Etica e Umanesimo in San Tommaso d’Aquino
DOMANI RICORRE LA MEMORIA LITURGICA DI TOMMASO D’AQUINO, SANTO E DOTTORE DELLA CHIESA. LA SUA ETICA E IL SUO UMANESIMO NELL’ARTICOLO DI UN GIOVANE FILOSOFO VENETO
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Di Andrea Meneghel
(Per leggere i precedenti articoli vedi QUI, QUI, QUI e QUI)
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L’ETICA GENERALE: NATURA, BEATITUDINE E VIRTÙ
Alcuni autori hanno dubitato che vi fosse un’etica filosofica in S. Tommaso d’Aquino, seguendo il giudizio di quanti vedono in lui solamente un teologo o separano la componente filosofica da quella teologica del suo pensiero, assimilando la prima nella seconda a riguardo dell’etica.
Altri ancora hanno limitato la portata della sua speculazione morale alla sola scienza del retto vivere in questa vita, da cui deriva all’uomo una certa perfezione.
Rispetto all’opinione dei primi, si potrebbe far notare che il titolo stesso di teologo – ricondotto al contesto culturale del Duecento – riassume in sé e potenzia la qualifica di filosofo, secondo una gerarchia verticale delle forme del sapere che è per noi oggi quasi impensabile.
Negare una piena pertinenza filosofica al procedimento dell’Aquinate, oltre a mettere seriamente in discussione tutta la speculazione medievale, sarebbe una grave miopia nei confronti di opere quali il De veritate o la S. C. G. (Summa contra Gentiles), che è condotta con rigore filosofico fino al penultimo libro.
È dunque richiesta una competenza filosofica specifica per accedere al sapere teologico, ma in quale misura le due discipline formano un unico corpo compatto?
Illustri interpreti come il Maritain o il Gilson hanno promesso di trattare distintamente le conclusioni schiettamente filosofiche e quelle teologiche. Questo è forse possibile in sede di analisi critica, ma non corrisponde necessariamente all’effettiva mens dell’Autore.
Le verità che rivela la teologia – per es. nel campo dell’etica – sono le stesse indagate dalla ragione filosofica, secondo due diversi gradi di perfezione: lo scopo dell’uomo non è duplice, terreno e ultraterreno, ma uno solo, quello stabilito da Dio, sia esso riconosciuto o meno.
La ragione perviene a delle conclusioni valide – riconoscendo, per es., nella contemplazione della verità e nella vita sociale la felicità dell’uomo – ma non sufficienti ad esaurire né lo scibile, né il desiderio umano di conoscenza e bontà. Ciò non toglie che le Verità Rivelate debbano essere approfondite con rigore anche secondo la ragione umana, e in ciò consiste la filosofia. Si noti che mentre i primi due avvicinamenti ermeneutici sono assai diffusi, il terzo pare quasi bilanciare questa tendenza a considerare l’aureola del Santo e non la penna del filosofo, ammettendo una chiave di lettura intrinsecamente secolare, ma con un rischio insidioso per la tesi che qui si vuole dimostrare. Se umanesimo vi è nel nostro Autore, esso rimane un Umanesimo cristiano, pronto a considerare l’uomo nella sua totalità morale e spirituale, con compiuto realismo, senza schiacciare l’esperienza della vita sotto il peso imponente delle Sacre Scritture.
Si può ragionare dell’etica generale e particolare secondo presupposti generosamente filosofici, prescindendo dalle virtù teologali e dai doni dello Spirito Santo, ma questo varrebbe come – mutatis mutandis – leggere la Divina Commedia fermandosi al Purgatorio44. Esiste un’etica filosofica in S. Tommaso, ma i continui intrecci di filosofia e teologia nelle sue opere ci invitano ad assecondare il mirabile equilibrio raggiunto, rispettando la forma (anche letteraria) scelta dall’Autore, senza porre cesure, per quanto metodologicamente scrupolose.
Entrando nel merito della seconda questione (se in San Tommaso d’Aquino l’etica filosofica sia da definirsi principalmente un’etica dell’intenzione o piuttosto un’etica della virtù), camminiamo per ignes suppositos cineri doloso.
Ammettendo di far prevalere la prima parte del secondo libro della Summa Theologiae, dove si considera l’etica generale, dovremmo concedere molto alla prima delle due definizioni, essendo l’atto umano diretto dall’intelligenza e, in subordine, dalla volontà, che muovono l’uomo all’operazione, la quale a sua volta si distingue moralmente secondo l’oggetto, buono o malvagio, e secondo l’intenzione; ma come non dare ascolto alle 170 quaestiones della seconda parte, che esaminano in dettaglio ciascuna delle sette virtù principali, tre teologali e quattro cardinali?
Cifre alla mano, più di due terzi delle quaestiones della seconda parte riguardano le virtù e i vizi, mentre una esigua minoranza è concessa ai principii dell’azione, onde ne viene la fondatezza della difficoltà sopra esposta, che si tenterà di sciogliere con cautela.
Le cose si possono definire in relazione al loro fine (per es. la virtù è tale in quanto abito buono) o secondo ciò che sono principalmente (la dilezione, per es., è tale perché amore mosso dalla libera decisione). Dunque non vi è ragione di inclinare verso una definizione o l’altra, essendo entrambe approvate da validi argomenti, e si rimette la decisione finale alla libera scelta dell’esegeta? Non liquiderei il problema in questo modo, per quanto comoda la soluzione. L’etica sovrasta tutta questa seconda parte, che coincide con il moto di ritorno della creatura razionale al suo fine sovrannaturale.
A gran fatica e con gravi rinunce, pertanto, si può considerare un corpo separato, isolabile con l’impiego dell’adeguato bisturi concettuale dalle relazioni vitali con l’intera struttura dell’opera, poiché affonda le radici nella prima parte (nell’essenza di Dio e nella creazione) e si dispiega nella terza (la cristologia e i sacramenti).
Conviene fare un passo indietro e lasciare che i criteri organizzativi generali della Summa illuminino dall’alto, quale piano privilegiato di lettura, le due definizioni sopra fornite.
