Cristiani perseguitati: governi autoritari, reti terroristiche e leaders fondamentalisti istigano le folle ai linciaggi

Cristiani perseguitati: governi autoritari, reti terroristiche e leaders fondamentalisti istigano le folle ai linciaggi

MENTRE LA LIBERTÀ RELIGIOSA IN AFRICA SOFFRE A CAUSA DELLE VIOLENZE INTERCOMUNITARIE E DI QUELLE JIHADISTE, IN ASIA LA PERSECUZIONE DEI GRUPPI RELIGIOSI È PRINCIPALMENTE AD OPERA DI DITTATURE MARXISTE

Di Marcela Szymanski*

Sebbene la perdita di diritti fondamentali, come la libertà religiosa, possa avvenire improvvisamente, per esempio a causa di guerre e conflitti, in molti casi non si tratta di un evento immediato, bensì di un processo di erosione che avviene nel corso degli anni, simile a quanto succede quando le singole tegole di un tetto vengono spazzate via una ad una – o poche alla volta – da venti sempre più forti, e l’osservatore si rende conto solo in seguito di non avere più alcuna copertura e di essere esposto ai venti. Questi venti prendono la forma di governi autoritari, di reti terroristiche transnazionali o di leaders religiosi fondamentalisti che istigano le folle al linciaggio.

Le ragioni dell’erosione del diritto alla libertà religiosa sono manifeste, ma possono anche verificarsi come risultato dell’attrito creato dall’introduzione di nuove leggi e disposizioni che, avendo identificato la religione come parte del problema, costringono gradualmente le identità religiose fuori dallo spazio pubblico. Lo Stato, in quanto custode della legge, è obbligato a permettere all’individuo di «manifestare la propria religione o il proprio credo in pubblico o in privato» (Nazioni Unite, Dichiarazione universale dei diritti umani, 1948), mantenendo la sfera pubblica aperta a tutte le religioni e a chi non professa alcuna religione. Senza queste protezioni statali, tale diritto umano inalienabile diventerebbe vulnerabile e rischierebbe di scomparire.

Ci sono dei paesi dove la tutela della libertà religiosa è quasi del tutto assente (Paesi in rosso) e dove è minacciata (Paesi in arancione), mentre una nuova classificazione, “sotto osservazione”, indica i Paesi in cui emergono nuovi fattori allarmanti che mettono potenzialmente a rischio il diritto individuale alla libertà religiosa. Laddove le violazioni della libertà religiosa nel nostro Rapporto del 2018 venivano appena accennate, abbiamo registrato un’accelerazione e si sono aggravate fino alla situazione attuale che vede attacchi sistematici ed eclatanti compiuti da governi – come ad esempio quelli della Cina e della Corea del Nord – da organizzazioni terroristiche internazionali – come Boko Haram o il sedicente Stato Islamico – e da altri gruppi fondamentalisti. Questi contesti sono stati esacerbati dalla pandemia di COVID-19.

Gli Stati si sono serviti dell’insicurezza per aumentare il controllo sui loro cittadini, e gli attori non statali hanno approfittato della confusione per reclutare, espandersi e provocare crisi umanitarie più ampie. Il biennio in esame, tuttavia, ha anche evidenziato progressi significativi soprattutto per quanto riguarda il dialogo interreligioso, così come il ruolo sempre più importante dei leaders religiosi nella mediazione e nella risoluzione delle ostilità e dei conflitti.

Relativamente alle persecuzioni estreme (Paesi segnati in rosso) circa quattro miliardi di persone, ossia poco più della metà (51 per cento) della popolazione mondiale, vivono nei 26 Paesi classificati come quelli in cui vengono perpetrate le più gravi violazioni della libertà religiosa. Quasi la metà di questi Paesi si trova in Africa. Nell’Africa sub-sahariana, le popolazioni sono sempre state storicamente divise tra agricoltori e pastori nomadi, con occasionali focolai di violenza, derivanti da conflitti etnici e basati sulle risorse, che si protraggono da tempo e sono stati più recentemente esacerbati dal cambiamento climatico, dalla crescente povertà e dagli attacchi di bande criminali armate. Nonostante ciò, per la maggior parte, le comunità e i diversi gruppi di fede hanno vissuto insieme in relativa pace. Tuttavia, nell’ultimo decennio le violenze sono scoppiate in tutta la regione con una ferocia inimmaginabile.

