Un certo antifascismo serve a peggiorare la già complessa convivenza civile
L’ANTIFASCISMO NON SERVE PIÙ A NIENTE?
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Di Andrea Rossi
Sinceramente non sappiamo se “l’antifascismo non serve più a niente”; di certo l’antifascismo di Greppi (Carlo Greppi, L’antifascismo non serve più a niente, Editori Laterza, Bari-Roma, 2020, pp. 160, € 14) contiene un tale numero di tossine antidemocratiche da farci ritenere senza dubbio che il “suo” antifascismo davvero non serve a niente, se non a peggiorare la già complessa convivenza civile nella nostra nazione.
Nelle pagine iniziali del volume, il primo della collana “fact checking” l’autore ci offre infatti l’indirizzo programmatico dell’operazione editoriale; è una vera e propria dichiarazione di intenti, che molto spiega sulle ossessioni ideologiche e le lacune metodologiche delle pubblicazioni finora edite, e di quelle che verranno; vale la pena citare per esteso il testo, perché in realtà si potrebbe chiudere il volume prima di giungere alla decima pagina dello stesso: “…questo libro (…) non starà a fianco né contrasterà saggi ben più importanti di questo su cosa è fascismo e cosa non lo è, sprecando tutte le cartucce in un’insensata lotta che perde di vista i reali nemici, quelli che al fascismo guardano rimpiangendolo, o imitandolo. Proporrà, al contrario, un breve percorso tra le parole e le azioni di alcuni protagonisti di quel lungo ventennio che il fascismo lo sconfissero. Perché se e quando ritornerà, con volti simili o differenti, si possano avere gli strumenti per combatterlo, e farlo finire un’altra volta a testa in giù”.
La citazione sopra riportata andrebbe letta e riletta, perché spiega come mai non ci troviamo di fronte a un volume di storia, ma un pamphlet polemico, che apertis verbis ha come obiettivo quello di mettere i propri avversari “a testa in giù” (sic). L’autore ci spiega, in sostanza, come per dimostrare gli assunti proposti nel volume, non abbia senso consultare trenta anni di storiografia liberale, conservatrice o cattolica, con nomi che vanno da Renzo de Felice a Salvatore Sechi, o da Francesco Perfetti a Giuseppe Parlato, passando da Andrea Ungari e Marino Viganò. I “fact” vengono così accuratamente scelti, depurati da qualsiasi contraddizione, ripuliti da ogni tipo di incongruenza o di opacità, per ottenere un soddisfacente “checking”, denso di tautologie, che farebbe fare salti di gioia a monsieur de la Palisse; è l’apogeo di un modo di fare storia che rispolvera prassi notissime da almeno mezzo secolo, e che Renzo De Felice ben aveva sintetizzato nella sua Intervista sul fascismo (Editori Laterza, Bari, 1974) quando sosteneva che gli studiosi marxisti avevano la cattiva abitudine di interpretare i fatti prima di ricostruirli, quando qualsiasi ricercatore farebbe l’esatto opposto. La lettura del lavoro di Greppi, quindi, lascia poco spazio a sorprese di qualsiasi tipo o genere; tutto è predisposto in uno schema in cui i buoni sono tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra, come in un western di John Ford. Una storia in bianco e nero, una specie di “film Luce” di colore politico opposto a quello dei cinematografari in camicia nera, ma non meno involontariamente comico o grottesco.
Nel primo capitolo “un regime criminale: chi muore” dedicato alle vittime del fascismo, sarebbe inutile cercare traccia del clima politico di una nazione che usciva da un periodo da tutti definito “biennio rosso”, così come sarebbe vano sperare di trovare i nomi dei tanti che ebbero conversioni e sterzate di vario genere prima e dopo il 1922, da Pietro Nenni fondatore del fascio di Bologna destinato a diventare leader dei socialisti, o Nicola Bombacci che negli stessi anni faceva il percorso politico opposto, da fondatore del partito comunista a sostenitore del regime. O bianchi o neri, senza vie di mezzo. Si prosegue con “la clandestinità: chi sparisce, chi spera”, dove tutti coloro che decisero di opporsi alla dittatura lo fecero senza tentennamenti e sempre in modo adamantino.
Come nel primo capitolo, anche in questo secondo, ovviamente, le tracce dell’antitotalitarsimo cattolico sono evanescenti: i protagonisti sono tutti rosso fuoco, tutti già temprati a sostenere le più dure battaglie in nome dell’ideologia che li sostiene. Casi di opacità? Nessuno. Nessun Ignazio Silone invischiato in poco chiari rapporti con la polizia politica fascista, nessun Angelo Tasca arruolato dalla propaganda di Vichy, nessuno che facesse doppi o tripli giochi anche solo per sopravvivere. “La disobbedienza: chi esita e chi no” è logico proseguimento del paragrafo precedente: una collezione di santini esposti in un lungo rosario, senza domande e senza approfondimenti su un dato di fatto totalmente indiscutibile degli anni ’30, ossia il consolidamento e il consenso al regime in Italia, quantomeno fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Un consenso ampio, su cui in tempi recenti si sono soffermati Mario Avagliano e Marco Palmieri che hanno esteso addirittura ai primi anni di guerra, come si può leggere in Vincere e vinceremo! (Il Mulino, Bologna, 2014).
I capitoli quarto e quinto “la scelta delle armi: chi spara” e “una guerra senza quartiere: chi c’era e chi no”, meriterebbero uno studio a parte, per la capacità di Greppi di riuscire a rendere semplici, perfino banali, passaggi che furono tutt’altro che tali, come dimostrano decine di studi scientifici sulla stagione della guerra civile e della guerra di liberazione. Anche qui ci troviamo di fronte a una rassegna di luoghi comuni che credevamo desueti perfino nei settori più nostalgici della storiografia marxista: la resistenza pura e rossa, gli indecisi sono ovviamente o bianchi o conservatori, chi spara fa sempre bene e i fascisti, ovviamente, sono macchie di inchiostro da cancellare dalla storia del paese, senza se e senza ma. Anzi: il peccato originale della resistenza è la clemenza verso i vinti.
I capitoli conclusivi riguardano l’unità antifascista e la ripresa dell’antifascismo. Anche qui, sarebbe inutile cercare una riflessione critica verso la guerra rivoluzionaria condotta dal partito comunista prima e dopo la fine delle ostilità in Italia, e come qualsiasi condivisione di governo fosse divenuta impossibile dopo il 1946 vista la scelta stalinista non solo dei comunisti ma anche dei socialisti, coinvolti, sia pure con qualche tentennamento, nella strategia suicida del “fronte democratico”.
Una spaccatura che non fu solo politica, ma anche sindacale e associativa, e divise in modo verticale il mondo partigiano: perfino Enrico Mattei, nel fondare la Federazione volontari della libertà (FIVL, da cui poi nacque l’Associazione partigiani cristiani), ebbe a dire che “per la libertà abbiamo combattuto prima e dopo il 25 aprile 1945”.
Ora, se la ripresa dell’antifascismo, auspicata dall’autore, deve essere una manifestazione di principi illiberali e di pratiche censorie, sinceramente non ce la auguriamo. E davvero, se l’antifascismo è quello proposto dal coordinatore della collana “fact checking”, non solo concordiamo sul fatto che “non serve più a niente”, ma confidiamo che venga presto archiviato fra le tante idee sbagliate della sinistra radicale nel nostro paese.