Il moto di ritorno (che consiste nella vita virtuosa e nella contemplazione) non è una verità della sola fede: esso esprime il desiderio naturale dell’uomo che, possedendo una volontà guidata dall’intelletto, ed essendo quest’ultimo illimitato, è portato a desiderare un bene illimitato di cui godere, e così si spiega anche la malinconia e l’imbarazzo degli antichi nel parlare del fine ultimo. Questo bisogno che si riporta all’intelletto e alla volontà rimarrebbe inspiegabile e ingiustificabile se non tendesse verso un oggetto reale, intuito confusamente dalla prima volontà e ricercato con sempre crescente ardore mano a mano che le virtù (naturali, acquisite e infuse) esercitano la loro funzione di removens prohibens. Si vedono ora compendiate ambedue le definizioni che sopra si proponeva, etica dell’intenzione e etica della virtù, incluse in questo processo e quasi poste in reciproca cooperazione: entrambe si possono accogliere come combinazioni funzionali atte a rilevare aspetti distinti della dottrina; a patto però di considerare i loro oggetti in positivo, non come limitazioni, altrimenti si conosceranno facilmente troppo anguste per significare tout court l’etica dell’Aquinate.
Si noterà che per giungere a questa conclusione si è reso necessario coinvolgere argomenti teologici che esulano dall’indagine strettamente filosofica. Le due definizioni sopra esposte mantengono il pregio di ridurre la materia al solo scibile umano; per esse si può circoscrivere l’argomento teologico al solo ambito della ragione, con i rischi che si sono segnalati, ma occorre rilevare che questa non è l’unica via di accesso al patrimonio universale della Summa, astraendo dal dato rivelato.
Immaginiamo di espellere i pur connaturali versetti biblici dal testo di questa seconda parte, cosa otterremo? Un trattato umanistico o quantomeno un’opera che si presta agevolmente a una lettura orientata da una sensibilità e un apprezzamento squisitamente umanistici. Ogni parte di questa etica si anima di un afflato sublime, che la rende frammento prezioso per comprendere il valore dell’insieme, anzi per sorreggere il cammino esistenziale e nutrire l’appetito naturale di tale ritorno, che una lettura non sterilmente cursoria o freddamente accademica della Summa comporta. Articoli che all’apparenza si direbbero irrilevanti in ordine a una esposizione della dottrina complessiva possono rivelarsi la proverbiale acqua nel deserto per chi realmente e con umiltà si pone alla ricerca della vita buona, che è il fine dell’etica.
È giusto in una certa misura comprimere le angosce coscienziali e superare con sapiente discernimento talune asperità, anche estetiche, che sono da ascriversi più all’epoca che all’Autore, ma eliminare completamente il telos soprannaturale dall’indagine significa rinunciare non solo a comprendere la Summa, ma forse in definitiva anche l’uomo stesso, a tutto vantaggio di un’ipostasi irreale e artefatta del filosofo, che non di rado, per gettare dalla finestra i pregiudizi, finisce per obnubilare anche il suo dovere di adeguamento imparziale alle res.
Come l’Etica di Aristotele si apriva osservando che l’uomo agisce per un fine, e tale deve essere la sua ultima felicità, così avviene in S. Tommaso che il discorso sia principiato dalla constatazione dell’esistenza di un unico fine ultimo, a cui sono orientati tutti i beni particolari. Come risultato di un processo di successiva esclusione di possibili fini ultimi, che scoprono immancabilmente la propria inconsistenza, si deduce che nessun bene creato può dare soddisfazione a tanta ricerca ad eccezione della beatitudine, che è un’operazione dello spirito ed è qualche cosa di creato ed esistente nell’uomo, che ne costituisce l’ultima perfezione.
La beatitudine dell’uomo consiste in un ritorno a Dio tanto intimo da poter vedere la Sua Essenza, senza averne però la completa comprensione, che appartiene solo a Lui. Effetto concomitante (sicut aliquid concomitans) di questa Visione è una piena e compiuta felicità, unita alla rettitudine della volontà, che si era resa necessaria per poter ordinare razionalmente tutte le cose al raggiungimento di questo fine. Stupisce leggere che alla beatitudine è richiesto anche il benessere del corpo, per quanto riguarda la vita presente, perché esso è necessario alla virtù. Contro S. Agostino che, con Porfirio, obbietta: “Ad hoc quod beata sit anima omne corpus fugendum est” (Affinchè l’anima sia beata il corpo deve interamente essere messo da parte), S. Tommaso non potrebbe essere più schietto paladino della bontà ontologica e metafisica del corpo: “Sed hoc est inconveniens. Cum enim naturale sit animae corpori uniri, non potest esse quod perfectio animae naturalem eius perfectionem excludat” (Ma questo non è logico. Infatti, essendo naturale per l’anima l’unione del corpo, non può essere che la perfezione dell’anima debba escludere la sua perfezione naturale).
La felicità che si ricava in questa vita, dalla contemplazione e dall’esercizio della virtù, è imperfetta, è sottoposta al logoramento da parte del male, ma rimane la più alta conquista a cui si possa aspirare ed essa, appunto perché richiede e comporta una certa misura di merito, non distrugge la volontarietà e libertà degli atti umani.
La natura dell’uomo è per essenza libera e razionale: solo la rettitudine dell’intenzione e della ragione speculativa e contemplativa possono portarlo realmente alla perfezione, ossia la quiete dei sensi e l’appagamento dell’intelletto nel suo oggetto, la verità, che sarà Bene illimitatamente fruito nello stato di beatitudine celeste ma che importa nondimeno – qui lo spazio umano che occorre rilevare – la vita in questo mondo.
Il fine dell’uomo non si aggiunge alla sua essenza come qualcosa di esterno, ma è la conseguenza di quello che il Creatore, creandolo, ha posto nella sua natura. «Deus qui est institutor naturae non subtrahit rebus id quod est proprium naturis earum» (Dio che è l’ordinatore della natura non sottrae alle cose quello che è proprio della loro essenza).