Questo conflitto parossistico ha liberato la frustrazione repressa di generazioni e generazioni di giovani privi di diritti, che hanno sofferto la povertà, la corruzione e le scarse opportunità di istruzione e di lavoro. Queste frustrazioni, a loro volta, hanno fornito il combustibile per l’ascesa di gruppi armati, come i militanti islamici, sia locali che più recentemente stranieri, e di gruppi jihadisti transnazionali impegnati in una persecuzione mirata e sistematica di quanti non accettano l’ideologia islamista estrema, siano essi musulmani o cristiani. Negli ultimi due anni, i gruppi jihadisti hanno consolidato la loro presenza nell’Africa sub-sahariana e la regione è diventata un rifugio per oltre due dozzine di gruppi che operano attivamente – e sempre più in collaborazione tra loro – in 14 Paesi e includono affiliati dello Stato Islamico e di Al-Qaeda. Lo sviluppo di questi affiliati è avvenuto in un lasso di tempo allarmante, seguendo un modello familiare. Gli attacchi delle bande criminali locali, incitate dai predicatori jihadisti salafiti, sono passati dall’essere sporadici e arbitrari a ideologici e mirati. In certi casi le azioni di una banda sono culminate in una sinistra definizione, ovvero l’affiliazione alla provincia di un cosiddetto califfato di una rete islamista transnazionale.

Milioni di persone sono fuggite dalle regioni di conflitto e vivono ora in condizione di sfollati interni o di rifugiati nei Paesi vicini. Sono state segnalate gravi violazioni dei diritti umani, di cui donne e  bambini sono spesso le vittime. Milioni di persone nell’Africa sub-sahariana affrontano l’indigenza dopo essere state costrette ad abbandonare i loro campi e le loro piccole imprese tradizionali. I gruppi armati impediscono l’accesso agli aiuti umanitari causando gravi carestie, mentre le donne e i bambini sono ridotti in schiavitù e gli uomini sono forzatamente reclutati tra le file degli estremisti. Un esempio significativo in tal senso è rappresentato dal Burkina Faso, dove alla fine del 2020, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, più del 60 per cento del territorio non era accessibile agli operatori umanitari. I governi non sono in grado di affrontare la questione, o in alcuni casi sembrano non averne l’intenzione. Notevolmente meglio equipaggiate delle forze armate locali, le milizie jihadiste finanziano le loro attività attraverso rapimenti, saccheggi e il traffico illecito di esseri umani, minerali preziosi e droga. Solo recentemente sono state istituite task force multinazionali al fine di aiutare i governi locali.

Mentre la libertà religiosa in Africa soffre a causa delle violenze intercomunitarie e di quelle jihadiste, in Asia la persecuzione dei gruppi religiosi è principalmente ad opera di dittature marxiste. In Cina e Corea del Nord, i cui governi sono i responsabili delle più gravi violazioni perpetrate nelle nazioni della categoria rossa, la libertà religiosa è inesistente, così come la maggior parte dei diritti umani. In Corea del Nord non sono riconosciuti i diritti umani fondamentali e la persecuzione prende di mira qualsiasi gruppo che sfidi il culto della personalità del governo di Kim Jong-un, pur riservando un trattamento particolarmente duro ai cristiani. In tal senso, il regime può essere definito come “sterminazionista”. In Cina, dove quasi 900 milioni di persone, su una popolazione di 1,4 miliardi, si auto-identificano come aderenti a qualche forma di spiritualità o religione, il controllo da parte del governo è implacabile. A rafforzare la supremazia dello Stato contribuiscono la sorveglianza massiva, inclusa quella che utilizza la tecnologia dell’intelligenza artificiale, un sistema di credito sociale, che premia o punisce i comportamenti individuali, e una brutale repressione dei gruppi religiosi ed etnici. Come rivela l’analisi regionale, «il Partito comunista cinese (PCC) usa uno dei più pervasivi ed efficaci sistemi di controllo statale delle religioni attualmente in funzione in tutto il mondo». Ciò si evince
in particolare dall’internamento di massa e dai programmi coercitivi di “rieducazione” che vedono coinvolti più di un milione di uiguri, per lo più musulmani, nella provincia di Xinjiang. Sebbene in Cina vivano circa 30 milioni di musulmani, tra cui 13 milioni di uiguri che aderiscono ad una branca sunnita dell’Islam, piuttosto che cercare di proteggere i loro correligionari, alcune nazioni musulmane sunnite hanno preferito collaborare con le autorità cinesi deportando gli uiguri che cercano rifugio.

