Volere è potere? La conformità dell’agire moralmente buono con la legge eterna
LA VOLONTÀ HA UN RUOLO SICURAMENTE IMPORTANTE NELLA VALUTAZIONE DELL’AGIRE UMANO. L’ESERCIZIO DI TALE FACOLTÀ, PERÒ, NON SEMPRE HA UNA VALENZA POSITIVA SECONDO LA VISIONE DELLA MORALE NATURALE E CRISTIANA. IL RETTO COMPIMENTO DEGLI ATTI UMANI, INFATTI, NECESSITA OLTRE CHE DELLA VOLONTÀ ANCHE DELL’ESERCIZIO DELLA RAGIONE ILLUMINATA DALLA FEDE PER L’INDIVIDUAZIONE E IL RAGGIUNGIMENTO DEI FINI. SEGUENDO L’INSEGNAMENTO DI GIOVANNI PAOLO II NELLA “VERITATIS SPLENDOR”, QUEL CHE CONTA È IN DEFINITIVA LA CONFORMITÀ DELL’AGIRE CON LA LEGGE ETERNA
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Di Sara Deodati
Per comprendere il ruolo che la volontà svolge nell’agire umano e l’importanza che riveste tale facoltà per il compiersi degli atti che nell’uomo necessitano anche della ragione, occorrerebbe a mio avviso partire dalla nota definizione della Metafisica di Aristotele secondo la quale l’uomo è un “animale razionale” (Libro A, cap. 9).
In questo senso l’essere umano è:
- animale, con dizione da intendersi come genere prossimo cui appartiene (quindi non è un minerale o un vegetale o puro spirito);
- razionale, perché a differenza degli animali che hanno soltanto un’anima vegetativa e sensitiva, ha anche un’anima razionale.
L’anima razionale differenzia l’uomo dalle altre specie animali e lo rende quindi dotato di due caratteristiche che sono la manifestazione dell’esercizio della ragione: l’intelligenza e la volontà. Quando un essere umano compie un’azione con il concorso dell’intelligenza e della volontà realizza un atto umano o atto morale, ossia moralmente qualificabile come buono o cattivo.
Nell’Etica Nicomachea lo Stagirita ricorda come comunemente si ammetta che ogni arte ed ogni ricerca, e parimenti ogni azione e scelta, mirino ad un bene. Perciò a ragione afferma che «il bene è ciò a cui ogni cosa tende» (Libro I, par. 1), quindi si deve pensare al bene come ciò a cui si tende (ossia si aspira).
In definitiva l’uomo in tutto ciò che fa mira a un qualcosa che si può chiamare bene. Il bene, sempre secondo Aristotele, è quindi qualcosa che pare buono ad un soggetto agente. Non è qui da confondersi l’apparenza del bene in quanto non si deve intendere quest’ultimo come illusione ma come un bene che si dimostra tale nel giudizio del soggetto agente. L’uomo lo giudica buono e per questo gli appare buono. Risulta chiaro quindi come il carattere intenzionale dell’agire umano significhi che l’agire di volta in volta mira a qualcosa, un bene apparente che corrisponde ad un giudizio del soggetto.
Alla luce di quanto appena esposto si può definire la volontà come una facoltà tendenziale intellettuale che ha per oggetto il bene nella sua dimensione universale. La volontà appetitiva intellettuale è unica ma gli atti che si compiono possono essere vari. Il bene può configurarsi infatti come fine, cioè come bene cercato, voluto per sé stesso, oppure come mezzo che si ordina al fine. Gli atti del volere, quindi, presentano delle differenze che li caratterizzano a seconda dell’oggetto:
- se hanno per oggetto un fine si parlerà di atti di volizione come desiderio di un bene, reale o apparente;
- se consistono nel godere del fine posseduto si parlerà di atti di fruizione;
- se configurano una tendenza che è in nostro potere raggiungere attraverso le azioni, si parlerà di atti di intenzione o tensione al fine.
