La professoressa Clara Ferranti: “La memoria è una fonte luminosa”
L’INTERVENTO ALLA REGIONE MARCHE DELLA RICERCATRICE CLARA FERRANTI SULLA SHOAH: “RICORDARE L’ALTRUISMO RADICALE DI ETTY HILLESUM”
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Di Andrea Sarra
Per la rubrica dei video, più o meno recenti, utili per conoscere la realtà che ci circonda, oggi vi proponiamo le riflessioni che la prof.ssa Clara Ferranti, Ricercatrice di Linguistica Generale presso l’Università degli Studi di Macerata, ha sottoposto al Consiglio Regionale delle Marche in occasione della recente Giornata della Memoria 2021.
Ed ecco il testo integrale dell’intervento
Memoria, riscatto e coerenza di vita
Di Clara Ferranti, lunedì 1° febbraio 2021
In qualità di coordinatrice regionale della Rete Universitaria per il Giorno della Memoria, e dopo anni di orgogliosa partecipazione al Gruppo di Lavoro istituito dall’Assemblea Legislativa delle Marche per l’organizzazione della giornata dedicata alla Memoria della Shoah, ho avuto quest’anno l’onore di essere invitata dal Presidente, Dino Latini, ad intervenire alla seduta celebrativa del Consiglio Regionale aperto, che si è tenuta il 26 gennaio 2021.
Le ristrettezze dovute all’emergenza pandemica hanno permesso solamente i saluti ufficiali, la proiezione e la lettura di passi toccanti tratti dalle pagine scritte dai testimoni della Shoah ‒ Primo Levi, Liliana Segre ed Elsa Morante ‒ e alcuni brevi interventi da parte dei membri del Gruppo di Lavoro, tra i quali la sottoscritta, con le conclusioni del Presidente della Regione Marche, Francesco Acquaroli.
Certo, le classi, con i loro lavori, ci sono mancati. Parliamo delle classi delle scuole superiori che ogni anno partecipano al concorso ministeriale “I giovani ricordano la Shoah”, grazie all’impegno profuso da insegnanti che, con abnegazione e uno spirito educativo che va oltre i propri doveri, guidano i loro ragazzi sia alla presa di coscienza di quell’orrido e vergognoso passato, sia nei percorsi di autocoscienza per l’assunzione della responsabilità presente. Emotivamente coinvolgente è sempre stato l’ascoltarli e vedere i loro lavori, che ogni tanto, è capitato, si sono anche classificati al primo posto nazionale. Quest’anno i ragazzi non hanno partecipato in aula, ma campeggiavano nel cuore di tutti gli adulti presenti.
Non è stato facile per me organizzare, per i pochi minuti consentiti, un breve discorso per il quale il mio unico obiettivo era, da un lato, onorare la memoria dei milioni di ebrei, rom, sinti, disabili, malati di mente, omosessuali, neri, oppositori politici e testimoni di Geova, sterminati dalla follia nazifascista, e, dall’altro, trasmettere agli astanti almeno un’idea buona, capace di ripresentarsi alla mente di chi ha ascoltato e che potesse rivelarsi di una qualche utilità, magari dinanzi alle scelte da compiere. Ho esordito infatti dicendo che durante quest’anno da poco iniziato, ma anche negli anni a venire, ognuno, nel proprio ruolo, sarà chiamato a fare delle scelte, a dare delle risposte, a mediare, a prendere in mano una situazione o lasciarla andare. A vivere, insomma, con un atteggiamento vigile, per il quale possiamo chiederci se una giornata celebrativa come questa può fare la differenza. E chiediamocelo almeno ad ogni celebrazione, visto che è anche un momento per riflettere, che cosa ha a che fare il Giorno della Memoria con la nostra vita. In che modo dovrebbe influire, nelle scelte, parole e azioni quotidiane, il ricordo della pagina più orribile della storia umana?