Persino nel momento di più elevato ardore spirituale, quando chi è dedito alla vita contemplativa contempla attivamente, l’uomo rimane libero, e la sola ragione di ciò viene dall’esser questa la sua natura propria, immodificabile dalla nascita alla morte e dopo la Resurrezione.
Questa libertà, quanto più collabora nel divenire liberamente passiva e disponibile alla mozione di Dio, è meritoria: l’equilibrio fra intervento divino e collaborazione umana è stabilito, sottile e delicato, ma posto di fronte al lettore con una tale chiarezza da disperdere ogni angoscia medievaleggiante.
Grazia e libertà formano un unico organo che agisce naturalmente nel creato, dal cui buon connubio dipende la Salvezza eterna dell’individuo, il perdono e la stessa possibilità di permanere nella virtù. Ecco allora quei bellissimi squarci di umana consapevolezza, in cui si manifesta la complessa relazione fra azione e volontà: quando homo ex iudicio rationis eligit afflici aliqua passione, ut promptius operatur, cooperante appetitu sensitivo, sic passio animae addit ad bonitatem actionis (“quando un uomo elegge ragionevolmente di lasciarsi coinvolgere da una qualche passione, per operare con maggior prontezza, in accordo con l’appetito sensibile, questa passione dell’anima aggiunge qualcosa alla bontà dell’azione”).
E così si chiude il cerchio: l’etica non può rinunciare al mondo, quel mondo in cui si moltiplica lo splendore del Sommo Bene, ma il suo fine non è la beatitudo huius vitae, come pensava il pagano Aristotele e, in un particolare momento della sua maturazione filosofica, lo stesso Dante, che qui si mostra lontanissimo dalla teologia Scolastica.
Tutta l’etica di San Tommaso può dirsi saldamente fondata sul perseguimento della beatitudine, perché la beatitudine è fondata sull’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. La teologia è, più che la sostanza, la stella rectrix di un trattato scientificamente ed empiricamente concepito per rendere ragione del grande mistero intorno all’uomo.
La Rivelazione illumina ed eleva alle sue ultime conseguenze razionali e sovrarazionali la percezione naturale di Dio. La verità intorno all’uomo, come ogni cosa vera, appartiene a un universo creato e ordinato perfettamente (cioè compiutamente) da Dio: è una realtà data già in partenza – prima che lo scrittore impugni la penna – nella sua oggettiva totalità, e può e deve dunque essere riconosciuta ed esposta progressivamente dal Maestro avendo in mente ab initio il progetto complessivo.
Leggiamo infatti che l’Aquinate aveva già dato la propria definizione di persona: Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura. Unde, cum omne illud quod est perfectionis, Deo sit attribuendum, eo quod eius essentia continet in se omnem perfectionem; conveniens est ut hoc nomen persona de Deo dicatur.
Si noti che la proprietà di essere il più perfetto in tutta la natura precede l’aristotelica ormai canonica razionalità, quasi che questa fosse la causa di quella. Persona significa ciò che è perfettissimo in natura, scilicet (il termine ci avverte che ora si dirà in cosa consiste questa perfezione) una natura razionale per sé sussistente. La definizione che ne aveva dato Boezio “naturae rationalis individua sustantia”, innestata all’interno della metafisica tomista, subisce una immediata espansione del proprio significato.
Il risultato è emblematico della attenzione con la quale S. Tommaso coglie il meglio di ogni autore a sua disposizione: nel discorso sulla persona si riconoscono insieme Aristotele e Boezio, Platone, S. Agostino e lo Pseudo-Dionigi Areopagita. Un qualunque ente per poter sussistere o è atto puro (e tale è soltanto Dio) o si compone di potenza e atto – Ipse dixit – e sappiamo che in natura la materia assume il ruolo di potenza e la forma ne è l’entelechia, la realizzazione. Tale realizzazione per se stessa non è sufficiente a garantire l’esistenza: la debolezza che aveva tenuto sotto scacco il platonismo si risolve introducendo la nozione di actus essendi e distinguendola sia dalla forma o essenza – ciò che partecipa e che è proprio della creatura (ciò che ha l’essere) – sia dall’essere – che è il partecipato e si identifica, nella sua purezza ed eterna sussistenza, con il Creatore (ciò che è l’essere). Dunque, l’esistenza degli enti si predica per analogia rispetto a quella dell’Ente sommo. Accettato, rielaborato e al contempo approfondito, l’ilemorfismo classico (la teoria secondo cui ogni cosa è composta di materia e forma) approda all’apice della sua elaborazione, che non corrisponde al massimo grado di complessità, raggiunta e raggiungibile aumentando a dismisura le distinzioni, ma al contrario trova la sua forza nella potenza unificatrice del pensiero di S. Tommaso.
L’uomo è questa composizione sostanziale e non più separabile di materia e forma, ma la sua esistenza ne determina qualcosa in più: l’individualità. L’ente esistente e individuato non è coestensivo alla sua forma, ma si compone di una essenza propria (per es. la razionalità dell’anima razionale) e di altri accidenti (per es. la virtù) che insieme definiscono questo o quel particolare essere, rendendo intellegibile la ricchezza che si osserva nella realtà.
L’uomo rimane uomo anche senza la virtù, ma questa virtù aggiunge qualcosa alla sua perfezione, ossia l’ordine delle azioni e della volontà secondo ragione, come emergerà subito sotto. Non si può fare a meno di notare una sensibilità speciale dell’Angelico per la natura, indagata attraverso il doppio canale della scienza aristotelica e dell’eloquenza dei padri e dei classici; e in particolare per la natura umana, alla cui spiegazione è finalizzata la vasta trattazione intorno agli abiti, che lo porta a esplorare ampiamente i modi e le disposizioni in cui l’essere libero per eccellenza può trovarsi. L’abito è infatti una specie della qualità e consiste in un dato modo di aversi, una disposizione che le cose possiedono intrinsecamente, che le porta ad agire rispetto a se stesse o a cose esterne.