Gli atti della volontà che hanno per oggetto i mezzi meglio chiariscono il ruolo della volontà nell’atto umano. Il primo di questi atti volitivi è la scelta, che consiste nel preferire una cosa rispetto ad un’altra. Alla scelta segue il consenso che è l’adesione della volontà ad un determinato bene inteso come conveniente per raggiungere il fine. Il consenso si colloca subito dopo la deliberazione intesa come quell’atto dell’intelletto che, mosso dalla volontà, esamina i mezzi per il raggiungimento del fine. Tali mezzi attraverso il consenso, saranno ritenuti validi. Un ultimo atto è l’uso, recepito come atto della volontà attraverso cui essa muove altre facoltà dell’uomo ai loro atti specifici.
San Tommaso d’Aquino nel suo trattato sulle virtù umane definisce atto umano «non qualsiasi atto compiuto dall’uomo o nell’uomo, perché in alcuni atti gli uomini operano come le piante e i bruti, bensì un atto proprio dell’uomo. Ora, rispetto alle altre cose, l’uomo ha questo di proprio, di essere padrone del proprio atto (sui actus est dominus); pertanto qualsiasi atto di cui l’uomo è padrone, è propriamente un atto umano» (De virtutibus,1,4). Solo negli atti nei quali l’uomo esercita il suo dominio e la sua libertà sono atti propriamente umani, attraverso i quali egli sceglie di “poter essere” dirigendo tutte le sue azioni al raggiungimento del vero bene. Sono solo questi gli atti che formano quindi l’oggetto della morale.
L’attività specificatamente umana presenta alcune caratteristiche costanti. Innanzitutto, prima di agire l’uomo si rappresenta quel che si accinge a fare (ad esempio desidera avere un figlio ma è sterile). Non solo però egli si rappresenta la propria opera e la propria azione in quanto la sua volontà aderisce a questo bene (l’uomo vuole un figlio ma ancora non decide nulla al riguardo). Successivamente l’uomo fa una riflessione sulla reale possibilità di avere un figlio (è possibile ma non attraverso la via naturale). Decide allora di agire e pensa ai possibili passi da compiere (in questo caso la fecondazione artificiale o l’adozione). A questo punto l’uomo dà il consenso (da intendersi come una approvazione di taluni mezzi, anteriormente alla scelta – o fecondazione o adozione -). Tra le possibilità a disposizione egli giudica la migliore tra le due (no fecondazione, si adozione). Dopo l’elezione segue la messa in opera del giudizio precedente attraverso la quale la volontà comanda di usare i mezzi scelti. Infine, l’uomo usa tutti i mezzi necessari per conseguire il fine che si era prefissato. Al termine di questo processo avrà il godimento del bene, la fruizione, ossia accoglienza del figlio (voluntas, intentio, consilium, consensus, electio, imperium usus, fruitio).
In conclusione, possiamo riflettere come sia proprio nella scelta che la volontà definisca sé stessa. È la scelta che costituisce l’atto di autodeterminazione del volere: «coloro che sostengono che la scelta è desiderio o impulsività o volontà o una specie di opinione, non sembra che parlino correttamente. Infatti la scelta non è comune anche agli esseri irrazionali, mentre desiderio e impulsività sì» (Aristotele, Etica Nicomachea, Libro III, par. 2).
A motivo della ragione e della volontà, tutto l’agire dell’uomo è un fare che ha pienamente sotto il suo controllo. Poter-volere significa avere padronanza delle proprie aspirazioni. Come detto, un’azione di cui l’uomo ha padronanza e che esegue proprio a causa di questa padronanza si definisce “atto umano” (actus humanus). Questi atti devono essere distinti da tutte le attività del soggetto che non scaturiscono dalla ragione e dal volere e vengono definiti “atti dell’uomo” (actus hominis) e nascono dalla specificità del fare umano. Un esempio sono tutte le operazioni relative alla vita vegetativa, i riflessi neuromotori oppure i tic. È l’uomo il soggetto di questi processi, nonostante si compiano in lui senza alcuna cooperazione.
