La giustizia sociale: un principio da riproporre oggi nel modo più assoluto
DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA? BUTTIAMOLA IN POLITICA: “G” COME GIUSTIZIA
LA GIUSTIZIA SOCIALE, UNA VOLTA TRAMONTATE LE IDEOLOGIE ED AFFERMATASI LA “GLOBALIZZAZIONE DELL’INDIFFERENZA”, È UN PRINCIPIO DA RIPROPORRE OGGI NEL MODO PIÙ ASSOLUTO. DAL PUNTO DI VISTA SOGGETTIVO ESSA SI TRADUCE ANZITUTTO NEL RICONOSCIMENTO DELL’ALTRO, CONCEPITO, MALATO O DISABILE CHE SIA, COME PERSONA UMANA, DOTATA DEGLI STESSI DIRITTI E DOVERI DI OGNI UOMO SANO ED EFFICIENTE
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Di Giuseppe Brienza*
La giustizia, che regola i rapporti sociali in base al criterio dell’osservanza della legge, non è una semplice convenzione umana, perché quello che è “giusto” non è originariamente determinato da maggioranze o parlamenti, bensì dalla sua conformità all’identità profonda dell’essere umano. Lo ricorda il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa(cfr. nn. 201-203) ma lo riconosce anzitutto la retta ragione e la legge morale naturale.
Il tema della giustizia, se ci pensiamo bene, rientra a pieno titolo anche nel contesto dell’economia di una nazione. Infatti, ciò che priva ciascun cittadino di “ricevere il suo”, sia in termini di giusta pena finalizzata alla rieducazione sia in termini di risarcimento per la “giustizia ingiusta” causata dalle ataviche e sempre più gravi crisi della macchina (anche amministrativa) della magistratura italiana, costituisce a tutti gli effetti un danno (ed un regresso) economico, tanto a livello individuale quanto collettivo. A questo si aggiunga, a tacerne altri (in primis quello del “costo della corruzione”) il crescente fenomeno dei casi in cui le spese processuali superano l’importo controverso all’origine della lite giudiziaria.
Un’applicazione dunque per mettere in pratica la giustizia per i cittadini? Al di là dei grandi principi, diremmo la proibizione degli incarichi extra-professionali dei magistrati. In caso, andrebbero richieste le dimissioni preventive, prevedendo un congruo trattamento di fine rapporto (Tfr). Uno dei motivi della lentezza della macchina, in effetti, è la “perdita di vocazione” (professionale, s’intende) del magistrato. E non è un caso che, negli scorsi anni, non sono mancate voci realistiche che hanno posto in risalto non solo la mancata efficienza ma anche il
“ruolo politico” di quei magistrati che si sono costruiti brillanti carriere parallele (o meglio, una ristretta élite di questi) all’interno dei gabinetti ministeriali e negli enti pubblici strumentali.
Poi c’è la questione del processo giusto che, in linea di diritto, è questione attinente non solo l’ordinamento nazionale, ma anche quello europeo e internazionale. Per quanto riguarda il “vecchio continente”, come non citare il disposto in merito della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali(CEDU), firmata oltre settant’anni fa (nel 1950) dal Consiglio d’Europa? Stiamo parlando di un trattato internazionale cui aderiscono tutti i 47 paesi che formano il Consiglio d’Europa, 27 dei quali sono membri dell’Unione europea (UE). Ebbene, l’articolo 6 della CEDU intitolato “Diritto a un equo processo”, prevede che ogni persona abbia «diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti» (comma 1).
Ancora prima di questo chiaro articolo, nel nostro ordinamento dovrebbe essere sul punto applicato, l’art. 24 della Costituzione repubblicana: «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi». Ma come ottenere praticamente il rispetto di questo sacrosanto principio costituzionale del diritto alla difesa e del giusto processo? Rispondiamo telegraficamente visto il poco spazio a disposizione: con la separazione delle carriere della magistratura inquirente e di quella giudicante.
Senza giustizia oltre ai danni economico ed umano del quale abbiamo accennato, è arrecato alla società anche un “danno ambientale”. Sì, perché laddove il sistema della giustizia non funziona, circostanza che penalizza soprattutto i più deboli e poveri socialmente, si genererebbe «un autentico disastro ambientale», come denunciato fra gli altri dall’avv. Benito Perrone. Un disastro, continua il Vicepresidente Centrale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani (UGCI) e condirettore della rivista Iustitia, «capace di corrodere nel profondo le medesime strutture sociali ed economi che. A ciascuno spetta prendere coscienza che il problema va affrontato alle radici: o una seria, organica riforma riesce a eliminare le endemiche inefficienze della giustizia o se fallisce la riforma, fallisce anche la speranza di una società giusta e rispettosa dei diritti della persona umana» (B. Perrone, Magistratura. Diagnosi di un disastro, in Studi Cattolici, n. 596 – Ottobre2010)
* Vedi qui il canale YouTube curato dall’autore dell’articolo: Temi di Dottrina sociale della Chiesa.