Il filosofo Meneghel e quella via per accedere alla contemplazione intellettuale e cristiana
“LA LETTURA AIUTA A INTERPRETARE LA VITA. LA VITA PERMETTE DI COMPRENDERE LE ESIGENZE DA CUI NASCE LA LETTERATURA”
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Di Angelica La Rosa
Occorre “promuovere il ritorno della Scolastica nell’arena del dibattito internazionale, delle aule d’accademia, fino a risvegliare l’interesse autentico degli studenti e dei giovani filosofi, ossia riconquistare il ruolo per cui è nata. Questo obiettivo non dovrebbe limitarsi all’esclusivo primato teologico, per quanto importante, ma costituire una vera e propria via praticabile per accedere alla contemplazione intellettuale e cristiana, anche da parte di laici e scettici”. A dirlo, in questa intervista per Informazione Cattolica, è il filosofo Andrea Meneghel.
Nato a Udine nell’aprile del 1998 da famiglia veneta, convertitosi al Cattolicesimo dal 2016, Andrea Meneghel è laureato in Filosofia presso l’Università degli studi di Firenze, studia anche i classici latini e italiani e la musica lirica.
Meneghel cura una rubrica settimanale sulla liturgia antica sull’emittente Telepordenone e potremmo definirlo, usando una sintesi giornalistica estrema, il “Diego Fusaro cattolico”.
Come è nata la sua passione per la filosofia?
Mi sembra meno corretto parlare di passione – se non in quanto sono stato mosso come amante dall’amata – rispetto a una viva inclinazione che, attraversando la fanciullezza, mi ha reso più sensibile alle bellezze intellettuali a vantaggio di piaceri diversi da quelli che cercavano i miei coetanei, con le conseguenti frustrazioni e idiosincrasie da isolamento che non intendo certo negare. Non avevo nulla di diverso da loro, anzi registravo i miei comportamenti come perfettamente naturali e tutt’ora sostengo che siano in armonia con l’essenza – ebbene no, non mi scuso per usare questo termine – dell’uomo, che come ricorda San Tommaso non nasce per godere soltanto dei piaceri sensibili. La ricerca del vero si è palesata ai miei occhi nelle vesti della filosofia solo negli ultimi anni e, a voler essere sincero, posso percorrere a ritroso le origini di questa radiosa parusia fino a una donna che, seducendomi, mi ha permesso di uscire da quello stato di autoreferenzialità proprio dei bambini, che difficilmente si collocano con obiettività nel mondo fatto di esigenze oggettive che li circonda. Per molti versi ritengo che la filosofia sia il compimento spirituale di un amore fisico e a tutti coloro che desiderano dedicarsi a questa ricca esperienza non consiglio di studiare di più, ma amare di più. Il rischio di essere resi sterili e freddi dalla lettura è almeno pari alla possibilità di coltivare, pur nell’ignoranza, un animo buono, che dovrebbe essere il fine autentico della filosofia.
In quale misura, quindi, avvicinarsi alla bella Sophia è stata una scelta consapevole e quanto invece una passione?
Non sono in grado di segnare i confini fra l’una e l’altra causa. In parte è vero quello che amavano ripetere i greci: la nostra indole ci guida come un demone e felice può dirsi colui che è sospinto da un buon (εὖ) demone (δαίμων). Il momento della decisione è tuttavia irriducibile – il demone va assecondato – e cristianamente sono portato a sostenere che i fenomeni para-mondani dei greci altro non siano che la traccia della Provvidenza.
