Ecco le due principali ragioni per riflettere sul ruolo profetico del volontariato

Ecco le due principali ragioni per riflettere sul ruolo profetico del volontariato

MENTRE LA FILANTROPIA GENERA QUASI SEMPRE DIPENDENZA NEL DESTINATARIO DELL’AZIONE FILANTROPICA, IL VOLONTARIATO AUTENTICO GENERA INVECE RECIPROCITÀ E QUINDI LIBERA COLUI CHE È IL DESTINATARIO DELL’AZIONE VOLONTARIA

Di Stefano Zamagni*

La pubblicazione del libro “#IoSiamo.Storie di volontari che hanno cambiato l’Italia (prima, durante e dopo la pandemia)” (Edizioni San Paolo 2021, pp. 224, euro 19), raccolta di storie di volontari, va salutata con grande favore. Veramente meritorio il lavoro che, con passione e intelligenza, Tiziana Di Masi e Andrea Guolo hanno voluto realizzare in un momento così particolare della vita associata e individuale come è quello attuale.

Perché ha senso, oggi, riflettere sul ruolo profetico del volontariato? Per una duplice ragione.

La prima è chiarire, una volta per tutte, la differenza tra filantropia e azione volontaria. La specificità di quest’ultima è la costruzione di nessi di relazionalità fra persone. Laddove l’organizzazione filantropica fa per gli altri, il volontariato fa con gli altri. È proprio questa caratteristica che differenzia l’azione autenticamente volontaria dalla beneficenza privata, tipica della filantropia. Infatti, la forza del dono gratuito non sta nella cosa donata o nel quantum donato – così è invece nella filantropia, tanto è vero che esistono le graduatorie o le classifiche di merito filantropico – ma nella speciale qualità umana che il dono rappresenta per il fatto di costituire una relazione tra persone.

In altri termini, mentre la filantropia genera quasi sempre dipendenza nel destinatario dell’azione filantropica, il volontariato autentico genera invece reciprocità e quindi libera colui che è il destinatario dell’azione volontaria da quella “vergogna” di cui parla Seneca nella X Lettera a Lucilio: “La pazzia umana è arrivata al punto che fare grandi favori a qualcuno diventa pericolosissimo: costui, infatti, perché ritiene vergognoso non ricambiare, vorrebbe togliere di mezzo il suo creditore. Non c’è odio più funesto di quello che nasce dalla vergogna di aver tradito un beneficio”.

Non è propriamente volontaria l’azione di chi, al di là delle intenzioni soggettive, non consente al beneficiario di porre in essere un contro-dono. Se chi riceve gratuitamente non viene posto nelle condizioni concrete di reciprocare, in qualche misura e in qualche forma, costui finirà per sentirsi umiliato e alla lunga finirà con l’odiare il suo benefattore, come appunto ci ricorda Seneca. Ciò in quanto il dono, per sua natura, provoca sempre l’attivazione del rapporto di collaborazione sociale per eccellenza, che è quello di reciprocità.

Seconda ragione è aiutare il volontariato a scegliere, in modo netto, senza ambiguità, tra due alternative: continuare sulla via, fino ad ora battuta in prevalenza, per un verso dell’advocacy e, per l’altro verso, della supplenza – la cosiddetta risposta ai fallimenti dello Stato e del mercato –; oppure intraprendere con convinzione la via della civilizzazione del mercato e dello Stato.

Restare ancorati alla prima alternativa significa, per il volontariato, accettare il ruolo di terzo (incomodo) e cioè: conservare un rapporto subordinato, ancorché non esclusivo, nei confronti delle pubbliche amministrazioni e della filantropia d’impresa; accontentarsi di occupare una posizione di nicchia all’interno della sfera del mercato; accettare di svolgere un ruolo meramente implementativo nelle politiche di welfare.

Scegliere la seconda alternativa significa, invece: mirare ad acquisire uno statuto di autonomia e indipendenza attraverso il conseguimento di una soggettività sociale e culturale; intervenire da protagonista, cioè da comprimario, nella realizzazione pratica del modello di welfare civile; dare ali robuste al principio di sussidiarietà circolare.

