La “modernità” ha rifiutato la metafisica? In gran parte SÌ, almeno quella classica

La “modernità” ha rifiutato la metafisica? In gran parte SÌ, almeno quella classica

LA VERITÀ REALISTA (ADEGUAMENTO E RIFLESSIONE) SI È SCONTRATA NEGLI ULTIMI SECOLI CON LE TEORIE ALTERNATIVE CHE PARTONO DALL’EMPIRISMO E DALL’UTILITARISMO E APPRODANO AL RELATIVISMO CONTEMPORANEO, MA LA CONCEZIONE PIÙ EVIDENTE DELLA VERITÀ È QUELLA CLASSICA, CHE LA RICONOSCE COME CORRISPONDENZA TRA IL PENSIERO E IL SUO OGGETTO E COSTITUISCE PER L’UOMO DI OGNI TEMPO L’UNICA CONDIZIONE DI REALIZZAZIONE E FELICITÀ

Di Sara Deodati

Tra i concetti fondamentali della tradizione filosofica il tema della verità è certamente quello su cui i pensatori, di tutte le epoche, si sono maggiormente occupati e sul quale quindi si è più dibattuto.

La verità, secondo la ricostruzione classica nota come “teoria dell’adaequatio”, si definisce appunto come l’adeguamento della conoscenza alla realtà. Questo carattere per cui la cosa si manifesta così come la vediamo, è detta anche evidenza intrinseca. Tommaso d’Aquino, nel De Veritate (q.1. a.1), riprende dal filosofo ebreo del decimo secolo Isacco Ben Israeli la nota formulazione: “Veritas est adaequatio rei et intellectus” (La verità è l’adeguamento della mente alla realtà). Con essa il Dottore Angelico richiama la necessità di conformare ciò che si pensa a ciò che è nella realtà.

Solo quando l’intelletto giudica correttamente uno “stato di cose”, infatti, è possibile giungere alla verità. Si tratta dello stesso discorso che facevano gli antichi filosofi greci quando, con Parmenide affermavano che «il falso non è dicibile né pensabile. È pensabile e dicibile solo l’essere» e, con Aristotele, traevano le conseguenze di tutto ciò definendo la verità non come «creazione umana, ma [come] una scoperta, anzi un dono o una luce dell’essere per la mente» (Metafisica, IV,1011).

In accordo a tali premesse, qualsiasi enunciato può essere riconosciuto come vero solo e solo quando dice che è ciò che è, e che non è ciò che non è. In pratica, non è la realtà che deve adeguarsi alla mente umana, ma è la mente umana a doversi adeguare alla realtà, ovvero lasciarsi misurare da essa.

Alla luce di quanto detto, è possibile declinare il significato della nozione di verità in tre significati:

1) la già accennata conformità dell’intelletto alla cosa,

2) verità come conoscenza vera e, infine,

3) verità delle cose.

Per spiegare queste ultime due formulazioni è utile far ricorso al più volte citato elemento dell’adeguamento che, in diverse modalità e “gradi”, è presente in tutti i significati di verità. Se però nel primo concetto di conformità esso è rinvenibile in modo proprio, e cioè in sé stesso, l’adaequatio è presente nel secondo significato in senso indotto, con riferimento quindi a ciò che viene determinato dall’adeguamento e, infine, nel terzo senso di verità è causale, vale a dire connesso alla causa del processo conoscitivo. Per comprendere questi due ultimi enunciati, è necessario richiamare la “dinamica” – o “movimento”, che dir si voglia – della facoltà conoscitiva, che termina nella mente. In quanto fondata (conoscenza vera) e causata (verità delle cose), la verità si trova nelle cose ma, formalmente, sta nella mente, poiché una cosa non si dice “vera” se non per il suo adeguamento con l’intelletto, cosicché il vero si trova innanzitutto nell’intelletto e secondariamente nelle cose.

Una volta accennata la “triplice” definizione classica della verità detta logica, identificabile come conformità della mente, cioè della conoscenza, alla realtà, va menzionata un’altra definizione speculare alla stessa, che è detta ontologica o trascendentale. Quest’ultima risale alla corrispondenza delle cose alla mente divina, che le ha ideate e dalla quale le stesse traggono origine. La Verità, infatti, è sia realizzazione del pensiero umano in rapporto all’oggetto conosciuto (verità logica), sia intellegibilità della realtà conosciuta in rapporto al Logos assoluto che da ogni realtà dipende (verità ontologica). Scrive in proposito Tommaso: «ogni realtà si dice vera in quanto possiede una forma che imita l’idea di Dio» (Commento al Perihermeneias di Aristotele).

Come detto, Aristotele nella Metafisica sostiene che la verità consiste «nell’affermare quello che è e negare quello che non è». Le idee isolatamente pensate non sono perciò né vere né false, perché la possibilità della verità (o dell’errore) si ha quando si afferma qualcosa di qualcosa e, quindi, quando le nozioni vengono connesse nella relazione del giudizio.