Al gusto moderno questa distinzione potrebbe apparire un insuperato residuo aristotelico, un preambolo metafisico non necessario, ma a una più attenta analisi esso si rivela osservazione di notevole profondità per radicare il discorso etico esattamente lì ove è la sua sede più ricca di implicazioni, nell’uomo. Solo l’uomo, a cui sono subordinate gerarchicamente le altre nature mondane, è degno di questa attenzione.
L’abito non riguarda Dio, che è atto puro, e non riguarda i corpi inanimati, gli animali irrazionali e i moti celesti, determinati dalla natura a un solo appetito, quello naturale, p. es., del moto circolare. Vi è una differenza incomponibile fra la potenza, che è neutra rispetto al bene e al male, meccanicamente determinata al corrispettivo atto, e l’abito, ove prevale la componente teleologica, quindi la distinzione essenziale fra abiti buoni e abiti malvagi.
Tommaso, aprendo con gli abiti il suo trattato sulle virtù e i vizi, consegna al dominio della possibilità (la potenza disposta ma non determinata a ordinarsi verso un certo fine) il regno dell’etica.
Propriamente virtuosi o viziosi sono gli abiti e non le disposizioni, queste ultime distinte per una loro imperfezione e fragilità: disposizioni sono la salute, la bellezza, la scienza incipiente; abiti sono la fortezza, la scienza maturata attraverso la dimostrazione. Potremmo paragonare l’abito alla capacità di scrivere e la disposizione a un momento di particolare ispirazione letteraria.
Gran parte dell’ascesa dell’uomo verso la vita retta consiste nell’acquisire abiti buoni, costanti inclinazioni al bene, ossia virtù. L’Autore non esita a riprendere da S. Agostino la definizione di virtù, contenuta nella raccolta di Sentenze di Pietro Lombardo e dunque universalmente nota al pubblico colto:
“Virtus est bona qualitas mentis, qua recte vivitur, qua nullus male utitur, quam deus in nobis sine nobis operatur”.
L’affascinante risposta alla quaestio, esemplare per l’originalità del Maestro domenicano, si svolge in un confronto quasi contrappuntistico con Aristotele; ogni parte del discorso è fatta corrispondere a una delle quattro cause: materialmente la virtù si trova nella mente, essendo secondo la forma un abito (genere prossimo) buono (differenza specifica) della volontà che ha per fine l’operazione volta sempre al bene ed è prodotta in noi da Dio come causa efficiente. Quest’ultimo punto – si stupirà il lettore abituato a considerare S. Tommaso soltanto come vertice della cultura medievale e non come iniziatore di una sensibilità nuova – apre una riserva mirevole per quanto sottile: attribuire unicamente a Dio la causa prossima di tutte le virtù sarebbe inesatto, poiché tale aggiunta vale per le virtù infuse, ma vi sono abiti che l’uomo acquisisce con l’esercizio. S. Agostino non avrebbe mai concordato, ma possiamo immaginarci che lo studente del XIII secolo, erede dei dibattiti di Abelardo e dell’ottimismo scientifico albertiano, non mancasse di considerare la propria libera azione come una possibilità di collaborare con l’ordine provvidenziale voluto da Dio, rinunciando ai timori paralizzanti della superstizione popolare, alle negazioni del libero arbitrio che provenivano dall’averroismo estremo, e sentendo tutto il calore di quell’umanesimo che comincia a penetrare nella coscienza dell’epoca come un raggio di luce in una chiesa.
L’UMANESIMO DI SAN TOMMASO
San Tommaso è questo raggio di luce, e altrettanto luminosa può dirsi la sua scrittura, come si vedrà fra poco, che non manca di brillare per precisione, musicalità e coerenza, ma anche per una certa disponibilità a essere prismaticamente sviluppata dalle sfumature dell’interpretazione. Così il tomismo pone le condizioni potenziali per rafforzarsi da se stesso: trasmettendo agli allievi la fiducia nel chiarimento delle verità di fede che fu propria del Maestro, sempre pronto tuttavia a gettare le pagine filosofiche nel fuoco, come fossero paglia da ardere, per ritirarsi nella silenziosa contemplazione delle verità acquisite, in quello spazio dell’anima dove la Grazia santificante le ha collocate. Nessun ostacolo è forse maggiore al buon uso dell’intelletto della fissità delle dottrine, cui alcuni maestri si attaccavano gelosamente, non senza un po’ di narcisismo, facendo da esse dipendere la propria gloria mondana.
Al lettore attento è sempre data la possibilità di inserirsi, entro la prosa filosofica all’apparenza nitidamente impersonale e distaccata della lettera tommasiana, per ritrovare finemente descritti e cesellati i casi della propria vita e, insieme, una guida autorevole per evitare il viale lastricato della perdizione (o della disperazione esistenziale) e tentare con piè sicuro l’andana della Grazia.
La struttura elenctica gioca con il lettore, lusingandolo di assistere a un reale dibattito, illudendolo di poter partecipare in diretta con il suo assenso, le sue obiezioni, persino arricchendo la già rotonda copia di esempi con la propria esperienza personale. Lo svolgimento della quaestio, statuaria nella formulazione, agilissima nello scorrere degli argomenti, sorprende per la sua freschezza mai smarrita in tutta l’opera: freschezza che ne svela la bellezza perenne. Si mostra dapprima una conclusione probabile che sarà smentita in seguito; il lettore può conoscere in anticipo la conclusione, rovesciando l’ipotesi, ma non riesce a figurarsi il processo, come in una partita scacchistica della quale si conosce la disposizione finale delle pedine ma non le mosse agite e le posizioni intermedie. Seguono gli argomenti a favore, contrapponendosi alla sùbita rivelazione della verità finale; questo passaggio non solo serve a dar voce alle ragionevoli opposizioni e mostrare didatticamente esempi pratici di confutazione, ma comporta l’innalzamento dell’asticella della difficoltà, aumentando il desiderio di giungere alla risposta del Maestro non come esito scontato, ma al modo di un bene arduo da conseguire affrontando le asprezze della dialettica.