Se è vero che “la vendetta è il racconto”, è altrettanto vero che l’unico risarcimento possibile sta nella conoscenza di ciò che è stato e nella realizzazione di quei valori che il sacrificio dei nostri fratelli, morti nei campi di sterminio, o segnati a vita se sopravvissuti, ha insegnato all’umanità. Non abbiamo scuse: o introitiamo la Memoria, con la responsabilità personale e collettiva che essa comporta, o rendiamo vergognosamente vano quel sacrificio.
Invero, è proprio per questa onda lunga inarrestabile sul presente che la Memoria della Shoah, retrospezione al contempo individuale e collettiva, detiene primariamente una funzione pedagogica e civile per bambini, giovani, adulti e anziani, fungendo per ognuno da maestra e da sentinella della storia, interiore ed esteriore.
Sono tante e apprezzabili le parole che si ascoltano e si leggono in tutte le “variabili celebrative” del 27 gennaio, ma ancor più lo è la traccia indelebile chela Memoria della Shoah, e non solo nel mese di gennaio, è capace di imprimere nello spirito umano, sì da renderlo vigilante e attento ai segnali della storia presente. Vista in tal senso, la Memoria è una fonte alla quale si può e si deve attingere nell’agire quotidiano, bandendo la sterile retorica che pur aleggia in queste giornate. A proposito della frase che leggiamo ovunque e sentiamo ripetere continuamente, “perché non accada mai più”, evidenziamo innanzitutto un uso decisamente inflazionato che, insieme ad altri slogan come questo, rischia di far cadere il Giorno della Memoria in una pericolosissima vuota retorica se le parole non sono seguite da azioni e progetti, concreti e attuati. Non si vuole mettere in dubbio il senso profondo che ha ispirato frasi come questa, o il senso che vorrebbe essere trasmesso nel pronunciarle o scriverle, ma è legittimo dubitare della credibilità di chi se ne serve, o pensa di averne recepito il messaggio di cui sono portatrici, se a febbraio è stato tutto dimenticato, soprattutto da parte di chi detiene una responsabilità politica, civile, educativa e religiosa, e la vita prosegue senza che la Memoria abbia lasciato un solco doloroso e incancellabile che funga da bussola nell’agire quotidiano.
Ad ogni modo, questo monito, preso in sé e per sé, compendia la funzione educativa della storia e della Memoria perché, appunto, il fine è di evitare il ripetersi di quelle dinamiche di male che, sotto varie forme, possono condurre l’uomo alla deumanizzazione e all’efferatezza più estrema. Allo stesso modo, anche in altre espressioni, ugualmente diffuse, è insita l’idea che la storia e la riflessione sul passato possano essere una chiave di comprensione e guida per il presente, in modo da non ripetere gli stessi errori. Ad esempio, una recente affermazione di Lia Levi(rilasciata nell’intervista con Repubblica del 22 gennaio 2021),«Solo rapportandoci al nostro passato possiamo costruire l’oggi», viene a ricordarci l’eterno valore della storia passata per edificare il presente. D’altro canto, già il filosofo spagnolo Santayana asseriva agli inizi del ‘900 che «coloro che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo», affermazione che è diventata una frase-simbolo, incisa in trenta lingue sul monumento nel campo di concentramento di Dachau. Una riflessione a riguardo, di forte impatto, che fa ben comprendere la differenza tra ricordo e memoria, è quella di Piero Terracina che nei suoi incontri con i giovani diceva spesso: «La memoria non è il ricordo, il ricordo si esaurisce con la fine della persona che ricorda il suo vissuto. La memoria è come un filo che lega il passato al presente, è proiettata nel futuro e lo condiziona».