La verità logica è dunque una qualità del pensiero, è la sua perfezione naturale, la sua rettitudine e si identifica con la conoscenza in quanto tale ossia con la conoscenza realizzata.

 Oltre che sul modello dell’adeguamento, la teoria realista fa anche riferimento a una imprescindibile dimensione riflessiva nella conoscenza della verità, detta “originaria” per sottolinearne il carattere implicito ed escludere quello rappresentativo. Il ricorso a quest’ultimo, infatti, determinerebbe una sorta di “girare a vuoto” della riflessione, poiché «se la verità di un giudizio si cogliesse soltanto in un altro giudizio riflessivo, si avrebbe un processo all’infinito, nel quale si perderebbe la realtà delle cose.

 Passando ora dalle nozioni alle caratteristiche della verità, è utile preliminarmente fornire una elencazione delle cinque principali qualifiche elaborate nell’ambito della teoria realista che aiutano ad approfondire e comprendere l’elaborazione complessiva. La verità, da questo punto di vista, è definibile come:

a) conoscibile dall’uomo, ovvero conoscibile dalla ragione umana, a seguito di un atto dell’intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione;

b) una, poiché ci si deve sempre riferire ad una verità “unica” in senso assoluto che è la verità di Dio, la Verità eterna, contrapposta a tutte le molteplici verità temporali; possono pure essere formulate tante verità quanti sono gli uomini sulla terra (v. relativismo) ma, ciò non toglie, che non è logica una teoria della “doppia (o molteplice) verità” per la quale sarebbe ammissibile una contraddizione tra una verità scientifica, filosofica o teologica etc., affermando per esempio che una tesi vera per la fede cristiana sarebbe falsa per la scienza e via dicendo. Secondo i principi di non contraddizione e del terzo escluso la verità è sempre e solo una e, le eventuali verità difformi, o sono apparenti o denunciano altrettante posizioni false;

c) indivisibile, in quanto gli enunciati sono veri del tutto e non a metà (quindi sono senza gradi); non ci si può riferire alla conoscenza come più o meno estesa ma solo a ciò che il giudizio esprime oggettivamente e, certi predicati, sono quindi attribuibili ad un soggetto in modo approssimativo (se non siamo a conoscenza di una realtà di tipo quantitativo o che ammette diversi gradi di interessi). In definitiva, non si può dire che una donna aspetta un bambino, lo aspetta “più o meno” mentre si potrà parlare della lunghezza di un tavolo dicendo “più o meno” lungo 2 o 3 metri;

d) immutabile, e quindi eterna, poiché con il passare del tempo non può cambiare; una data verità non può pertanto trasformarsi in errore e viceversa (per es. dire che la Prima Guerra Mondiale è scoppiata nel 1914 è una verità che rimane sempre vera e non può cambiare con il tempo); una verità, quindi, non si può trasformare evolutivamente; la conoscenza umana si evolve poiché certe cose non si possono conoscere senza delle conoscenze precedenti (ad es. Aristotele che non poteva inventare la bomba atomica);

e) assoluta, perché ha carattere universale: un enunciato è vero indipendentemente da chi lo pronuncia non potendo essere vero per alcuni e falso per altri (v. relativismo). La verità non appartiene a questo o a quel soggetto: anche se una verità non è compresa da tutti è comunque comprensibile da ogni persona che dovrà compiere passi e azioni necessarie per poterla capire (ad esempio studiando e approfondendo una materia, una lingua etc.). Questo aspetto deriva dal principio di non-contraddizione: non esiste una verità soggettiva opposta alla verità degli altri e, quindi, nonostante i giudizi umani possano essere in contraddizione fra loro, la verità starà solo da una parte (la verità è oggettiva e non una semplice posizione del soggetto). Allo stesso tempo, però, si può dire che alcune verità siano “relative” nel senso che devono essere specificate nei rispettivi contesti spazio-temporale, linguistico-concettuale, etc. Ciò avviene esclusivamente con quelle verità che esprimono un rapporto, una relazione e che, quindi, si riferiscono a posizioni, movimenti distanze, tempi, enunciati che spesso debbono indicare un punto di riferimento, una prospettiva, un osservatore. Solo in questi casi si può dire che esistono delle verità relative (ma non relativistiche), precisamente ed esclusivamente perché descrivono un rapporto fra la mente e la realtà.

Nessuna delle cinque caratteristiche della verità appena illustrate è rimasta indenne all’attuale crisi intorno alla verità, generata dalla diffusa negazione o diffidenza verso ogni tipo di affermazione globale o assoluta. Tale esito, accompagnato dalla suddivisione della conoscenza in innumerevoli campi specialistici, ha portato alla completa demolizione dell’unità del sapere, rendendo ormai (quasi) impossibile «riconoscere quel senso totale e ultimo della vita che la filosofia tradizionalmente ha cercato» (Giovanni Paolo II, Enciclica Fides et ratio, Città del Vaticano 14 settembre 1998, n. 56).

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