Esclusivo. Marco Gervasoni: “gli spazi di libertà in Italia sono ristretti”

Esclusivo. Marco Gervasoni: “gli spazi di libertà in Italia sono ristretti”

“Diventa sempre più complicato distinguere, all’interno del mondo accademico, dove finisce il ruolo dello storico e dove inizia quello del militante di sinistra”

Di Andrea Rossi

Storico dell’Università del Molise, già direttore scientifico della Fondazione Craxi, editorialista de Il Giornale, studioso del populismo e della destra francese, il professor Marco Gervasoni è uno dei tanti critici del governo guidato da Mario Draghi e, recentemente, è stato coinvolto in un’inchiesta su presunte offese al Presidente della Repubblica.

 

Un vecchio adagio di Ezra Loomis Pound dice: “se un uomo non è disposto a rischiare per le sue idee, o ha idee che valgono poco, o vale poco lui”. Ritieni di avere rischiato troppo per la libera espressione del tuo pensiero?

La cosa che fa sorridere, anche se amaramente, è che non immaginavo di mettere a rischio la mia immagine, la mia professionalità, ed ora (forse) la mia libertà solo per aver espresso la mia opinione in stile “social” ossia in modo icastico, provocatorio, o basato sull’ironia, anche dura. Può apparire ingenua come risposta ma scrivendo dei tweet sull’attualità politica non pensavo di “correre dei rischi per le mie idee”. Quanto è accaduto mi fa riflettere molto su come si siano ristretti gli spazi di libertà nel nostro paese.

Partiamo dalla storiografia; dopo un trentennio nel quale sembrava, finalmente, che l’interpretazione ideologica marxista del XX secolo fosse stata definitivamente superata, si osserva, dentro e fuori dal mondo accademico, un ritorno all’antico: il fascismo male assoluto, la stagione democristiana come prosecuzione naturale della dittatura mussoliniana, la sottovalutazione dei danni morali e civili del ’68 e del ‘77, l’ossessione per le “trame oscure” volte a danneggiare la sinistra, il disprezzo per gli anni ottanta e per Bettino Craxi, e infine (e solo per chiudere il secolo), il berlusconismo come sintesi dei disvalori di un paese che, almeno in apparenza, molti intellettuali disprezzano profondamente. Come siamo arrivati a questa deriva “paranoica” della storia?

Il ritorno prepotente, anche in ambito universitario di una interpretazione manichea del fascismo in particolare, e della storia del XX secolo in generale, è un dato di fatto; alcuni recenti saggi di studiosi giovani (e meno giovani) sarebbero apparsi eccessivamente faziosi anche per studiosi di orientamento marxista come Ernesto Ragionieri, con la differenza che mezzo secolo fa, paradossalmente, il radicalismo intellettuale era in qualche modo “calmierato” dal ruolo istituzionale del Partito comunista, a cui un largo numero di intellettuali aderiva in modo organico, o comunque teneva come riferimento politico principale; la fine di quella stagione storica e dei suoi eredi in ambito storiografico, ha lasciato campo aperto a una visione “militante” totalmente autoreferenziale, nella quale gli studiosi si confrontano solo fra coloro che fanno parte della stessa parte politica; diventa quindi sempre più complicato distinguere, all’interno del mondo accademico, dove finisce il ruolo dello storico e dove inizia quello del militante di sinistra; basti osservare gli interventi nel dibattito pubblico degli esponenti di questa comunità e confrontarli con la produzione saggistica: il confine è talmente labile da sembrare inesistente. Probabilmente esistono anche motivi anagrafici: i giovani storici non hanno più un contatto diretto con le generazioni che hanno vissuto il periodo storico del fascismo e le stagioni successive, ed anche per questo scivolano in una interpretazione “ultrademonizzante” del ventennio mussoliniano.

Venendo all’attualità: la cancel culture è probabilmente la deriva estrema di un radicalismo che, con varie sfumature, ormai pare mainstream per molta parte della sinistra europea. La distruzione di una parte del passato come forma di “riparazione” per torti veri o presunti, propone una visione “moralista” della storia, in una spirale nella quale pare si faccia a gara a chi esprime espressioni sempre più estreme. E’ possibile reagire, o almeno proteggere i valori della società in cui viviamo con quelli che potremmo definire “gli anticorpi della ragionevolezza” o siamo fuori tempo massimo?