La funzione del sed contra, che ritroviamo immancabilmente in ogni quaestio, potrebbe sfuggire al lettore moderno, ma rimane essenziale all’interno della economia argomentativa, quale fonte di autorità – di solito una citazione di un filosofo, Santo Dottore o della Sacra Scrittura – di cui il teologo necessita per conferire piena legittimità alla sua posizione. Spezza inoltre la catena di argomenti a favore, e comunica l’appressarsi della soluzione fin dall’inizio precipitosamente immaginata. Moti di anticipazione, tensioni e scioglimenti, come si è mostrato, percorrono sotterraneamente la struttura dei singoli articoli: la Summa è un concerto di passioni. Ma ci sono chiaroscuri ben più abbaglianti e rivelatori della sua importanza culturale epochemachend.
Il lettore – o lo studente – è messo di nuovo realisticamente in contatto con se stesso, con la propria natura, si riscopre uomo non abbandonato alla miseria del mondo e della carne, ma capace di risalire per aspera ad astra. Attraverso questa ratio, messa in luce già nella Summa Contra Gentiles, si procede a giustificare il possesso lecito dei beni e la fruizione regolata d’essi89, la bontà della vita coniugale e il consumo dei cibi, per presentare solo alla conclusione dell’iter squisitamente umano la prospettiva di un bene migliore, più che umano.
La strada per giungere alla beatitudine è la virtù, la buona volontà, non la vana scienza – come ricorderà anche il Petrarca del De ignorantia – e si mostra ai semplici così come ai dotti. Guai a chi invece si sottrae all’onere di un severo e onesto esame interiore: sfuggendo alla contrizione, altro non chiede che trascinare seco gli spettri del proprio indugio alla Salvezza, o esser trascinato da essi.
Ecco ciò a cui si deve preparare il lettore di S. Tommaso: un confronto con se stesso, e con il proprio passato e il proprio presente, letto alla luce di una ragione che non si ferma alla superficie ma finisce il più delle volte per smascherare senza tregua le nostre ipocrisie, svelando nel loro carattere aberrante le colpe che si pensava di aver sepolto sotto il tappeto della coscienza.
Questa prodigiosa virtù catartica, autentico capolavoro (miracolo?) psicologico del Medioevo, fa della Somma di Teologia un prodotto già umanistico, pronto a segnare nell’anima il lettore come le Confessioni avevano operato nel Poeta di Arezzo. L’esperienza di una conversione esistenziale che coinvolge un vizio del passato felicemente rimosso attraverso un processo di catarsi della colpa, rivissuta per intero nel dolore e infine razionalmente compresa, è carattere nodale del primo Umanesimo: così Dante, che in giovinezza fu indubbiamente attratto dall’erotismo guinizzelliano, sviene di fronte alla condanna eterna di Paolo e Francesca – quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo! – e piange amaramente nel Paradiso Terreste alle parole di Beatrice, che lo rimprovera di aver smarrito la Fede con i suoi vaneggiamenti. Non diversamente, Petrarca paga in lacrime il suo tributo al Santo d’Ippona durante i tre intensi giorni di colloquio del Secretum; specialmente nel punto in cui il male è più radicato nell’esistenza del Nostro, e quindi più ostinato da rimuovere, i dolci conforti dell’eloquenza cedono il passo alla durezza degli argomenti, e la chirurgia succede all’omeopatia.
L’etica dell’Aquinate è mossa insieme dalla ragione e dalla pietà cristiana: laddove molti contemporanei tendevano piuttosto a rinfocolare l’orrore per i peccati e il timore della dannazione eterna a scopo edificante, la sua scienza morale non è sufficiente da sola a condannare o a giustificare gli uomini, è però sufficiente a discernere il bene dal male e veglia affinché il vizio non sia scambiato per virtù.
Ambisce insomma a incamminare l’uomo verso la propria collocazione nell’ordo universale, ossia – come l’Angelico Dottore ha dimostrato con sicurezza – la disponibilità alla contemplazione dello splendore intelligibile del Creato, vera meta dell’uomo in quanto uomo, la quale difficilmente può darsi senza l’esperienza sensibile e la pratica concreta delle virtù.
Esplorare il Creato – secondo la mens medievale che, come abbiamo visto, fu tutt’altro che superstiziosa – significa rintracciare la bontà perfettissima del suo Creatore, che si irraggia e si rispecchia nell’ordine delle cose. La Summa è eminentemente una guida, peraltro rivolta ai principianti, per compiere questa navigazione, senza il rischio di cadere nell’eresia. Nulla che contrasti con la classicità latina, dunque, semmai sono le stessa vestigia pagane – intuizione già compiutamente umanista – ad essere recuperate dal barbaro oblio imposto loro dai secoli bui e innalzate al servizio dello studio della trascendenza, incastonate lì dove più hanno valore, nel sostenere lo sguardo della ragione sull’uomo e sulla sua anima.
“La morale tomista è dunque nettamente opposta a quella distruzione sistematica delle tendenze naturali nella quale spesso si coglie il tratto distintivo dello spirito medievale. Essa non comporta neppure quell’avversione verso il piacere dei sensi, nella quale spesso viene ricercata la differenza specifica dello spirito cristiano rispetto al naturalismo greco” (E. Gilson, Il Tomismo, Jaca Book Edizioni, Milano 2011, p. 467).
I RAPPORTI DI SAN TOMMASO CON LE LETTERE
San Tommaso eccelso scrittore e Petrarca filosofo sopraffino, sarà questo forse l’Antiphaten Scyllamque et cum Cyclope Charybdin di cui parlava Orazio?