Ci può indicare tre opere filosofiche che, a suo giudizio, un cristiano dovrebbe leggere…
Su suggestione dantesca mi riesce spontaneo proporre l’Eneide – anzi l’Eneida che, come scrive il Sommo Poeta, fu mamma del poetare per il cristiano Stazio – la quale si inserisce senza ombra di dubbio nel novero delle opere pagane nelle quali Sant’Agostino vedeva sparsi i semi del Verbo. Ricordo in breve il toccante elogio che Dante rivolge al suo maestro: Virgilio non può salvare se stesso, essendo vissuto prima della Redenzione, ma può, con la sua saggezza naturale, convertire e perciò stesso salvare un uomo come Stazio. L’Eneide è una colonna della coscienza cristiana dell’Europa e un testo fondamentale per la formazione morale e culturale della comunità. Per quanto riguarda quella ricca e poliedrica stagione culturale che va sotto il nome di Medioevo – soggetta purtroppo a noti e obsoleti pregiudizi – suggerisco di studiare, pazientemente, tre o quattro capitoli a piacere (non ho dubbio che poi questo medesimo piacere protrarrà oltre la lettura) della Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino, specialmente quelli che riguardano la natura di Dio (S. T. I qq. 3-14), l’amore (S. T. Ia, IIae qq. 26-28), o le forme di vita (S. T. IIa, IIae qq. 179-182). Si può trovare apud interretem – ossia su internet, secondo la simpatica definizione del sito ivi proposto – tutta la Summa all’indirizzo: Corpus Thomisticum. Unica caratteristica che potrebbe rappresentare un limite per alcuni utenti, il testo è in latino: va ricordato però che il latino di San Tommaso è fra i più eleganti e scorrevoli dell’intera produzione medievale. Fra i pensatori moderni, nonostante molti si dichiarino e confessino cristiani – Giorgio Guglielmo Federico Hegel, ad esempio, si riteneva un perfetto cristiano; Goethe addirittura sospettava di essere l’unico – ho personalmente tratto giovamento dalla lettura della Scienza Nuova di Gian Battista Vico, filosofo partenopeo del Settecento, in particolare per l’accurata analisi storica e filologica dello sviluppo sociale dalla preistoria al razionalismo coevo e per l’argomentazione magistrale – e sono tentato di dire definitiva – intorno alla Provvidenza, sola opzione ragionevole per interpretare la storia fra le due alternative aporetiche del “caso” e del “fato”. Per concludere, consiglio in generale di leggere direttamente il testo dell’autore, valendosi di una buona traduzione, senza anticipare troppo i contenuti con saggi introduttivi, che spesso conducono a normalizzare il giudizio prima ancora di esercitare il pensiero critico; a meno che questi non siano a loro volta saggi classici (come, valga l’esempio, quello di Tasso Sul Poema eroico…).
Lei da quale di queste tre opere si sente particolarmente influenzato nella sua attività quotidiana?
Per rispondere brevemente, direi da tutte: ho letto prima l’Eneide e, a distanza di un anno, alcuni passi della Scienza Nuova; l’anno successivo ho ricevuto come gradito dono e iniziato a leggere la Summa Contra Gentile di San Tommaso. È stato un percorso. Credo però di poter interpretare la domanda in un senso più ampio, estendendo l’oggetto alle mie generali abitudini di lettura; è la parte che reputo più interessante. Mi sento influenzato da tutte quelle opere a cui ho dato il permesso di formare l’animo, riconoscendo negli autori quella vera e rarissima dote da cui prendono il nome: l’autorità. Leggo poco e molto lentamente, medito in gran misura, rigetto quello che sospetto possa rendermi peggiore. Io vivo come leggo e leggo come vivo. Non vi è soluzione di continuità, dal momento che vicendevolmente la lettura aiuta a interpretare la vita e la vita permette di comprendere le esigenze da cui nasce la letteratura. Vi è – se così possiamo dire – una compenetrazione fra le due attività, una perfetta liscezza con la quale cerco di trascorrere dall’una all’altra.
San Tommaso d’Aquino, Sacerdote e dottore della Chiesa, è una delle colonne del pensiero filosofico occidentale. Qual è il suo pensiero sugli insegnamenti di questo grande Santo?
Credo che pochi filosofi siano stati traditi in pari misura dalla filosofia successiva e il motivo è duplice: in primo luogo, dopo aver accolto una sintesi tanto puntuale, densa e lucida come quella dell’Aquinate, un allievo difficilmente potrà apportare novità significative, rischiando di rimanere un semplice divulgatore dell’opera del maestro (e converrebbe riflettere se e in quale misura anche questa opera di divulgazione e difesa da parte degli epigoni e dei confratelli domenicani abbia condotto a una visione idealizzata delle pagine delle Summae); in secondo luogo, dimostrare di essere o proporsi quali interpreti fedeli, innovatori ovvero critici di un autore è un modo per associarsi alla sua fama, e ciò rappresenta una tentazione costante. Propongo di deporre per un istante lo zelo ermeneutico che attraversa tutta la speculazione occidentale e interrogare il Santo Tommaso come si farebbe nei confronti di un fratello: cercare le sue parole, ascoltare le sue tesi, liberamente accoglierle, rifiutarle o confrontarle con altri grandi autori della filosofia. Francamente, non trovo contraddizione nell’accettare la metafisica dell’Angelico Dottore e, al contempo, meditare con rispetto e serietà la dialettica di Hegel. Sarà forse un limite e un’immaturità da giovane studioso: reputo oziosa l’acredine di quegli ambienti nei quali la gelosia intellettuale prevale sull’umiltà del dialogo, che si traduce nella precedenza della conoscenza sulla valutazione. Come scriveva Petrarca, a noi interessa la verità, non le sette.
Quanto sarebbe necessario, a suo giudizio, riscoprire la riflessione metafisica di San Tommaso d’Aquino oggi?
