Quella del “fascio” Ramelli è una storia che si ripete

Quella del “fascio” Ramelli è una storia che si ripete

Il 29 Aprile scorso ricorreva il quarantaseiesimo anniversario della tragica morte di Sergio Ramelli, studente diciottenne del Fronte della Gioventù assassinato a Milano da un commando di Avanguardia Operaia che lo aspettava sotto casa per sfondargli il cranio a colpi di chiave inglese.

“Un delitto spietato contro un ragazzo inerme, che i suoi assassini nemmeno conoscevano, al termine di un calvario che costrinse Sergio a lasciare l’Istituto tecnico Molinari dopo essere stato perseguitato per aver scritto un tema sulle Brigate Rosse. Provoca ribrezzo leggere il corsivo che Gianni Barbacetto ha scritto sul Fatto quotidiano”, ha dichiarato l’eurodeputato di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza.

A seguire vi proponiamo una riflessione sul tema della nostra editorialista e avvocato.

*

Di Dalila Di Dio

Egregio dott. Barbacetto, ho letto e riletto il suo pezzo – peraltro non particolarmente brillante – in cui, dalle pagine di quella pietra miliare del giornalismo che è Il Fatto Quotidiano, si è domandato come si possa inserire a scuola uno spazio per «il fascio Ramelli».

Tralasciando la capziosa e vile associazione che, surrettiziamente, lei tenta di compiere tra i terroristi rossi e Sergio Ramelli, “un ragazzo di 19 anni, militante del Fronte della gioventù, aggredito da un gruppo di Avanguardia operaia che intendeva dargli una lezione e invece lo uccide” – insomma un fascio fatto fuori per errore – più leggevo, più mi domandavo perché a lei e a quelli come lei, ancora oggi, faccia così paura la storia di un giovane ammazzato a colpi di chiave inglese sul marciapiede davanti a casa.

Così, ho (ri)fatto quello che lei pare non aver mai fatto: per capire, a 46 anni di distanza, cosa vi terrorizzi tanto da volerne osteggiare persino il ricordo, sono andata a rileggere la storia di Sergio Ramelli, che ben conosco ma che, ogni volta, mi lascia più inorridita.

L’ho ripercorsa attraverso le pagine che Luca Telese gli dedica nel suo Cuori Neri e quelle di “Una storia che fa ancora paura” (di Guido Giraudo e altri), racconto documentatissimo – e per questo ancora più terrificante – della tragedia che il 13 marzo 1975 colpì la famiglia Ramelli.

Sfogliando quelle pagine, ho visto Sergio attraverso gli occhi della madre, la coraggiosissima signora Anita, e di Ignazio La Russa, patrono di parte civile nel processo nei confronti dei responsabili della sua morte.

Ho conosciuto la sua storia attraverso il linguaggio asettico degli atti processuali, le pagine dei giornali e persino tramite le parole di quelli che, pur non conoscendolo, gli hanno tolto la vita per odio, nient’altro che odio. 

Nel suo articolo, intriso di pregiudizio ideologico, lei scrive “eroi si diventa per quello che si è compiuto da vivi. Non per il fatto di essere morti”.

Le sfugge, Barbacetto, che quella di Sergio non è una storia di eroismo. 

Sergio non era un eroe. E non ha bisogno di diventarlo adesso. 

Nel suo bieco tentativo di svilirne la memoria, lei non ha considerato il fatto che nessuno, proprio nessuno, ha mai tentato di far assurgere Sergio ad eroe. Non è nell’eroismo di Sergio Ramelli che risiede il senso della sua storia.

La storia di Sergio è una storia di odio ideologico, di violenza, di sopraffazione. Il fascio Ramelli, come lo chiama lei, era un ragazzo normale, un figlio, un fratello, un fidanzato.

Un ragazzo normale che ha avuto l’ardire di appassionarsi a un’idea e di rivendicare la libertà di manifestarla, contro chi voleva tappargli la bocca.

Sergio Ramelli non aveva nessuna colpa. Forse, in verità, una l’aveva: era ostinato a dire le cose che pensava, quelle in cui credeva, a dispetto di chi perseguiva l’obiettivo di un mondo monocolore, senza dissenso – le ricorda qualcosa? – in cui, a chi si poneva dalla parte sbagliata, nella migliore delle ipotesi venivano spaccate le gambe, nella peggiore veniva fracassato il cranio o arrivava un proiettile in corpo.

