le sappia poi ricondurre a prospettiva unitaria. La struttura o nucleo della personalità dell’uomo non è infatti riducibile a un’unica dimensione. Come scrive Antonio Malo, «la relazione tra elemento organico, psichico e spirituale si fonda […] su un’unità di composizione. Il che significa che c’è una differenza tra gli elementi che la costituiscono. Tale differenza esclude sia l’identità che la separazione assoluta, poiché è un’unica realtà» (op. cit., p. 51). Una tale prospettiva permette di affermare che «vi è un rapporto tra i fenomeni organici, psichici e spirituali, che non è di causalità efficiente né d’identità, ma d’integrazione: tutti i processi fisiologici, psichici e spirituali si integrano per permettere, ad esempio, di capire una parola» (ibid., p. 52).
Quando parliamo di carattere occorre tener presenti sia gli aspetti ereditari (genetici) sia quelli educativi, che formano la capacità dell’individuo di riconoscere i valori e di collocarli nella giusta scala d’importanza.
La prima tipologia caratteriologica, di derivazione psicanalitica, proposta nella storia della psicologia, è quella dei tipi psicologici di Carl Gustav Jung (1875-1961).
Il celebre psichiatra, psicanalista e antropologo svizzero ne ha fatto oggetto specifico del libro Tipi psicologici, pubblicato in prima edizione nel 1921, il quale costituisce ancora oggi l’opera junghiana di maggiore diffusione. Jung vi opera una classificazione [non condivisa da Sigmund Freud (1856-1939) che, per questo, lo costrinse a separarsi dalla sua scuola], degli individui secondo “tipologie psicologiche”, che si identificano dal carattere del loro adattamento.
I tipi psicologici, la cui elaborazione è fondata sul presupposto dell’allargamento dell’inconscio oltre i limiti precedentemente studiati dalla psicanalisi freudiana, si articolano attorno alla basilare polarità “Introverso/Estroverso”, incrociata con una ulteriore quadripartizione in “funzioni” psichiche: pensiero, sentimento, sensazione e intuizione.
L’appartenenza a uno dei quattro sottogruppi è determinata dalla funzione privilegiata nel corso dell’adattamento, funzione a cui l’individuo, a partire dall’infanzia, affida le sue principali speranze di riuscita. La combinazione tra i due “assi” (quello Introversione/Estroversione e le quattro funzioni) dà luogo ai seguenti otto tipi psicologici individuali:
- il tipo pensiero-estroverso,
- il tipo sentimentale-estroverso,
- il tipo intuitivo-estroverso,
- il tipo sensoriale-estroverso,
- il tipo pensiero-introverso,
- il tipo sentimentale-introverso,
- il tipo intuitivo-introverso,
- il tipo sensoriale-introverso.
Questa teoria assume rilievo nel processo di individuazione, nel quale è necessario che l’Io sia consapevole dell’atteggiamento psicologico che si è reso dominante o esclusivo, superando il quale e aprendosi agli altri può affermare la sua autonomia da modelli collettivi accettati inconsapevolmente.
La “scelta” del tipo psicologico a cui l’individuo appartiene corrisponde, infatti, più a esigenze collettive che individuali. Mostrare il valore delle opzioni trascurate dallo sviluppo è il compito dell’individuazione, allo studio e alla pratica della quale la psicologia analitica junghiana si dedicherà specificamente.
Un tale approccio ha permesso di mettere a fuoco un certo numero di qualità caratteriologiche, dalla serenità alla pedanteria per passare al sentimentalismo, ignorate fino allora dalla psicologia, la cui analisi ha suscitato interesse anche in ambito psichiatrico.
Fino alla fine degli anni Sessanta la caratteriologia ha costituito una parte rilevante e universalmente riconosciuta nell’ambito scientifico della psicologia. Con l’avvento delle classificazioni diagnostiche di tipo descrittivo, il concetto di “carattere” è stato sostituito progressivamente da quello di “personalità”. I disturbi fino allora trattati come “caratteropatie”, sono stati quindi trattati come dinamiche distorte della personalità, suscitando in questo modo alcune carenze di analisi, criticità nell’approccio dei casi e ambiguità generali nella ridefinizione dello statuto scientifico della particolare disciplina psicologica. “Personalità”, infatti, etimologicamente significa “l’essere persona”, come “simpatia” denota “l’essere simpatico”, di un uomo. Non è quindi esatto rendere sinonimi i concetti di personalità e persona (o carattere) così come non è sostenibile considerare la personalità come parte dell’uomo completo.
Lungo tutta la vita la persona rimane sempre la stessa ma, questa essenza, non è conoscibile direttamente e totalmente, rimanendo sempre un mistero nel suo complesso. È possibile percepire solo alcuni aspetti di una persona, quelli che sono in atto e, perciò, sono osservabili. Da queste si arriva alla personalità, la quale si può definire l’insieme di tutte le facoltà esistenti nella persona umana. La persona è dunque la totalità, cioè l’insieme delle facoltà già presenti e di quelle potenziali, mentre la personalità è l’insieme delle facoltà attuate.
Se l’origine più profonda del carattere è la fisiologia, essa è ben lungi dallo spiegare tutto. Si possono fornire molte prove del fatto che la nostra costituzione fisica ha una diretta influenza sulla personalità morale. Pretendere però di fondare una tipizzazione psicologica solo sull’elemento biologico-fisiologico, rende parziale e inservibile la corrispondente teoria caratteriologica, come visto per esempio con la “biotipologia costituzionale”, introdotta dai due psicologi statunitensi Stanley Smith Stevens (1906-1973) e William Herbert Sheldon (1898-1977), che deresponsabilizza fondamentalmente l’individuo facendo dipendere il comportamento umano dalle caratteristiche fisiche.