“Prima gli italiani!” Sì, ma quali?

“Prima gli italiani!” Sì, ma quali?

IL LIBRO STORICO APPENA PUBBLICATO DA LATERZA A FIRMA DI FRANCESCO FILIPPI, OLTRE AL TITOLO ECCESSIVAMENTE PROVOCATORIO E POLITICIZZATO (“PRIMA GLI ITALIANI! SÌ, MA QUALI?), NON CONVINCE PER IL SUO TENTATIVO DI DIMOSTRARE CHE IL CONCETTO DI IDENTITÀ ITALIANA NON ESISTE, PERCHÉ SAREBBE UN’INVENZIONE CON CONNOTAZIONI RAZZISTICHE E XENOFOBE

Di Andrea Rossi

Il libro di Francesco Filippi Prima gli italiani! (Editori Laterza, Bari-Roma, 2021, pp. 160, € 14) è probabilmente l’apice della parabola del metodo “fact checking”, per com’è inteso nella omonima collana della casa editrice Laterza. Un volume nel quale, per dimostrare che il concetto di identità italiana non esiste ed è una invenzione con connotazioni razziste e xenofobe, si parte dalle colonie della Magna Grecia e si finisce con i cori da stadio. Il tutto con una tale marmellata di luoghi comuni da fare impallidire perfino il riduzionismo delle foibe di Eric Gobetti o le paturnie marxiste di Carlo Greppi.

Tra l’altro Filippi, paradossalmente, e forse senza nemmeno avvedersene, nella sua furia iconoclasta contro ogni abitudine e tradizione, finisce per suscitare nel lettore alcune domande del tipo: se l’italianità non esiste e se il concetto di nazione è un dato irrilevante e tossico, per quale diavolo di motivo sarebbe necessario battagliare per lo “ius soli”? Concedere a tutti il diritto di qualcosa che non ha alcun valore, o che è inesistente, quale senso potrebbe avere? Eppure, nella faticosa prosa dell’autore, questo tipo di domande non emerge. Nemmeno nella chiusa del saggio in cui, con una frase a effetto, si sostiene che per secoli il nostro Paese è stato dipinto «in modo chiuso e monocorde quando in effetti siamo in un mondo aperto e plurale, così come sono, nonostante tutto, aperti e plurali gli esseri umani». Quindi aboliamo il concetto di nazionalità? E a quel punto non ha senso essere italiani: siamo cittadini del mondo… o dell’universo, perché no?

Oltretutto per arrivare a questo illuminismo “di ritorno” occorre seguire una specie di storia d’Italia in cui in venti pagine si passa dagli etruschi al risorgimento (impresa che avrebbe fatto tremare i polsi a Benedetto Croce o a Gioacchino Volpe), per poi rallentare bruscamente dopo il 1861, dove scopriamo che, effettivamente, i popoli della penisola avevano usi e costumi diversi, e parlavano dialetti assai differenti fra loro. Se però qualcuno ritenesse di trovare accenti critici da parte dell’autore verso l’opera di Cavour e Garibaldi, sarebbe fuori strada: il regno di Vittorio Emanuele aveva una sua logica funzione storica, anche se fatichiamo a capire quale, visto che per Filippi l’italianità è una costruzione. Insomma, a forza di narrazioni contradditorie e assenze ingiustificate (si scopre che esiste una tradizione cristiana solo dopo la narrazione della breccia di porta Pia)  si giunge al nocciolo dello studio, e siamo ben oltre metà del volume, ossia che l’Italia di oggi, plasmata dal fascismo, dal clericalismo, dalla DC da Craxi e da Berlusconi e per finire dall’attuale destra politica (xenofoba e razzista, ça va sans dire) è incapace di accettare l’idea di diventare un paese multietnico. Già, peccato che non esiste alcun modello reale a cui Francesco Filippi ci dice di poter guardare. Perché anche avendo assodato che siamo egoisti, ipocriti e bigotti (credenti e non), manca un qualsiasi tipo di paragone con altre nazioni europee che siano un paese multietnico senza problemi. Insomma, come accade sempre nella collana “fact checking”, si sono scelti accuratamente i “fact” da controllare, ma per dimostrare le proprie tesi.

Non un accenno alla Francia in cui nelle grandi città ogni comunità ha il suo ghetto, e dove si può passare la propria infanzia senza conoscere bambini che si chiamino  Jean o Pierre; non una parola sulla tanto idolatrata Londra del sindaco di origini pakistane Sadiq Khan, dove in alcuni quartieri si applica abitualmente la Sharia; nessuna riflessione sulla laica e plurale Scandinavia, nella quale si diventa rapidamente cittadini norvegesi o svedesi di passaporto, ma lontani anni luce per stile di vita e sistema valoriale. Ecco, quindi, svelata (e non ci voleva molto) l’intrinseca debolezza del lavoro di Filippi: su quali valori comuni si costruisce uno stato in cui si diventa italiani per nascita o per immigrazione? Cosa ci unisce oltre al calcio o alla pizza? Perché tutto si può fare, e probabilmente andrà fatto, per trovare una convivenza di qualche tipo. Ma senza un ragionevole comune denominatore, che si costruisce soprattutto affrontando assieme le prove comuni, specie quelle dolorose (dalle guerre alle catastrofi naturali, dalle crisi economiche alla pandemia) e rispettando tradizioni millenarie, non si va da nessuna parte. Il modello dello Stato laico (anzi: laicista) è fallimentare, anche se questo, ovviamente, non lo trovate nel libro. Un modello diverso è da costruire. Nel frattempo, si avanza a vista e a fatica. E se i tanto disprezzati italiani, come accade in diversi Comuni d’Italia, finalmente occupano dopo anni le prime posizioni delle graduatorie pubbliche, invece che strapparsi i capelli, forse gli intellettuali di sinistra dovrebbero chiedersi se a creare tensione fra comunità siano i criteri attuali che favoriscono finalmente la residenzialità. O se davvero vanno meglio le cose nelle città governate dalle giunte rosse con regole “progressiste e civili”, dove prima di trovare un cognome nostrano, si devono scorrere regolarmente le ultime posizioni di qualsiasi graduatoria, da quella degli asili a quella delle case popolari.

Tutte domande senza risposta nel volume di Francesco Filippi. Anche perché semplicemente non sono presenti nel testo.

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