Il dovere di non dire menzogne nell’epoca della post-verità
PERCHÉ L’UOMO HA IL DOVERE DI RISPETTARE LA VERITÀ? CHE COS’È LA MENZOGNA? PUR DOVENDO DISTINGUERE FRA LE VARIE SPECIE DI BUGIE E MENZOGNE A SECONDA DELLA LORO GRAVITÀ E DELLE RISPETTIVE CONSEGUENZE (ANCHE POTENZIALI), RIMANGONO ANCHE OGGI NELL’EPOCA DELLA “POST-VERITÀ” SIGNIFICATIVE MOTIVAZIONI CHE GIUSTIFICANO IL DOVERE DI RISPETTARE LA VERITÀ COME PRINCIPIO ESSENZIALE PER LA SOPRAVVIVENZA DELL’UOMO E DELLA SOCIETÀ
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Di Sara Deodati
Diversi autori contemporanei predicano ormai da tempo l’inizio, almeno in Occidente, di un’epoca di post-verità, che caratterizza l’attuale dimensione sia collettiva sia individuale. Nonostante indubbia sia la dittatura del relativismo che pervade i grandi media e i poteri asserviti al politicamente corretto, il dovere di rispettare la verità rimane un imperativo essenziale non solo per il cristiano ma anche per l’uomo virtuoso o, almeno, di buona volontà.
La Bibbia insegna che Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati ed arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4) che, afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, coincide con la Sapienza di Dio «che regge tutto l’ordine della creazione e del governo del mondo» (n. 216).
Il dovere di dire la verità, di conseguenza, scaturisce dalla volontà di obbedire a Dio e alla propria coscienza. L’origine del peccato, in effetti, non è stata altro che la conseguenza di «una menzogna del tentatore, che indusse a dubitare della Parola di Dio, della sua bontà e della sua fedeltà» (CCC, n. 215).
La menzogna o bugia si può definire come una manifestazione simulata che contraddice la realtà o il proprio sentimento e/o convinzione interiore.
Dal punto di vista morale si può fare la seguente distinzione sulla base della responsabilità o meno che grava sulla persona che dice una menzogna: la bugia materiale e formale si ha infatti quando l’agente, pur conoscendo oggettivamente la verità delle cose o di determinate circostanze, dice il contrario. Quando invece il soggetto, in errore circa uno stato di cose/circostanze, si esprime secondo la propria convinzione sincera, si parlerà di bugia solo materiale ed in tal caso non avrà obblighi morali.
La volontà esplicita di ingannare il prossimo configura di per sé una responsabilità morale indipendentemente dalla corrispondenza o meno con la realtà. Qualora infatti una persona dicesse il contrario di quella che è la sua convinzione sincera, anche se errata, allora direbbe una bugia formale.
Da quanto finora detto si evidenziano quelli che possono essere definiti i segni distintivi della menzogna:
- oggettiva o soggettiva falsità;
- volontaria espressione di falsità;
- intenzionalità dell’inganno;
- risultato conseguito d’ingannare.
Di tutti questi segni distintivi, quelli che rientrano nella natura etica della bugia sono soltanto la soggettiva falsità e la volontaria espressione di dire il falso.
Una ulteriore modalità per distinguere le varie tipologie di menzogna si riferisce al diverso fine per cui la stessa viene detta. In questo senso si può parlare di:
- bugia detta per scherzo (mendacium iocosum), che non è una bugia vera e propria qualora i presenti sappiano che colui che la dice non intende affermare realmente ciò che sta riportando ma piuttosto scherzare;
- bugia per bisogno (mendacium officiosum), che serve a distogliere un danno da sé o da altri o a non lasciarsi sfuggire un vantaggio per sé o per altri (serve quindi per la propria o altrui utilità);
- bugia dannosa (mendacium damnosum), che reca direttamente un danno al prossimo.
A un tale elenco si possono aggiungere le bugie dette per vanità, per pura verbosità o per il piacere fine a sé stesso di mentire.
La menzogna, come furto di verità, è peccato grave (secondo le consuete condizioni) in quanto violazione diretta dell’Ottavo Comandamento, “Non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo”.
Con tale indicazione il Decalogo protegge infatti sia l’onore altrui, sia il comune bene della verità. Questa fondamentale gravità del peccato di bugia si deduce di conseguenza tanto dai numerosi passi della Sacra Scrittura che ne parlano quanto dall’alto valore della verità negata e della veridicità contraddetta. Contro l’opinione, comune anche a non pochi teologi, che l’offesa alla verità in quanto tale, non tenuto conto cioè del danno arrecato, sia soltanto peccato veniale, si può addurre la sentenza di San Tommaso d’Aquino per la quale il «peccato mortale propriamente è quello che è in contrasto con la carità. Ora, la menzogna può essere in contrasto con la carità in tre modi: primo, per sé stessa; secondo, per il fine cui mira; terzo per accidens» (La Somma Teologica. Seconda parte, Seconda Sezione, Ed. Studio Domenicano, Bologna 2014, p. 1065).