Sono note le forti riserve – per usare un cortese eufemismo, scoprendoci dal quale dovremmo più propriamente parlare di diffidenze – che il Doctor Angelicus riservava alla letteratura del suo tempo. Occorre altresì porre estrema attenzione alla contestualizzazione storica e letteraria entro cui un tale giudizio si poté sì recisamente adagiare fra le altrimenti pacate posizioni del suo grazioso stilo: la quasi egemone produzione letteraria dell’epoca si potrebbe con buona approssimazione riassumere nelle opere provenzali legate all’amor cortese, la cui diffusione anche presso le corti italiane è testimoniata dalla più famosa vittima dell’amore idealizzato: Francesca da Rimini. Amore idealizzato, appunto, che in molti casi rischiava di sostituirsi all’amore per lo stesso Creatore, colpa platealmente inconciliabile con il senso cristiano della vita. Condannare la letteratura di intrattenimento in volgare significava opporsi ai contenuti di essa: reagire all’influsso della gnosi platoneggiante catara che investiva la Provenza dai tempi di San Domenico di Guznam.
Resta un dubbio insanabile chiederci se il santo Dottore avrebbe temperato il proprio acceso sdegno di fronte a un opera di assoluto spessore dottrinale e coerenza teologica come la Divina Commedia. Sappiamo invece con certezza che egli stesso si valse del mezzo poetico, con indiscussa competenza metrica, per scrivere l’inno Pange Lingua:
Pange, lingua, gloriosi
Córporis mysterium,
Sanguinisque pretiosi,
Quem in mundi pretium
Fructus ventris generosi
Rex effudit gentium.
Nobis datus, nobis natus
Ex intacta Virgine,
Et in mundo conversatus,
Sparso verbi semine,
Sui moras incolatus
Miro clausit ordine.
In supremæ nocte cenæ
recumbens cum fratribus,
observata lege plene
cibis in legalibus
Cibum turbæ duodenæ
se dat suis manibus.
Le capacità poetiche di prim’ordine dell’Aquinate si esibiscono nella piena bellezza del latino medievale e nei versi a rima alternata che vincono molti esametri dell’Africa petrarchesca. Stupisce che la poesia teologica dell’Aquinate sia perlopiù sfuggita, nel suo supremo valore di sintesi spirituale e mistica, a molti commentatori del XX secolo, cui fa eccezione il Gilson.
San Tommaso è un classico, non meno di quanto si addicano a lui i meriti di filosofo e teologo. Non già un filosofo classico, nella misura in cui l’aggettivo finisca per essere inglobato nel sostantivo, ma un esempio perenne di equilibrio umano, di eleganza dello stile e validità delle argomentazioni. Il suo linguaggio è stato definito sovranamente perspicuo, sintatticamente impeccabile, vigoroso e insieme limpido e si potrebbe confrontare la sua Summa, nel campo del pensiero, con la Divina Commedia.
Vi è una naturalezza nel suo metodo, capace di condurre l’anima ad accogliere una conclusione e allontanarsi dall’opzione avversa, che direttamente si contrappone tanto al naturalismo degli scienziati averroisti quanto all’inanità del ferrato sillogizzare della Scolastica posteriore. Quasi ci si dimentica del dogma, mentre la ragione è condotta a indagare la fede con prudente ottimismo, dei cui limiti è il Teologo stesso ad avvisarci.
La retorica ampollosa e indigesta del gotico, con il suo uso sconsiderato di figure poetiche, allegorie e artifici, è superata e si aprono le porte a un nuovo gusto intellettuale che sarà proprio Dante a inaugurare con il suo Poema.
La moderazione e la delicatezza, nonché l’elegante pudore della scelta lessicale, si mostrano per esempio nel perfetto quadro dedicato alla vita coniugale. Come pensare che, un secolo dopo Lotario, uno scritto affronti con tanta leggiadria i medesimi argomenti del De miseriae humanae conditiones?
Analizziamo un qualunque passaggio di un’opera di Tommaso: in esso non troveremo il cogito silenzioso nell’atto di emanare da sé le proprie meditazioni; vi troveremo invece la dinamicità di un simposio di Autori, in cui il Nostro si limita a prendere una parte fra le molte voci che si levano in dialogo, talvolta confluendo in risposte corali.
La stessa percezione che si ritrova, mutatis mutandis, in una epistola umanistica, là dove brilla un verso di Virgilio, una sentenza di Cicerone perfettamente incastonate in una cornice di eloquenza originale. Le sentenze dei classici sono come dardi acuti che, predisposti dalla divina retorica ad essere raccolti dall’anima, stimolano la volontà a desiderare e a ricercare efficacemente il bene morale; così in Tommaso si ritrovano le sentenze scritturali e patristiche per sollecitare l’intelletto nella sua operazione. La differenza è accidentale rispetto al metodo, ma può dirsi complementare rispetto alle due vie, morale e teoretica, per le quali si ascende alla beatitudine.
Uno studioso dotato di ammirevole pazienza ha raccolto e catalogato tutte le citazioni dirette presenti nelle opere di S. Tommaso108: il totale approssimativo ammonta a 38 000 citazioni, con una densità notevolissima che in taluni casi raggiunge la media di 14 citazioni per pagina. Circa due terzi di queste proviene direttamente dalle Sacre Scritture (25 000), privilegiando i libri del profeta Isaia per il Vecchio Testamento, San Paolo e S. Giovanni per il Nuovo Testamento; più della metà delle restanti appartengono ai Padri della Chiesa (8 000) dei quali S. Agostino è il principale rappresentante, con ben duemila sentenze che costellano l’opera, confermando quella massima così ricca di veraci implicazioni secondo cui la Summa Teologica è condotta «in dialogo costante con
Agostino»; ultimi in ordine di rilievo quantitativo si collocano i filosofi pagani (5 000) fra i quali – nessuno si stupirà – prevale lo Stagirita (con 4 300 citazioni), ma non in modo così preponderante come ci saremmo aspettati in apertura di questa brevissima rassegna di auctores.
Si noti quanto possa essere lontana dal vero, guardando solo alla statistica, la meschina semplificazione del dibattito medievale come tutto accentrato su Aristotele, quando le opportunità della ricerca universitaria erano propiziate da una abbondanza fortunatamente non soverchiante di autori e tematiche; il mondo antico aveva provvidenzialmente lasciato l’essenziale, condizione che rappresentò l’optimum forse non più eguagliato per il fecondarsi della nuova cultura, i cui picchi vertiginosi lasciano tuttora attonita la nostra garrula modernità.