«Hazet 36: fascista dove sei?». Dico bene? D’altronde era un tempo in cui uccidere un fascista non era reato.

Un po’ come oggi non lo è insultare, dileggiare, diffamare e censurare chi si fa portatore di idee invise al pensiero unico. Quello dei giusti, dei buoni, dei dotti, degli intellettuali per eccellenza. 

Nulla di nuovo sotto il sole. Quella del fascio Ramelli, insomma, è una storia che si ripete. 

Tentando – lei sì – di riscrivere la storia, nel suo discutibile articolo prosegue: «Non può essere considerato eroe chi in vita professava un’ideologia fascista che giustifica l’uccisione della libertà e dei diritti di ciascuno. Ha diritto, questo sì, alla giustizia che lui stesso non avrebbe concesso agli avversari, ma eroe, per favore, no. Attenti dunque a come si racconta la storia».

È singolare che lei sia in grado di tratteggiare la personalità e il pensiero di Sergio Ramelli con così tanta precisione: eppure, lo testimonia la verità processuale oltreché quella storica, non ci fu traccia di violenza nella breve vita di Sergio. Nessuna violenza, se non quella che si trovò a subire nei mesi, lunghi, lunghissimi, che precedettero l’agguato del 13 marzo.

La verità, è che Sergio aveva solo scritto un tema: un tema che non leggeremo mai, perché qualcuno lo sequestrò e lo rese corpo di reato. Corpo di quel reato di opinione – le viene in mente niente? – che decretò la condanna a morte del fascio Ramelli. 

È vero. Quella di Sergio non è una storia di eroismo. È, però, una storia di odio: quell’odio che tanto combattete a suon di leggi e leggine ma che, a quanto pare, vi turba molto portare nelle scuole.

Perché è anche una storia di viltà: la viltà di chi lo ha perseguitato, processato, ostracizzato, e, infine, ucciso. E dopo averlo ucciso si è nascosto, salvo chiedere perdono ed offrire risarcimenti, ma solo dopo essere stato assicurato alla giustizia.

Quella di Sergio Ramelli è la storia della viltà di quelli che oggi si mettono la camicia inamidata e la cravatta griffata e si accomodano dalla parte giusta, in ogni situazione, puntando su tutti gli altri il loro dito prepotente e intriso di protervia.

Stia sereno, Barbacetto. Nessuno tenta di riscrivere la storia: la storia di Sergio è raccapricciante così com’è.

Non c’è alcunché che si possa aggiungere per renderla più agghiacciante, dolorosa, paurosa: Sergio accerchiato. Sergio pestato.  Sergio processato dai compagni. Sergio e i suoi insegnanti indifferenti. Sergio costretto a cambiare scuola. Sergio aggredito insieme al padre tra i corridoi del Molinari. Sergio colpito alle spalle e accerchiato dai compagni, otto, nove contro uno.  Sergio mandato in coma col cervello spappolato sul marciapiede. Sergio coi presidi rossi sotto l’ospedale, perché nessuno degli amici si azzardasse ad andarlo a trovare. Sergio fotografato a tradimento nel letto in cui, poco dopo spirerà. Sergio esanime, con la testa fasciata ed un tubicino per l’ossigeno su per il naso. Sergio sbattuto sulle pagine dei giornali. Sergio e quella finestra aperta la notte perché arrivasse una polmonite a portarselo via, risolvendo ogni problema ai compagni. Sergio e i suoi 47 giorni di agonia. Sergio e il suo funerale che non doveva creare problemi. Sergio vilipeso anche dopo la morte: “Sergio Ramelli, adesso sei divorato dai vermi”, “10, 100, 1000 Ramelli, con una riga rossa tra i capelli”. 

Mi dica, Barbacetto, cosa potrebbe rendere questa storia ancora più atroce? Cosa potremmo inventarci, noi che commemoriamo la morte di Sergio ogni anno, per rendere peggiore questa storia di sinistro odio purissimo?

È proprio vero, muore giovane chi è caro agli dei. Poi ci sono quelli come lei. Quelli che sputano sui cadaveri perché gli fanno troppa paura.

 

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