Su questo argomento manifesto un cauto ottimismo: la “cancel culture” è un fenomeno che riguarda prevalentemente paesi con un passato coloniale di lungo, o lunghissimo periodo, come la Gran Bretagna o la Francia, o con irrisolti problemi di integrazione razziale, come gli Stati Uniti. La nostra esperienza coloniale, che lo si voglia o meno, è stata marginale nella vicenda della storia nazionale. Potrebbero eventualmente proporsi elementi di “cancel culture” da parte di movimenti neoborbonici o meridionalisti, ma sinceramente direi che si tratta di frange marginali, senza un seguito popolare. E’ certamente vero che questo genere di delirio estremistico è presente anche nel mondo accademico, ma con interpretazioni della storia e della attualità talmente lontane nel comune sentire della società da apparire irrilevanti, o comunque destinate a quell’universo autoreferenziale degli “studiosi-militanti”. Per combattere questo fenomeno, a mio avviso, si dovrebbero utilizzare due direttrici: senz’altro il rigore nell’analisi storica, ma anche e soprattutto l’arma dell’ironia, visti i temi e gli argomenti densi di cieco furore usato da questi gruppi radicali. Ricordo che nel contrasto al PCI togliattiano ebbero uguale peso l’azione politica delle forze anticomuniste e l’ironia graffiante di Giovanni Guareschi, di cui si sente una grande mancanza nello scenario politico e sociale di oggi.

Per dare un seguito alla precedente questione, e con franchezza: la destra, nel nostro paese, è in grado di esprimere una proposta culturale alternativa a quella di questa sinistra, la quale appare tanto perdente politicamente, quanto pervasiva nei media, nei corpi intermedi, e soprattutto nelle istituzioni educative?

A mio avviso la cultura di sinistra è deceduta da anni, se per “cultura” intendiamo un processo creativo, innovativo e popolare. Non c’è dubbio che il pensiero conservatore sia di gran lunga quello che, negli ultimi anni, ha proposto le progettualità più interessanti in termini di originalità e di riscoperta di temi fondamentali come quelli di nazione e tradizione. Il problema è che le “casematte della cultura”, come venivano definite da Antonio Gramsci, sono ancora saldamente in mano alla sinistra, che oggi le difende in modo assai più aggressivo del passato, proprio perché, poco alla volta, si è sgretolata la credibilità dei sindacati, i quali ormai rappresentano solo il mondo dei pensionati, e dei referenti politici, come il Partito democratico, il cui dibattito interno ruota attorno a temi come l’introduzione di una tassa patrimoniale o della “legge Zan”. E’ ovvio che in questa situazione, la difesa delle posizioni raggiunte diventa una necessità primaria per la sinistra italiana. L’errore della destra, specie nella stagione in cui più lungamente è stata al governo del paese, è stato quello di non aver neppure cercato di “espugnare” queste casematte, sottovalutandone l’importanza, forse immaginando che si trattava di trastulli per intellettuali, e non di agenzie con cui si condiziona la cultura e l’educazione del paese.

Abbiamo speranza di raddrizzare la “barca-paese” per lasciarlo ai nostri figli in una condizione decorosa, socialmente e politicamente?

Anche in questo caso penso di essere ottimista: nonostante in tutti i modi si cerchi di fare apparire questo pensiero radicale come diffuso in ogni ganglio della nazione, in realtà esso è nei fatti rappresentato da una minoranza assai ristretta della popolazione. La nazione, insomma e nonostante tutto, è sana e immune da queste derive ideologiche. La questione della transessualità, della fluidità di genere che è il cardine del progetto di legge Zan, riguarda nei fatti una minoranza irrisoria; l’averla ingigantita mediaticamente fino a farla apparire come un tema di rilevanza nazionale può forse condizionare, per qualche tempo, la pubblica opinione, ma alla lunga i cittadini italiani sanno ben distinguere le cose serie dalle fanfaluche. Sono certo che fra qualche anno, i deliri radicali di questa stagione saranno guardati dagli studiosi di storia come quelli del “maoismo” nelle università europee post ’68, ossia una caricatura tragica e grottesca di una ideologia fallimentare. Non per questo occorre sottrarsi alla necessità di contrastare questa deriva, perché restringe, in modo spesso violento e pervicace, gli spazi di libertà della società civile.

 

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