Il solitario aristocratico, romantico e istruito, pieno di dolore ma profondo…
GIACOMO LEOPARDI E LE SUE RIFLESSIONI SULLA FUTILITÀ DEL MONDO, L’ORGOGLIO, LA DIGNITÀ E IL PATRIOTTISMO
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Di Jozef Mikloško*
Esattamente vent’anni fa, nel febbraio 1991, incontravo a Roma da Franco Foschi, ex ministro del Lavoro italiano, direttore del Centro di Poesia Mondiale G. Leopardi di Recanati.
In quell’occasione mi aveva informato della collaborazione con l’Accademia delle scienze slovacca a Bratislava e mi aveva invitato a visitare Recanati.
Ero accompagnato dall’italianista slovacco Dagmar Sabolová, che mi ha dedicato il libro “Leopardi e il mondo slavo”. Ricordo anche che il primo insegnante slovacco a Napoli, lo scrittore Blahoslav Hečko, aveva descritto un “incontro” con Leopardi quando, nel 1942, aveva acquistato da un antiquario la sua raccolta di poesie per 11 lire.
Durante le mie due visite a Recanati, ho ricevuto diversi libri sul Leopardi. Le poesie di questo solitario aristocratico, romantico e istruito, sono piene di dolore e sofferenza, riflettono sulla futilità del mondo, l’orgoglio, la dignità e il patriottismo.
Leopardi è stato monitorato dalla Polizia durante la sua vita ed è stato boicottato.
A Recanati, la città della poesia, tutte le strade portano alla Casa Leopardi, sede del Centro Mondiale di Poesia e del Centro Nazionale di Studi Leopardiani.
Leopardi nacque qui il 29 giugno 1798. La sua giovinezza la trascorse in biblioteca.
A 15 anni suo padre gli permise di leggere libri proibiti, opere che sono conservati a Recanati.
La contessa Anna Leopardi, ultima dei suoi discendenti, ci aspettava davanti alla casa di Leopardi. Ci ha raccontato la vita e il lavoro del suo antenato, diventato curvo per lo studio.
Mi piacciono particolarmente le sue poesie Infinito, Silvia e Ginestra.
La poesia Silvia descrive la bellissima figlia di un guidatore morto di tubercolosi all’età di 16 anni.
La Ginestra è un fiore giallo profumato che cresce ai piedi del Vesuvio, che la tempesta non distrugge, ma la prima cadde vittima dell’eruzione.
La contessa Leopardi ci ha mostrato la collina che ha ispirato la poesia del 1819 Infinito.
Leggendola si coglie la sensibilità, la nostalgia e la tristezza di Leopardi:
«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.»
La contessa ci condusse anche alla finestra dello studio di Leopardi, da cui ammirava Silvia.
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore.
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
Leopardi vive a Napoli dal 1833. Al tempo del colera, nel 1836, si trasferì sul Vesuvio, dove dopo le eruzioni del vulcano ha meditato sul destino crudele dell’uomo paragonandolo al destino del fiore giallo del deserto vulcanico chiamato ginestra:
Il vulcano nella vita di Leopardi scoppiò presto, morì a 39 anni, il 14 giugno 1837, durante il colera a Napoli. Fu sepolto nella Chiesa del Buon Pastore. Nel 1939 la tomba venne aperta, il cranio e il torso risultarono mancanti. I suoi resti sono nella tomba di Posillipo.
Anche il grande poeta russo Alexander S. Pushkin, visse nello stesso periodo e morì il 29 gennaio 1837, a soli 38 anni.
Cosa avrebbero scritto se avessero vissuto più a lungo?
Intanto a distanza di anni da quei miei incontri, sono partiti per la vita eterna anche Franco Foschi, Dagmar Sabolová e la contessa Anna Leopardi.
* Già vicepremier dell’ex Cecoslovacchia