Tommaso non fu nemmeno l’aristotelico puro ed esclusivista immaginato dal neo-tomismo del secolo passato; preferì identificarsi nell’umile frate predicatore che si pone a servizio della contemplazione e di Dio, come dichiara lui stesso all’inizio della S. C. G. L’Ordine domenicano deve a lui quella massima che condensa tutta la missione del suo insegnamento come Maestro di teologia: contemplata aliis tradere109. L’uomo fu un filosofo, il cristiano un santo, il teologo un maestro, un padre di umanità agli occhi di chi scrive.
SAN TOMMASO E PETRARCA
In una Atene ideale, Tommaso d’Aquino potrebbe trovare non minori occasioni di dialogo con Francesco Petrarca rispetto a quelle che lo avvicinano a Dante Alighieri; se nel Divino Poema è dato riscontrare molti passaggi affini alla teologia dell’Angelico Dottore, nonché quella gerarchia celeste a lui così cara, nell’Umanesimo convolano a nozze la riscoperta del valore umano dei classici, unito al corredo delle loro esemplari virtù, e la filosofia etica dell’Aquinate che, come si è visto, valorizza nell’uomo tanto la cellula divina, ossia la partecipazione all’essere, quanto la bontà naturale, perfettibile con gli abiti buoni ma già per sé stessa finalizzata al più alto scopo dell’esistenza.
San Tommaso fu, se non il primo, il più luminoso faro umanistico della sua epoca, stella di traguardi razionali fino allora intentati e porto sicuro per i naviganti smarriti nei pelaghi dell’aristotelismo, e contribuì forse più di tutti, specialmente nella sua etica, a dare un nuovo equilibrio alla vita e ai costumi, unificando dottrinalmente il carro della Chiesa e mediando quelle dispute che solo Petrarca, nel secolo successivo, riuscì a comporre definitivamente portando, novello Scipione, la guerra in terra nemica, ossia sulle pagine degli autori pagani, direttamente a casa degli oppositori del Cristianesimo suoi contemporanei, ricercando nei classici latini, e quindi nei greci che da essi sono mediati, la sapienza che conduce l’uomo a vivere rettamente e a salvare la propria pars immortale, smentendo una volta per tutte la malcelata eresia di quanti ancora volevano sacrificare il passato glorioso della retorica per propiziarsi un futuro di dispute naturaliste.
Si è tentato di scoprire se fosse possibile scorgere nel filosofo un maestro di eloquenza e nel poeta un fine ragionatore e si è giunti a una conclusione. Nulla impedisce – per esser concisi – che una deduzione della Summa sia tratteggiata con la più melata eloquenza classica e, al contrario, che vi siano cospicui echi filosofici nella bella pagina del Canzoniere, del De Remediis o del Secretum. Petrarca cita Aristotele, Tommaso sa armarsi all’occorrenza di Cicerone e Sallustio.
Leggendo contemporaneamente opere dei due autori si ritrova un’aria di familiarità, una consonanza che ne amplifica vicendevolmente l’efficacia, ben lontana da quella nimistà che solitamente si pone fra Scolastica e Umanesimo. Talvolta si ha l’impressione che il “medievalissimo” Tommaso, amorevole e indulgente con le fatiche dell’apprendimento, ceda il passo al rigore di un Petrarca (anzi della Ragione) spietatamente incalzante:
Dolore: Io ho lo ingegno tardo ed intenebrato.
Ragione: Pensi tu rimediare a questo difetto con isdegno dell’animo o col lagnarti? Questo fatto ha bisogno d’altro rimedio. Non debbe l’uomo di ciò viziato mettere tempo in dormire troppo, non in lussuria, non in troppo mangiare, né in troppo bere, né in vane favole, non andare cercando cagioni di scuse in volere darne la colpa alla natura, non si lasci vincere all’ozio; ma, debbe vegghiare, levarsi, isforzare la potenzia dell’animo, cacciare da sé ogni pigrizia, astenersi da’ diletti carnali, sollecitamente attendere allo studio.
Al contrario, chi potrebbe riferire con sicurezza a quale dei due Autori appartiene il passo che segue, se lo trovasse riportato senza indicazioni sulla fonte? (Dal volgarizzamento di Giovanni da San Miniato, De’ rimedii dell’una e dell’altra fortuna di messer Francesco Petrarca, Bologna 1867, Lib. II cap. 99).
“E perciò essendo la certezza della prole il vantaggio principale che si attende dal matrimonio, non vi fu legge o consuetudine umana che permettesse la pluralità dei mariti. Anche gli antichi romani la ritennero un abuso, come riferisce Valerio Massimo, poiché essi ritenevano che la fede coniugale non dovesse sciogliersi neppure in caso di sterilità.” (Dalla S.C.G. lib. III cap. 124. La citazione di Valerio Massimo si riferisce a Facta et dicta memorabilia, II, 1, 4).
San Tommaso si propose di conoscere la virtù in generale, additò la meta ultima di questo studio e lo rese possibile fugando le annose incertezze che impedivano un incontro realmente fausto e fecondante fra ragione e fede, senza condannare la natura creata ma anzi poggiando su di essa e sull’esperienza il peso della sua imponente filosofia; Petrarca mostrò un geniale corollario di questa dottrina, inaugurò una via cristiana di vivere in pace con il mondo e la cultura antica, fornendo modelli pratici da seguire, prontamente realizzabili, e riscoprendo i detti memorabili che sostengono l’anima nel duro esercizio quotidiano della morale, storicamente accertati e pronti per vivere nuovamente sulla bocca degli uomini, raccolti dagli umanisti e riconsegnati, in nuova e più bella veste, ai secoli a venire. Così San Tommaso con Aristotele, così Petrarca con Cicerone.
SCOLASTICA E UMANESIMO NEI SECOLI SUCCESSIVI
Sorprende, in conclusione, notare che se frutto vi fu dall’uno e dall’altro ramo nei secoli posteriori, si conobbe piuttosto nella direzione di un incontro e di una fusione estetica e speculativa fra Umanesimo e Scolastica – sempre più identificata tuttavia con l’aristotelismo – anziché in una netta separazione e progressiva divergenza.