Oltre a questi atti derivanti dalla vita vegetativa dell’uomo si possono aggiungere quelli compiuti sotto costrizione psicologica (ad esempio sonnambulismo) o farmacologica (effetto di droga o alcool). In questo caso l’uomo che “non è in sé”, può porre determinati atti compiendoli senza avere un reale potere sugli stessi. Per questo gli atti dell’uomo sono tutti quei processi o azioni che si svolgono nell’uomo più che essere compiuti dall’uomo, non nascendo dal suo libero volere (aspirare in base a giudizi della ragione). L’agire umano quindi si caratterizza come umano proprio perché è volontario cioè scaturisce dall’aspirare guidato dalla ragione e l’uomo ne ha la padronanza. Abbiamo visto come non sempre l’uomo agisce da uomo e la sua attività specifica non sempre porta il segno distintivo della sua diversità. Così i gesti istintivi, i tic, i riflessi o anche le pratiche compiute sotto costrizione psichica o di un raptus di demenza possono essere definiti atti dell’uomo perché emanano da una individualità carnale e spirituale ma non sono atti umani.
Veramente umano è solo l’atto che l’uomo pone in quanto uomo, atto che porta l’impronta della sua differenza specifica rispetto a tutti gli altri esseri e questa differenza è la razionalità. Gli atti umani, quindi, sono quelli che l’uomo pone in essere in quanto dotato di ragione.
Abbiamo già detto come il bene sia ciò cui si tende, qualcosa degno di essere desiderato, degno di aspirazione, in quanto giudicato tale dal soggetto agente. Questa aspirazione (volontà) agisce in risposta al bene conosciuto ma è diverso vedere e conoscere il bene dal tendere ad esso con la propria azione. Per meglio comprendere questo aspetto si deve distinguere l’atto volontario dal suo contrario, l’atto involontario.
Si definiscono involontari «gli atti compiuti per forza o per ignoranza. Forzato è l’atto il cui principio è esterno, tale cioè che chi agisce, ovvero subisce, non vi concorre per nulla […] causa dell’involontarietà dell’atto è l’ignoranza delle circostanze particolari nelle quali e in relazione alle quali si compie l’azione […] perché è ignorando qualcuno di questi particolari che si agisce involontariamente […] non è giusto dire che sono involontari gli atti compiuti per impulsività o desiderio» (Aristotele, Etica Nicomachea, Libro III, par. 1).
Ricapitolando possiamo dire che un atto è:
– volontario quando è causato dalla volontà del soggetto;
– voluto quando è approvato dalla volontà anche se non è causato da essa;
– involontario quando è compiuto contro la volontà del soggetto;
– non-volontario quando si compie senza la volontà del soggetto.
Gli atti volontari si possono altresì classificare come eliciti (da elicere, trarre da, far uscire), atti posti dalla volontà ed imperati, questi ultimi non posti immediatamente dalla volontà. Più specificatamente sono eliciti «tutti gli atti che derivano direttamente dalla volontà come amare o odiare, quindi l’uomo in quanto persona decide in merito ad un oggetto specifico mentre imperati si definiscono gli atti realizzati immediatamente da una facoltà diversa dalla volontà come l’intelligenza o le braccia o gli occhi sotto l’influenza e la mozione della volontà» (Angel Rodríguez Luño, Etica, Le Monnier, Firenze 1992, p. 98).
Si può scegliere di studiare, di lavorare o di stare in ozio ma se non ci sono scuole, posti di lavoro o di riposo, il soggetto, non potrà realizzare la sua scelta. In conclusione, se gli atti eliciti sono posti dalla volontà stessa, negli atti imperati è la volontà che si pone in atto comandando altre facoltà (ad esempio l’atto del camminare è un atto non immediatamente della volontà ma compiuto tramite un’altra facoltà). L’atto che procede mediatamente dalla volontà, in quanto mette in movimento un’altra potenza di cui questo atto è il frutto immediato, è un atto imperato ossia comandato (ad es. atto delle mie dita che battono i tasti della tastiera).