Una riscoperta integrale della filosofia dell’Aquinate corrisponderebbe in buona misura a una soluzione sul piano storico del pregiudizio che sopra citavo e a un’uscita della cultura dall’immobilismo che la condiziona attualmente. Reputo pertanto naturale e conseguente, alla luce di quanto affermato, promuovere il ritorno della Scolastica nell’arena del dibattito internazionale, delle aule d’accademia, fino a risvegliare l’interesse autentico degli studenti e dei giovani filosofi, ossia riconquistare il ruolo per cui è nata. Questo obiettivo non dovrebbe limitarsi all’esclusivo primato teologico, per quanto importante, ma costituire una vera e propria via praticabile per accedere alla contemplazione intellettuale e cristiana, anche da parte di laici e scettici. Il fallimento sarebbe accontentarsi di un posto, magari di nicchia, nell’Olimpo grigio delle filosofie da manuale, sempre disponibili alla conferenza occasionale o all’approfondimento specialistico, scientifico nell’accezione deteriore del temine. La metafisica è più viva che mai, basta una semplice constatazione a dimostrarlo contro tutte le presunte “confutazioni” avanzate nei secoli del razionalismo: tutti noi abbiamo idea di cosa sia il tempo; quando tuttavia leggo in San Tommaso (S.T. Ia IIae, q. 31, a. 2 c.) che esso si definisce numerus successivorum (il numero delle cose che si presentano in successione) è come se immediatamente penetrassi più a fondo nella medesima nozione, estendendone il significato, nonostante il fatto che le due espressioni indichino il medesimo ente (il tempo) e risultino quindi in una tautologia (a = a), che è però densa di significato per la coscienza che, leggendo, si forma. Secondo la mia provocatoria e modesta opinione, l’epoca che definiamo post-metafisica è in realtà l’epoca nella quale la metafisica è onnipresente e diffusa quasi come un secondo abito delle coscienze. Sotto la maschera dell’uomo che nega la metafisica vi è spesso un amante ferito che spera con tutto il cuore che la metafisica esista e lo riesca a incontrare.
In un suo lavoro scientifico ha riflettuto sul rapporto tra Francesco Petrarca e Tommaso d’Aquino a proposito di umanesimo. Può parlarcene brevemente?
Leggendo in parallelo i due Autori mi sono accorto non solo del vicendevole rafforzarsi delle loro pagine, ma anche della possibilità di riposare la fatica maturata con lo studio alternando l’uno all’altro e appagandomi di scorgerne il silenzioso accordo. Ho intuito che l’umanesimo filosofico e cristiano sarebbe stato il canale migliore per permettere al lettore moderno di accedere ai tesori della scolastica senza prima scontrarsi con l’eccessivo peso metafisico dei saggi su San Tommaso. In seguito, ho rintracciato alcune convergenze di stile e contenuto che meritavano di essere messe in luce, meditando a lungo il modo migliore per collocarle in un quadro ermeneutico d’insieme che riuscisse al contempo complesso, evitando triviali semplificazioni, e coraggiosamente fecondo. Devo ringraziare un saggio di Toffanin – acuto critico della letteratura e storico dell’umanesimo, vittima dell’oblio con il quale la cultura italiana del tardo Novecento ha soffocato insieme a lui molti autori e numerose problematiche emerse durante i primi anni del secolo – che mi ha permesso di ricavare i primi rudimenti della mia soluzione: il tomismo come inedita chiave di lettura della filosofia di Petrarca, quale emerge soprattutto dagli scritti latini ampiamente trascurati dalla vulgata manualistica. Valorizzare Petrarca attraverso San Tommaso e riscoprire la Scolastica con la luce dell’Umanesimo. Quello che più di ogni altra cosa mi sarebbe stato caro si riassume nella metafora del ponte, via di accesso privilegiata per raggiungere l’una e l’altra sponda felice di cultura. L’opera, anche contro le mie aspettative – come ogni padre severo sono puntualmente scontento delle mie creature – è stata accolta con ampio gradimento e apprezzata perfino da chi, per formazione professionale, era meno accline ad accettarne il nucleo ideologico. La soddisfazione più grande di tutte l’ho ricevuta da mio nonno, il quale a 92 anni e senza alcuna formazione filosofica si è impegnato a leggere ogni sera una pagina della mia tesi fino alla fine, con una lucidità e una volontà di affrontare cose per lui ignote che era uno spettacolo a vedersi: segno della forza indomita delle passate generazioni. Non so ancora quale sia il futuro di questo lavoro. Fra tutti i consiglieri, mi fido di Orazio, quando invita a tenere le opere nove anni nel cassetto prima di valutare se renderle pubbliche.
Disagio puro.