Lo annuncia il magmatico fermento artistico del Rinascimento, dove soggetti profani si accostano talvolta provocatoriamente, talvolta con pudica riverenza al sacro, e le stesse Annunciazioni, Natività, Vergini assumono temperamenti più umani, partecipano alla vita: in poche parole, accolgono la lezione dell’Umanesimo, in osmosi con la nuova cultura iniziata dal Petrarca. I conflitti continuarono e i toni rimasero accesi per tutto il Quattrocento presso i successori dell’una e dell’altra scuola (si pensi al Valla o agli esponenti dell’accademia padovana), ma presto l’entusiasmo iniziale per il naturalismo andò estinguendosi, per asfissia, con la mancanza di nuove scoperte, complice il cristallizzarsi dell’aristotelismo in una setta di epigoni vanamente infatuati del Maestro e lo smarrimento di quell’attenzione per i dati dell’esperienza, che fu propria di un Ruggero Bacone, in favore della deduzione astratta e cavillosa.
Presto non ci sarebbe più stato bisogno di trattati polemici come il De Ignorantia o delle dispute fra un Coluccio Salutati e un Giovanni Dominici; la tregua si compose a favore dell’ottimismo scolastico per l’incontro fra ragione e fede, della riscoperta umanistica del valore etico-sapienziale degli antichi. Non vi era più motivo di riaprire la conflittualità fra Atene e Roma, fra Roma e Parigi e poté così fiorire la ricerca della proporzione geometrica nelle arti, la pratica dell’imitazione nelle Lettere e la poesia si colorò di un incanto pietoso.
Finché il pomo si colse maturo – “maturo”, non dico “perfetto” o “autentico” – nel Concilio di Trento, che per rispondere alle note circostanze non solo apologetiche ma di ordine interno giunse all’insperato successo di unire la Cristianità sotto una comune egida nel Cinquecento. Il più grande poeta di quel secolo, in uno stesso canto della sua Gerusalemme liberata e in un intervallo di poche stanze, poteva accostare uno dei più fedeli echi virgiliani della nostra letteratura a una limpidissima e profonda preghiera come se non vi fosse in natura nulla di più affine. Così si legge nella LXXVI stanza del settimo Canto:
Questi sul Tago nacque, ove talora
l’avida madre del guerriero armento,
quando l’alma stagion che n’innamora,
nel cor le instiga il natural talento,
volta l’aperta bocca incontra l’ora,
raccoglie i semi del fecondo vento:
e de’ tepidi fiati (o maraviglia!)
cupidamente ella concipe, e figlia.
E subito dopo, nella stanza LXXVIII, si legge per voce del conte Raimondo, che varca in quel momento l’apice della sua aristìa, lui vecchio cavalcando incontro al torreggiante Argante, questa commuovente orazione:
Signor, tu che drizzasti incontra l’empio
Golía l’arme inesperte in Terebinto:
Sicch’ei ne fu, che d’Israel fea scempio,
Al primo sasso d’un garzone estinto;
Tu fà ch’or giaccia (e fia pari l’esempio)
Questo fellon da me percosso, e vinto:
E debil vecchio or la superbia opprima,
Come debil fanciul l’oppresse in prima.
La devozione si muove con realismo, l’episodio veterotestamentario è approfondito, l’equilibrio fra le parti ricercato. Virgilio innalza il tono del canto, la Fede lo porta a compimento, e un in un unico personaggio, un unico episodio, si vedono compendiate l’eleganza classica e il nuovo vigore del Cristianesimo tridentino. Una hirundo non facit ver, e questa singola occasione potrebbe non essere sufficiente – anzi sicuramente non lo è – perché noi possiamo estenderla con sicurezza a un’intera epoca, ma è significativo che la cultura coeva al Poeta, il quale fu – come è noto – scrupolosissimo del riconoscimento della propria ortodossia, fosse ben disposta ad accogliere suggestioni di questo genere.
Un’esigenza a quanto sembra non diversa è avvertita ancora un secolo dopo, quando il massimo splendore del Barocco imponeva all’agone poetico intrecci sempre più arditi degli elementi che ne hanno costituito la base cinquecentesca. Si cerca di collocare le passioni dell’uomo, nel loro vivo manifestarsi, in un quadro di realismo raziocinante che ne moltiplichi a dismisura l’effetto. I personaggi si esprimono talvolta in una eloquenza concettosa, in un razionalismo appassionato che sorprende per lucidità e cura dell’elemento logico. In una palpitante sequenza dell’Orfeo, il cantore tracio implora la discesa agli inferi con queste rime:
Non viv’io no, che poi di vita è priva
mia cara sposa, il cor non è più meco,
e senza cor com’esser può ch’io viva?
Così pure elementi della fisica aristotelica, penetrati gradualmente nelle corti italiane e presso il pubblico colto, echeggiano nel “Lamento di Ottone”, scritto dal poeta veneziano Giovanni Francesco Busenello:
E pur io torno qui, qual linea al centro,
qual foco a sfera, e qual ruscello al mare
et huiusmodi cetera multa.
Si è voluto porre umilmente a lato delle considerazioni più puntuali, che sono emerse sopra, quest’ultimo paragrafo, in cui la suggestione prevale sul dato probante, non per soddisfare una bolsa esigenza di completezza, ma per additare al lettore (e a me stesso negli istanti di smarrimento) una incoraggiante linea di sviluppo dell’incontro fra Scolastica e Umanesimo, che si è concretamente realizzata non in casi provinciali ed eclettici, ma proprio negli autori di maggior rilievo della cultura italiana ed europea, abbracciando ante litteram la tesi che si è tentato con convinzione di dimostrare, e che se non è giunta a compimento del viaggio, come non si sarebbe potuto verificare rispettando i limiti di questo breve lavoro, ha avuto quantomeno il coraggio di estrarre dal fodero la bussola e guardare fisso nella direzione in cui l’ago indicava.