Tale affermazione suggerisce che a ogni uomo del presente è affidato questo filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro e che se ne può fare un buono o un cattivo uso. Ci suggerisce anche che la Memoria che celebriamo ciclicamente, proprio in quanto evento paradigmatico della storia, è una luce che mostra i “marcatori” del male emergente che, come un tumore in metastasi visto in controluce, alla luce della Memoria appunto, ritorna nel presente, anche camuffato sotto altre forme, e spesso con il falso nome di “bene”. E qui si aprirebbe una voragine immensa su ciò che viene fatto passare come un bene, proprio dove si scorge una incapacità di mettere al centro la dignità, la sacralità e l’inviolabilità della vita, dal suo principio alla sua fine, sostituita da convinzioni ideologiche distaccate dalla realtà che negano l’evidenza anche scientifica riguardo all’ontogenesi umana. Due formule basteranno a richiamare gli scogli contro cui deve lottare chi invece ha ben presente questa centralità: “best interest” e “politically correct”.
Se un buon uso della Memoria realizza il suo fine pedagogico e aumenta il benessere della convivenza sociale e familiare, un cattivo uso ha conseguenze nefaste, poiché diventa impossibile leggere la storia, raggiungere l’obiettivo della vigilanza e intraprendere la via della responsabilizzazione dei propri comportamenti. Tali traguardi necessitano di un punto di partenza che è, in primis, una kenosis personale, uno “svuotamento”, che sfocia nell’autocoscienza critica, scevra di quell’atteggiamento auto assolutorio che permea l’animo umano. Dall’autocoscienza critica prende avvio il processo che primaci mette in contatto con le “zone grigie” della coscienza, quelle zone della nostra interiorità dove il male viene negoziato e la colpa minimizzata o cancellata, e poi stimola l’esercizio della “facoltà di negare il proprio consenso” ‒ frase di Primo Levi a me molto cara, tratta da Se questo è un uomo ‒, opponendosi agli obiettivi del male per orientarsi al bene. Per negare il consenso al male, affinché non spadroneggi nella nostra esistenza, devastandola, occorre aver acquisito una buona dose di libertà interiore, alla quale tuttavia bisogna essere educati, poiché non si nasce già con questa dotazione, pronta all’uso. Il compito dei genitori e degli educatori è fondamentale in tal senso, prima ancora del passaggio di cognizioni.
Se il punto d’avvio per la costruzione di una vita buona va dunque cercato dentro se stessi, una roccia alla quale aggrapparsi, e da cui trarre esempio e forza, è la testimonianza dei martiri della brutalità nazifascista: di chi, tornato dall’inferno, ha raccontato e continua a raccontare l’orrore vissuto, ma anche di chi non è sopravvissuto e non può raccontare perché la sua morte, la morte di milioni di innocenti, coincide con la testimonianza, si fa racconto e diventa monito per l’uomo presente e futuro affinché, dinanzi al bivio, possa fare scelte di bene. Un bene che se giunge ad essere “radicale” diventa anche liberatorio.
Nell’ottica del bene radicale, vorrei ricordare le parole dense e significative di una donna straordinaria che quella radicalità ha saputo realizzare proprio nell’inferno del campo di transito di Westerbork: Etty Hillesum, ebrea olandese morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943. Il 13 ottobre 1942, prima di partire definitivamente per il campo di Westerbork, da cui verrà deportata ad Auschwitz insieme alla famiglia il 7 settembre dell’anno successivo, Etty annota, nel suo ultimo quaderno, parole che mostrano il compimento del suo altruismo radicale, espressione emblematica di Gaarlandt che meglio descrive l’attitudine di Etty nei confronti dell’uomo e della vita: «Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini», concludendo con la frase «si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». Riuscire oggi a diventare, come Etty, pane spezzato e balsamo, costituirebbe senza dubbio la vera rivoluzione per l’uomo moderno, sempre più individualista e imbarbarito dalle pulsioni narcisistiche ed egoistiche, ma sarebbe anche la conseguenza più alta di una Memoria sì celebrata ma soprattutto incarnata. La liberazione di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio del 1945,diverrebbe allora l’emblema della liberazione dell’essere umano che si lascia orientare al bene da questa fonte luminosa che è la Memoria.
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