Un’ulteriore distinzione tra gli atti umani volontari è quella tra atti semplici e relativi. Quelli semplici sono quegli atti determinati da una completa adesione della volontà del soggetto. Quelli relativi si hanno quando la volontà aderisce suo malgrado ad un fine per far fronte ad una particolare circostanza. Si possono ulteriormente suddividere gli atti volontari in voluti e tollerati. Nei primi l’atto è determinato in modo diretto dalla volontà di un soggetto per il raggiungimento di un fine (l’effetto costituisce il vero scopo della volontà, o come fine o come mezzo, ed è voluto). Nei secondi, la volontà tende direttamente ad un altro fine limitandosi a tollerare eventuali effetti collaterali dell’azione.
È famosa la locuzione latina, attribuita ad Ovidio e ripresa anche da San Paolo, traducibile in italiano con “vedo il meglio e l’approvo, ma poi seguo il peggio“. Essa sta a significare che facilmente l’uomo si rende conto di cosa sia il bene ma, poi, è per lui difficile volere e perseguire concretamente quel bene che avverte con la ragione. Poiché l’atto libero è quello in cui interviene, come fattore determinante, il soggetto spirituale come tale, ne consegue che l’atto sarà tanto più libero, e perciò più umano, quanto più il soggetto sarà presente a sé stesso e saprà maggiormente ciò che fa (la libertà suppone la lucidità del pensiero). Nel III libro dell’Etica a Nicomaco, Aristotele indaga sui concetti di volontarietà e involontarietà delle azioni dell’uomo. Partendo dagli atti involontari, che definisce quelli compiuti per forza o per ignoranza, lo Stagirita arriva a definire l’atto volontario come «quello il cui principio sta in colui che agisce, conoscendo le circostanze particolari in cui attua l’azione» (Libro III, par. 1). Insegna anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, «la libertà fa dell’uomo un soggetto morale. Quando agisce liberamente l’uomo è per così dire, il padre dei propri atti. Gli atti umani cioè gli atti liberamente scelti in base ad un giudizio di coscienza, sono moralmente qualificabili. Essi sono buoni o cattivi» (n. 1749).
Nell’atto umano entra in gioco la volontà ovvero la scelta libera che abbraccia vari elementi: oggetto dell’atto (che cosa voglio); fine dell’atto (perché lo voglio); mezzi (come lo voglio); circostanze (quando e dove lo voglio). L’atto veramente umano è quello che l’uomo pone in quanto uomo e che porta quindi l’impronta della sua differenza specifica. Gli atti umani sono molti perché avvengono a catena: un atto umano di decisione, di promessa, di impegno determina una serie di atti umani conseguenti per mantenere la propria volontà coerente con il primo atto.
Una volta scelti il fine ed i mezzi si accettano anche le conseguenze (prometto di riordinare la stanza alla mamma ma questa promessa implica la rinuncia ad uscire con i miei amici). Ed è per questo che, la moralità degli atti, è definita dal rapporto della libertà dell’uomo col bene autentico.
Tale bene, ha scritto Giovanni Paolo II, è stabilito «come legge eterna, dalla Sapienza di Dio che ordina ogni essere al suo fine: questa legge eterna è conosciuta tanto attraverso la ragione naturale dell’uomo (e così è “legge naturale”), quanto in modo integrale e perfetto attraverso la rivelazione soprannaturale di Dio (e così è chiamata “legge divina”). L’agire è moralmente buono quando le scelte della libertà sono conformi al vero cioè Dio stesso» (Lettera enciclica Veritatis Splendor, 6 agosto 1993, n. 72).