Più della Liberazione politica conta quella spirituale e S. Marco ne è un simbolo
La festa della Liberazione divide, nel ricordo feroce di una guerra fratricida
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Di Benedetta De Vito
In casa de Vito, il 25 aprile non si festeggiava perché, per noi tutti, oggi era ed è solo e semplicemente San Marco, che è un santo evangelista, forse cugino di Gesù, caro a chi, come mia madre, è nata nelle basse terre del Nordest, lì dove le montagne, alte e fiorite in bianco di stelle alpine, sono un bel contorno violetto alla piana, dabbasso, coltivata in colori di terra che sono, per me, i preferiti.
Non si festeggiava affatto la Liberazione perché, più della Liberazione politica, contava, forse, non so, la liberazione spirituale e Marco, l’evangelista del Leone di Venezia, ne era simbolo e signore.
Coraggiosa, Venezia, baluardo della Cristianità lo era stata e quell’anima battagliera, in arco d’oro, ieri e oggi ancora mi appartiene.
Non così la festa della Liberazione che, da che ho memoria io, divide, nel ricordo feroce di una guerra fratricida. Di qui i rossi, che gridano vittoria, di là i neri immusoniti e costretti a sventolar bandierine. E in questo nostro povero Paese è sempre un dividersi in guelfi e ghibellini. Anche oggi, tra chiusuristi e aperturisti…
Seguo, dunque le orme di San Marco per regalarvi, se vorrete, un 25 aprile differente e vado a capo per cominciare.
Ho ritrovato San Marco, durante le mie lunghe passeggiate solitarie nella Roma che amo, prima nella chiesa di Santa Maria in Lata dove, nei sotterranei, pare abbia vissuto i suoi giorni romani. Poi proprio in piazza Venezia dove, di solito, si festeggia anche il giorno della Liberazione, la festa che divide, mentre Marco (che è il nome del mio fratello più caro e forse l’unico che ho…), San Marco, unisce.
Ed ecco, la stupenda Chiesa di San Marco, che è di sguincio al gran palazzo rinascimentale noto come Palazzo Venezia. La Chiesa che è basilica era cappella privata di Papa Paolo II, gran Pontefice rinascimentale, di famiglia dogale, che proprio qui volle costruire la sua splendida dimora: il Palazzo Venezia, appunto.
Paolo II, nobile veneziano dal gran naso aquilino, al secolo Pietro Barbo, volle, nelle sale sue raccogliere ciò che più gli piaceva, in quadri e porcellane e altre meraviglie, che oggi sono il museo ospitato nelle sacre stanze.
Tra i dipinti, lo splendido doppio ritratto del Giorgione, sì il pittore dell’enigmatica Tempesta. E tanto simpatico era Paolo II (amatissimo dai Romani) che, appassionato di corse di cavalli berberi (le quali si tenevano lungo la via Lata che da loro prende il nome di Via del Corso..) per veder correre i destrieri a rompicollo già fino a Piazza del Popolo dove era il traguardo, si stirava e contorceva dal balcone che doveva, molti anni dopo, ospitare il Duce, Mussolini che apostrofava le folle a viso in su.
E proprio qui, ai piedi del Vittoriano, sotto al balcone veneziano di San Marco che fu poi fascista, si festeggia ancora adesso il 25 aprile… Tutto quanto, fascismo e antifascismo, rossi e neri, impacchettati, in Piazza Venezia!
Mi pare, inoltre, che sbiadito sia oramai il senso della festa perché dall’America non è arrivata, come pensavamo (e non sono certo l’unica ad averlo nel cuore), solo la Liberazione, bensì, in bauli oscuri, forse, una nuova schiavitù, che bacia le nuove tecnologie, uccide la tradizione, innaffia tutto di Coca cola e ci lascia attoniti e padroni di nulla.
Così io, nel lumeggiar di questo 25 aprile, vieppiù sbiadito dalla pandemia che è guerra contro l’invisibile, un 25 aprile, che oramai scolora nel suo significato come tante feste nazionali impolverate, vecchie e oramai senza più sugo, scrivo, non di fascismo e antifascismo e partigiani, ma, non me ne vogliate, di angeli metropolitani, messaggeri celesti, piccoli Ermes che, con il caduceo, mostrano la via a quanti hanno orecchie e occhi e cuore…
Tutti quanti li incontriamo, senza saperlo, lungo il cammino nel mondo a testa in giù che sembra l’unica cosa vera e che invece non lo è. Sono angeli e basta ascoltar la loro parola, una sola, per capire il lume divino che ci accende.
Gli angeli, mentre noi corriamo nel vortice della vita che corre, recano un dono silente che tutto cambierebbe. Se solo lo volessimo. Ma siamo ciechi e sordi e spesso ho visto angeli – ché io li vedo, anche quelli degli altri – restarsene con il pacchetto in mano, fermi nella corrente della vita vera mentre quegli altri, pieni di burbanza, inconsapevoli, a correr via, travolti dal rumore, tutti indaffarati a riempirsi il capo del primo 25 aprile che passa, vuoti, ma pieni di slogan, di rumore, di parole al vento…
Oggi la finisco qui, ché è nel sogno il mio scrivere leggero e con un batter d’ali, vi auguro buona festa…
E mentre tutt’intorno mi par di vedere rovine, lì dove ogni festa “civile” (il 25 aprile, il 1 maggio) si trasforma in rissa e insulto e furia cieca, mi ha consolato veder Cagliari bella invasa dai costumi sardi di donne e uomini, nella processione santa, bella, splendente, di Sant’Efisio. E con un saluto a un Efisio sardo che conosco fin da bambina e che mi offrì il mirto per la prima volta, passo e chiudo!