La lettura attenta di queste pagine ci aiuta a capire in cosa consiste la sfida che il volontariato deve sapere raccogliere: quella di battersi per restituire il principio di gratuità alla sfera pubblica, e in particolare all’economia. Per in altro modo, il contributo più significativo che il volontariato può dare alla società di oggi è affrettare il passaggio dal dono come atto privato compiuto a favore di parenti o amici ai quali si è legati da relazioni a corto raggio al dono come atto pubblico che interviene sulle relazioni ad ampio raggio.

Il volontariato autentico, affermando il primato della relazione sul suo esonero, del legame intersoggettivo sul bene donato, dell’identità personale sull’utile ovvero – per dirla con R. Esposito – il primato della comunità (cummunus: donare insieme) sull’immunità (in-munus: non donare), deve poter trovare spazio di espressione ovunque, in qualunque ambito dell’agire umano.

Il segreto del volontariato autentico sta tutto qui: esso ci aiuta a rovesciare la tradizionale (spesso consolatoria) etica della filantropia, portandoci a riflettere sulla essenzialità della dimensione del gratuito in qualunque momento dell’esperienza umana, e dunque anche in quella economica. La quale se non è certamente l’unica, neppure è una dimensione di secondaria importanza. Se è vero – come a me pare – che la gratuità può essere pensata come la cifra della condizione umana, allora essa deve caratterizzare il modo di essere anche dell’economicità.

Far comprendere come sia possibile fare economia, ottenere risultati di rilievo stando nel mercato, senza recidere il rapporto con l’Altro, è il grande contributo del volontariato, oggi. Il quale non si accontenta dell’orizzonte dell’economia solidale, ma pretende per sé l’orizzonte dell’economia fraterna, che include, senza negarla, la prima, mentre non è vero il contrario. Infatti, mentre quello di solidarietà è il principio di organizzazione della società che tende a rendere eguali i diversi, il principio di fraternità consente a persone che sono già eguali di esprimere la propria diversità, di affermare cioè la propria identità. È per questo che la vita fraterna è la vita che rende felici.

Nel Canto XV del “Purgatorio” Dante si chiede: “Com’esser puote ch’un ben, distributo in più posseditor, faccia più ricchi di sé che se da pochi è posseduto?”. Il volontariato è la risposta più convincente all’interrogativo che assillò Dante. È la logica del dono gratuito che, una volta posta all’inizio di ogni rapporto interpersonale, anche quello di natura economica, riesce a far marciare insieme efficienza, equità e gioia di vivere.

Termino con un’immagine che prendo in prestito da Fiori del male di Charles Baudelaire: l’immagine dell’albatros, un uccello che, al contrario del calabrone, possiede ali amplissime e zampe corte e sottili, comunque di dimensioni non proporzionate all’apertura alare. Quando si impadronisce delle correnti ascensionali dell’aria, l’albatros vola con tale agilità e con così stupenda maestà da sembrare che il suo volo non gli richieda grande sforzo. Non appena si posa a terra, però, diventa maldestro, sgraziato e incapace, senza l’aiuto del vento per spiccare il volo. Più agita le sue grandi ali, più appare goffo: e il risultato è che non sa fare altro che ridicoli balzi in avanti.

Il volontariato è un po’ come l’albatros: quando vola alto riceve consenso e ammirazione; quando si posa a terra, e non tende le ali al vento, svela una certa impotenza, perché “a terra” è molto più facile scontrarsi (e per ragioni quasi sempre meschine) che non “in cielo”.

È bene allora che il volontariato non presti ascolto a chi gli suggerisce di volare basso; si acconci piuttosto per intercettare le correnti ascensionali dell’aria, oggi più potenti che non nel passato. È questa la mira di questo libro, al quale auguro il successo, di lettura e di critica, che esso merita.

* Docente di Economia Politica all’Università di Bologna
e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali

Prefazione al libro
“#IoSiamo.Storie di volontari che hanno cambiato l’Italia
(prima, durante e dopo la pandemia)”
Edizioni San Paolo 2021, pp. 224, euro 19

 

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