Nei secoli vi sono state diverse interpretazioni del concetto di menzogna, alcune molto diverse tra loro se non addirittura opposte. Sant’Agostino rappresenta una tendenza “rigorosa” di menzogna dandone la seguente categorica definizione: «Mentire significa parlare in modo diverso da come si pensa, con l’intenzione di ingannare». Se ne deduce che mentire è un’azione intrinsecamente cattiva perché le parole sono state istituite affinché gli uomini si scambino le loro conoscenze, sono dei segni del pensiero e, quindi, è contro la loro natura esprimere come vero ciò che nella mente si ritiene falso. La volontà d’ingannare secondo il Vescovo di Ippona è un elemento essenziale della menzogna, e, pertanto, chi dice il falso ma pensa di dire il vero non è un mentitore.
Questa visione di Sant’Agostino, successivamente ripresa da San Tommaso è stata determinante nell’imporre l’opinione che ritiene immorale qualsiasi tipo di menzogna. Se il primo dimostra soprattutto teologicamente l’illiceità di qualsiasi mancanza di verità desumendo principalmente i suoi argomenti dalla Sacra Scrittura, San Tommaso descriverà il concetto di menzogna ricorrendo sia ad argomentazioni teologiche sia filosofiche. Egli distingue infatti tre elementi nella bugia:
1) l’asserzione falsa o falsità materiale,
2) la volontà consapevole di pronunciarla o falsità formale (essenza della menzogna) e
3) l’intenzione di trarre in inganno o falsità effettiva (effetto della menzogna).
L’Aquinate ritiene pertanto che proferire menzogna sia immorale per quattro motivi: «la bugia rende simili al diavolo, così come la veracità caratterizza i figli di Dio; si distrugge la convivenza ordinata degli uomini; rovina il buon nome di colui che mente la sua credibilità; priva il bugiardo della salvezza».
Il teologo calvinista Grozio, nella sua nota opera Il diritto della guerra e della pace (De jure belli ac pacis), del 1625, arriva a sostenere che la menzogna è una ferita che lede il diritto attuale dell’interlocutore di conoscere la verità. Questa teoria pone al centro dell’attenzione non tanto il locutore con la sua intenzione di comunicare o di non comunicare, quanto piuttosto la persona a cui il discorso è rivolto. Egli spiega molto praticamente tale questione nei seguenti termini: se una persona ha diritto a sentirsi dire la verità e un’altra non gliela dice, quest’ultima mente. Qualora la stessa persona non abbia alcun diritto e il locutore non gli dice la verità, quest’ultimo non mente, ma pronuncia soltanto un discorso falso (teoria del falsiloquium). Di conseguenza l’affermazione consapevole del falso da parte di qualcuno non è una menzogna, bensì un semplice discorso falso, moralmente indifferente o persino moralmente necessario.
Le motivazioni di cui sopra sono difficilmente accettabili, anche se in alcuni casi è lecito o addirittura doveroso “occultare” la verità, per non rivelare un segreto, per evitare di diventare complici di un crimine, ecc. In tali casi, però, anziché mentire sarebbe preferibile utilizzare parole e frasi oggettivamente ambigue al fine di non ingenerare danni o effetti peggiori. Nella sua opera Grozio scrive in proposito che il diritto «a sentirsi dire la verità cessa quando altrimenti verrebbe leso un diritto superiore di terzi (per es. quando la vita di un innocente verrebbe messa in pericolo se un ingiusto persecutore conoscesse la verità), o quando l’interlocutore rinuncia almeno implicitamente a tale diritto». In tal modo il teologo intende risolvere il caso in cui una persona non dice la verità all’ammalato, se il discorso falso potrebbe aiutarlo.
La teoria del discorso falso, pertanto, è basata sul fondamento troppo ristretto della presunta esistenza di un diritto alla verità nel prossimo, diritto che questi potrebbe possedere o anche perdere.
Da questo punto di vista, anche se i teologi moralisti hanno tenuto fermo il principio dell’immoralità di qualsiasi bugia, hanno condiviso l’opinione che, in alcuni casi, sia lecito o persino doveroso occultare la verità, per non rivelare un segreto, per evitare di rendersi complici di un crimine oppure per delicatezza. Quella proposta in tal senso è detta la via della riserva (restrictio), che si distingue in riserva mentale (restrictio stricte mentalis) o reale (restrictio realis).