Di tutti i Paesi membri dell’ONU, soltanto gli Stati Uniti e il Canada hanno descritto gli atti compiuti dalle autorità cinesi come un genocidio. Nel periodo in esame, il Myanmar (Birmania) si è spinto fino a compiere il peggior crimine contro l’umanità, ovvero il genocidio. Le aggressioni in corso contro i cristiani e gli indù nello Stato di Kachin sono state compiute all’ombra di un massiccio attacco a più fasi da parte dell’esercito e di altri gruppi armati contro la popolazione rohingya, a maggioranza musulmana, nello Stato di Rakhine. Costretti sistematicamente a trovare riparo nel vicino Bangladesh, si stima che un milione di rohingya abbia trovato rifugio in campi dove le persone accolte sono solitamente vittime di malattie, sfruttamento, abusi sessuali e omicidi. Contrariamente alla Cina, il governo del Myanmar ha ricevuto l’ordine dalla Corte internazionale di giustizia di attuare misure per porre fine al genocidio, ed è in corso un’indagine.

Oltre alle restrizioni religiose imposte dalle dittature marxiste e dai regimi militari, una grave sfida alla libertà religiosa in Asia viene dai crescenti movimenti di nazionalismo etno-religioso. Forse l’esempio più esplicito di questa tendenza è l’India, dove vivono quasi 1,4 miliardi di persone ed è un Paese a maggioranza induista, pur con una significativa presenza di appartenenti a minoranze religiose quali musulmani e cristiani. Con un settore economico in calo e la necessità di aumentare i propri sostenitori, il partito al potere, il Bharatiya Janata Party (BJP), promuove una visione sempre più nazionalista – che consiste nel sostenere che l’India sia per natura una nazione induista – destinata a riscuotere consensi tra la maggioranza della popolazione. L’India non è sola. Una simile tendenza riguarda miliardi di persone che in Asia vivono prevalentemente in contesti democratici o semi-democratici che favoriscono l’ascesa del nazionalismo religioso maggioritario. Lo stesso avviene infatti nel Pakistan a maggioranza musulmana, nel Nepal a maggioranza indù e in Paesi a maggioranza buddista quali Sri Lanka, Myanmar, Thailandia e Bhutan.

Comune a tutti i Paesi indicati in rosso, ma più evidente in Pakistan, è il profondo impatto sui più vulnerabili. Donne e bambine appartenenti alla «religione sbagliata» vengono infatti rapite, violentate e obbligate a cambiare la loro fede attraverso le cosiddette conversioni forzate. In quanto appartenenti a minoranze e dunque di fatto cittadine di seconda classe, queste donne e bambine hanno poche o nessuna possibilità di ottenere giustizia, nonostante il fatto che siano vittime di crimini punibili ai sensi del diritto comune. I loro diritti sono così ampiamente negati che molte di loro diventano schiave e prostitute.

* Estratto da: Aiuto alla Chiesa che Soffre Internazionale, Libertà religiosa nel
mondo 2021, aprile 2021, https://acninternational.org/religious-freedom-report/

Il Rapporto 2021 sulla libertà religiosa nel mondo è un prezioso studio pubblicato dalla Fondazione Pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre. Quella del 2021 è la quindicesima edizione del Rapporto, prodotto ogni due anni e pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano, portoghese e spagnolo.

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