Nel primo caso il locutore dà alle proprie parole un significato ristretto che però solo lui conosce e l’interlocutore non è in grado di conoscere ed in pratica ci si trova davanti ad una bugia; nel secondo caso è la situazione oggettiva in cui ci si trova che rende il discorso ambiguo (quindi la riserva non ha luogo nell’intimo del locutore). Mentre la restrizione mentale si riduce ad una bugia ed è perciò immorale, la restrizione reale, è ugualmente illecita quando avviene senza motivo. In determinate circostanze, però, se esiste una causa seria, essa può diventare lecita o addirittura doverosa, quando cioè fosse necessario che una cosa destinata a restare segreta, venga tenuta nascosta. La veracità, infatti, non consiste nel manifestare sempre il proprio pensiero, ma quando e nel modo che conviene farlo. Ciò non significa che in certi contesti si possano fare liberamente affermazioni false: nell’ambito di una guerra esistono per esempio atti che servono a ristabilire la comunicazione come offerte di negoziazione segnalate dalla bandiera bianca che, utilizzate per ingannare, configurerebbero una menzogna Nel gioco del calcio, alla stessa stregua, non costituisce menzogna trarre in inganno il portiere quando si deve tirare un rigore, ma lo sarebbe invece il dire all’arbitro di aver subito un fallo quando ciò non è avvenuto.
I doveri positivi che conducono all’amore della verità discendono dal fondamentale comandamento della carità. Afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica che «la carità e il rispetto della verità devono suggerire la risposta ad ogni richiesta di informazione o di comunicazione. Il bene e la sicurezza altrui, il rispetto della vita privata, il bene comune sono motivi sufficienti per tacere ciò che è opportuno non sia conosciuto oppure per usare un linguaggio discreto» (n. 2489).
È possibile così riassumere le coordinate che inducono l’uomo a rispettare la verità:
- tendere alla conoscenza delle verità della salvezza in proporzione all’istruzione e alle cognizioni etico-professionali possedute;
- rispettare la ricerca della verità in genere (nella scienza, nella politica, nella formazione ecc.);
- curare la interiore verità verso sé stessi, conservandola integra per mezzo della fede e della fedeltà ai principi morali;
- favorire la verità nel proprio ambiente, praticando soprattutto le opere di misericordia spirituale;
- esprimere le proprie opinioni esercitando i doveri della cristiana prudenza (evitare ogni giudizio temerario), della carità del prossimo e della gentilezza, stabilendo nei singoli casi il giusto punto e la giusta misura.
Queste “coordinate” esprimono bene quella virtù della veracità cristiana che è, contemporaneamente, «fedeltà alla dignità dell’uomo e alla verità. […] La veracità è anche fedeltà a sé stessi, alla propria identità. Ognuno è chiamato a cercare, accogliere e praticare la verità. La libertà è per la verità, resistendo alla eventuale pressione contraria degli istinti e dell’ambiente sociale. Quando si tratta di testimoniare valori decisivi, come la fede in Dio, la coerenza deve essere mantenuta fino al martirio» (Conferenza Episcopale Italiana, La Verità vi farà liberi. Catechismo degli adulti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995, n. 1149).
Avendo evidenziato le molte connessioni esistenti fra l’insegnamento biblico e teologico e il dovere di rispettare la verità, ci pare ora di poter argomentare la tesi che, in merito, sembra fondamentale, ovvero che fede e vita sono inscindibili. La fede, infatti, è una verità da vivere necessaria alla salvezza: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi» (Gal 5,1).
È la libertà della verità che ci libera (cfr. Gv 8,32) e che mette in guardia il cristiano da ogni cedimento attivo e passivo alla menzogna.
Esaustiva disamina. non condivido però le conclusioni cui l’Autrice è pervenuta, benchè siano in linea con l’attuale orientamento dottrinale della Chiesa.
Peraltro, dette conclusioni, si pongono in antitesi con la condivisibilissima osservazione iniziale laddove si assume che “Nonostante indubbia sia la dittatura del relativismo che pervade i grandi media e i poteri asserviti al politicamente corretto, il dovere di rispettare la verità rimane un imperativo essenziale non solo per il cristiano ma anche per l’uomo virtuoso o, almeno, di buona volontà.”
Non vi è chi non veda come, in caso di ricorso alla cosiddetta riserva mentale, l’agente mente spudoratamente. Si tratta di menzogna della peggior specie, aggravata dal metodo tanto ambiguo quanto doloso perchè destinato ad ingannare l’interlocutore mediante l’utilizzo di particolari arguzie, sotterfugi e finzioni cervellotiche architettate ad hoc e scientemente utilizzate al fine ultimo, appunto, di ingannare. Manca spazio